100 colpi di spazzola prima di andare a dormire (4 page)

BOOK: 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire
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10 ottobre 2001
17,15

Oggi è una giornata umida e triste, il cielo è grigio e il sole una macchia pallida e sfocata. Stamattina ha piovuto poco e piano, mentre adesso manca un niente che i fulmini facciano saltare la corrente. Ma non m'importa della giornata, io sono felicissima.

All'uscita di scuola i soliti avvoltoi che vogliono venderti qualche libro o convincerti con qualche volantino, indifferenti persino alla pioggia. Coperto dall'impermeabile verde e con il toscanello in bocca c'era l'amico di Roberto che distribuiva dei fogli rossi con il sorriso stampato in volto. Quando si è avvicinato per darlo anche a me l'ho guardato interdetta poiché non ho saputo cosa fare, come comportarmi. Ho sussurrato un timido
grazie
e ho continuato a camminare molto lentamente pensando che un'occasione così non mi sarebbe capitata di nuovo tanto facilmente. Ho scritto il mio numero sul foglio e, tornando indietro, gliel'ho ridato. 

«Che fai, me lo ritorni piuttosto che buttarlo come fanno gli altri?», mi ha chiesto sorridente.

«No, voglio che lo dai a Roberto», ho detto.

Stupito allora ha esclamato: «Ma Roberto ne ha centinaia di questi fogli».

Mi sono morsa le labbra e ho detto: «A Roberto interesserà quello che c'è scritto dietro...».

«Ah... ho capito...», ha detto ancora più stupito, «tranquilla, lo vedrò dopo e glielo farò avere».

«Grazie mille!», avrei voluto dargli un sonoro bacio sulla guancia.

Mentre andavo via mi sento chiamare, mi volto ed è lui che viene correndo.

«Comunque mi chiamo Pino, piacere. Tu Melissa, vero?», ha detto ansimando.

«Sì, Melissa... vedo che non hai tardato a leggere dietro il foglio».

«Eh... che vuoi farci...», ha detto sorridendo, «la curiosità è propria degli intelligenti. Tu sei curiosa?».

Ho chiuso gli occhi e ho detto: «Tantissimo».

«Vedi? Allora sei intelligente».

Sfamato il mio ego e sazia di contentezza l'ho salutato e sono andata verso la
piazzetta
di ritrovo di fronte a scuola, semi-vuota per colpa della cattiva giornata. Ho tardato un po' a prendere il motorino, il traffico all'ora di punta è orribile persino se si guida uno scooter. Qualche minuto dopo squilla il cellulare. 

«Pronto?».

«Ehm... ciao, sono Roberto».

«Uei, ciao».

«Mi hai sorpreso, sai?».

«Mi piace osare. Avresti anche potuto non chiamarmi, ho corso il rischio di avere una porta sbattuta in faccia».

«Hai fatto benissimo. Sarei venuto io a chiedertelo una di queste volte. Solo che, sai... la mia
ragazza
frquenta il tuo stesso liceo...».

«Ah, sei fidanzato...».

«Sì, ma... non importa».

«...nemmeno a me importa».

«Ma dimmi, come mai mi hai cercato?».

«E tu come mai mi avresti cercato?».

«Be'... l'ho chiesto prima a te».

«Perché voglio conoscerti meglio e voglio p po'di tempo con te...».

Silenzio. 

«Adesso tocca a te».

«Idem. Anche se la premessa la sai: sono già impegnato».

«Credo poco negli impegni, smettono di essere tali quando si finisce di credere in loro».

«Ti va di incontrarci domani mattina?».

«No, domani no, ho scuola. Facciamo venerdì, c'è lo sciopero. Dove?».

«Davanti alla mensa universitaria alle 10,30».

«Ci sarò».

«Ciao allora, a venerdì».

«A venerdì, un bacio».

14 ottobre 2001

Sono arrivata al solito in incredibile anticipo, il tempo sempre uguale a quello di quattro giorni fa, una monotonia incredibile.

Dalla mensa proveniva odore di aglio e nel punto in cui ero io potevo ascoltare le cuoche rumoreggiare con le pentole e sparlare di qualche collega. Qualche studente passava e mi guardava strizzandomi l'occhio e io fingevo di non vederlo. Ero più attenta alle cuoche e ai loro discorsi che ai miei pensieri; ero tranquilla, per nulla nervosa, mi sono lasciata trascinare dal mondo esterno e non ho badato moltissimo a me.

Lui arrivato con la sua auto gialla, imbacuccato in modo esagerato, con un'enorme sciarpa che gli copriva metà viso e lasciava scoperti solo gli occhiali.

«È per non farmi riconoscere, sai com'è... la mia ragazza. Prenderemo delle strade secondarie, impiegheremo un po' di più ma almeno non ci sarà rischio», ha detto una volta che sono salita.

Sul vetro della macchina la pioggia la sentivo battere più forte, sembrava volesse romperlo. Il posto in cui eravamo diretti era la sua casa di villeggiatura alle pendici dell'Etna, fuori città. I rami secchi e bruni degli alberi squarciavano il cielo nebuloso con piccole crepe, gli stormi volavano a fatica attraverso la pioggia fitta, ansiosi di arrivare nel luogo più caldo. E anch'io avrei voluto spiccare il volo per arrivare nel posto più caldo. In me nessuna ansia: è stato come partire da casa per andare a iniziare un nuovo lavoro, per niente emozionante, anzi. Un lavoro doveroso e faticoso.

«Apri il cruscotto, dovrebbero esserci dei CD».

Ne ho presi un paio, poi ho scelto Carlos Santana.

Abbiamo parlato della scuola, della sua università e poi di noi.

«Io non voglio che mi giudichi male», ho detto.

«Scherzi? Sarebbe come giudicare male me stesso... insomma stiamo facendo entrambi la stessa cosa, allo stesso modo.
Anzi,
forse per me ancora più disonorevole dal momento che sono fidanzato. Ma vedi, lei...». 

«Non te la da», l'ho interrotto con un sorriso.

«Esatto», ha detto lui con lo stesso sorriso.

Ha imboccato una stradina mal fatta e poi si è fermato davanti a un portone verde. È sceso dall'auto e ha aperto il portone; risalito di nuovo in macchina ho notato il volto di Che Guevara stampato sulla sua maglietta completamente fradicio.

«Cazzo!», ha esclamato. «Siamo ancora in autunno e già un tempo talmente di schifo», poi si è voltato e ha chiesto: «Ma tu non sei un po' emozionata?».

Ho serrato le labbra arricciando il mento e ho scosso il capo, dopo un po' ho detto: «No, per nulla».

Per arrivare alla porta mi sono coperta la testa con la borsa e correndo sotto quella pioggia abbiamo riso molto, come due cretini.

La casa era completamente buia; quando poi sono entrata ho sentito un freddo gelido. Mi muovevo a stento nel buio pesto, lui evidentemente c'era abituato, conosceva tutti gli angoli e perciò camminava con una certa disinvoltura. Sono rimasta ferma in un punto dove sembrava ci fosse più luce e ho visto un divano su cui ho posato la mia borsa.

Roberto è arrivato da dietro, mi ha voltata e mi ha baciata con tutta la lingua. Mi ha fatto un po' schifo questo bacio, non era affatto simile a quello di Daniele. Mi trasmetteva la sua saliva, lasciandola colare un po' sulle labbra. L'ho allontanato garbatamente senza fargli capire niente e mi sono asciugata con il palmo della mano. Mi ha preso quella stessa mano e mi ha condotta in camera da letto, sempre nello stesso buio e nello stesso freddo.

«Non puoi accendere la luce?», ho chiesto mentre mi baciava il collo.

«No, mi piace più così».

Mi ha lasciata sul grande letto, si è inginocchiato davanti e mi ha tolto le scarpe. Io non ero eccitata e nemmeno impassibile. Mi sembrava di stare facendo tutto solo perché a lui faceva piacere.

Mi ha spogliata come se fossi un manichino in una vetrina, come un commesso svelto e indifferente che sveste il bamboccio senza però rivestirlo.

Viste le mie calze ha chiesto stupito: «Ma porti le au toreggenti?».

«Sì, sempre», ho risposto.

«Ma sei una grande maiala!», ha esclamato forte.

Mi sono vergognata del suo commento fuori luogo, ma ancora di più sono rimasta colpita dal suo cambiamento da ragazzo garbato ed educato a uomo rude e volgare. Aveva gli occhi accesi e famelici, le mani che frugavano sotto la camicetta, sotto gli slip.

«Vuoi che le lasci indossate?», ho chiesto per assecondare le sue voglie.

«Certo, lasciale, sei più porca».

Le mie guance sono arrossite di nuovo, ma poi ho sentito piano piano il mio focolare accendersi e la realtà allontanarsi gradualmente. La Passione stava prendendo il sopravvento.

Sono scesa dal letto e ho percepito il pavimento incredibilmente freddo e liscio sotto i miei piedi. Aspettavo che lui mi prendesse e mi facesse quello che voleva.

«Succhiamelo, troia», ha sussurrato.

Non ho badato alla mia vergogna, l'ho scacciata via subito e ho fatto quello che mi aveva chiesto di fare. Ho sentito il suo membro diventare duro e grande, mi ha preso per le ascelle e mi ha sollevata verso il letto.

Mi ha messa come una bambola inerme sopra di lui e ha indirizzato la sua lunga asta verso il mio sesso, ancora così poco aperto e così poco bagnato.

«Voglio farti sentire dolore. Dai, urla, fammi sentire che ti sto facendo male».

In effetti il male c' stato, sentivo le pareti bruciare e la dilatazione avvenuta controvoglia.

Urlavo mentre la stanza buia mi girava intorno. L'imbarazzo era andato via e al suo posto c'era solo il desiderio di farlo mio.

«Se urlo», ho pensato, «sarà contento, me l'ha chiesto lui. Farò tutto quello che mi dirà di fare».

Urlavo e sentivo male, nessun filo di piacere mi stava attraversando. Lui invece è scoppiato, la sua voce si è tramutata e le sue parole sono diventate oscene e volgari.

Me le lanciava contro e mi entravano dentro con una tale violenza da superare persino la sua penetrazione.

Tutto è poi ritornato come prima. Ha ripreso gli occhiali sopra il comodino, ha buttato il preservativo prendendolo con un fazzoletto, si è rivestito con calma, mi ha accarezzato la testa e in macchina abbiamo parlato di Bin Laden e Bush come se niente prima fosse successo...

25 ottobre 2001

Roberto mi chiama spesso, dice che sentirmi lo riempie di allegria e gli fa venire voglia di fare l'amore. Quest'ultima cosa la dice piano, non vuole farsi sentire e poi si vergogna un po' ad ammetterlo. Gli dico che per me è la stessa cosa e che lo penso spesso toccandomi. Non è vero, diario. Lo dico solo per il suo orgoglio, lui, pieno di sé, dice sempre: «Lo so che sono un buon amante. Piaccio molto alle donne».

È un angelo presuntuoso, è irresistibile. La sua immagine mi rincorre durante la giornata, ma lo penso più come il ragazzo garbato che come l'amante passionale. E quando si trasforma mi fa sorridere, penso che sappia tenersi bene in equilibrio ed essere persone diverse in mo menti diversi. Al contrario di me, che sono sempre la stessa, sempre uguale. La mia passione è do

1 dicembre 2001

Gli ho detto che dopodomani farò il compleanno e lui ha esclamato: «Bene, allora dobbiamo festeggiare in maniera appropriata».

Ho sorriso e ho detto: «Roby, abbiamo appena festeggiato ieri abbastanza bene. Non sei soddisfatto?».

«Eh, no... ho detto che il giorno del tuo compleanno sarà speciale. Tu conosci Pino, vero?».

«Sì, certo», ho risposto.

«Ti piace?».

Timorosa di rispondere qualcosa che lo avrebbe fatto allontanare da me ho indugiato un po', poi ho deciso di dire la verità: «Si, parecchio».

«Molto bene. Ti vengo a prendere dopodomani allora».

«Va bene...», ho chiuso la cornetta incuriosita da que sto suo strano fermento. Mi affido a lui.

3 dicembre 2001
4,30 del mattino

Il mio sedicesimo compleanno. Voglio fermarmi adesso e non andare più avanti. A sedici anni sono padrona delle mie azioni, ma anche vittima del caso e dell'imprevedibilità.

Uscita dal portone di casa ho notato che nell'auto gialla Roberto non era solo. Ho visto il sigaro scuro confondersi nel buio e ho subito capito tutto.

«Saresti potuta rimanere almeno per il giorno del tuo compleanno», mi aveva detto mia madre prima di uscire e non le avevo dato ascolto, chiudendo piano la porta d'entrata mentre andavo via senza risponderle.

L'angelo presuntuoso mi ha guardata sorridente e io sono salita in macchina fingendo di non essermi accorta che Pino stava dietro.

«Allora?», ha chiesto Roberto, «non dici niente?», indicandomi con la testa i sedili posteriori.

Mi sono girata e ho visto Pino spaparanzato dietro, con gli occhi rossi e le pupille dilatate. Gli ho sorriso e ho chiesto: «Hai fumato?».

Lui ha fatto cenno di sì con la testa e Roberto ha detto: «Si è anche bevuto un'intera bottiglia di acquavite».

«A posto», ho detto, «è messo proprio bene».

Le luci della città si riflettevano sui finestrini dell'auto, i negozi erano ancora aperti, i proprietari aspettano con ansia il Natale. Sui marciapiedi coppiette e famigliole camminavano inconsapevoli che dentro l'auto c'ero io insieme a due uomini che mi avrebbero portata chissà dove.

Abbiamo attraversato la via Etnea e vedevo il Duomo illuminato dalle luci bianche e circondato dagli imponenti alberi di palma da dattero. Sotto questa strada scorre un fiume, celato dalla pietra lavica. È silenzioso, impercettibile. Così come i miei pensieri silenziosi e miti, nascosti sapientemente sotto la mia corazza. Scorrono. Mi dilaniano.

Di mattina qui vicino c'è la pescheria, si sente l'odore del mare provenire dalle mani dei pescatori che, con le unghie annerite dalle interiora dei pesci, prendono l'acqua dal secchiello e la spruzzano sopra i corpi freddi e scintillanti degli animali ancora vivi e guizzanti. Noi ci stavamo dirigendo proprio lì, anche se di notte l'atmosfera cambia. Scesa dalla macchina mi sono resa conto che l'odore del mare si trasforma in odore di fumo e di hashish, i ragazzi con i piercing si sostituiscono ai vecchi pescatori abbronzati e la vita continua ad essere vita, sempre e comunque.

Sono scesa dall'auto e mi è passata accanto una donna anziana dal cattivo odore, vestita di rosso, con in braccio un gatto anch'esso rosso, magro e cieco da un occhio. Cantava una nenia:

Passiannu 'pa via Etnea
Chi sfarzu di luci,
chifudda'ca c'è.
Viru tanti picciotti 'che jeans
si mettunu 'nmostra
davanti 'e cafe
Com è bella Catania di sira,
sutta i raggi splinnenti di luna
a muntagna ca è russa difocu,
ali'innamurati l'arduri ci runa.

Camminava come un fantasma, lentamente, con gli occhi stralunati, e io la osservavo incuriosita mentre aspettavo che loro scendessero dalla macchina. La donna mi ha sfiorato la manica del cappotto e ho sentito un brivido strano; abbiamo incrociato lo sguardo per un istante brevissimo ma è stato così intenso e tutto è stato così eloquente che ne ho avuto paura, paura vera, folle. Il suo sguardo sbieco e vivo, per nulla stupido, diceva: «Là dentro troverai la morte. Non potrai più riprendere il cuore, bambina, morirai, e qualcuno getterà la terra sulla tua tomba. Nemmeno un fiore, nemmeno uno».

Mi è venuta la pelle d'oca, quella strega mi aveva incantata. Ma non le ho dato ascolto, ho sorriso ai due ragazzi che venivano verso di me, belli e pericolosi.

Pino si teneva in piedi a malapena, è rimasto in silenzio per tutto il tempo e nemmeno io e Roberto abbiamo parlato molto come le altre volte.

Roberto ha estratto un grosso mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni e ne ha infilata una nella serratura. Il portone ha cigolato, ha messo un po' di forza per aprirlo e alla fine si è chiuso rumorosamente alle nostre spalle.

Io non parlavo, non avevo niente da chiedere, sapevo benissimo cosa ci stavamo accingendo a fare. Siamo saliti per le scale consumate dagli anni, le pareti del palazzo sembravano così fragili che in me è nata la paura che all'improvviso qualcuna cedesse e ci ammazzasse; le crepe, tante, e le luci bianche davano un aspetto diafano alle pareti azzurre. Ci siamo fermati a una porta da cui sentivo provenire della musica. 

«Ma c'è qualcuno?», ho chiesto.

«No, abbiamo dimenticato la radio accesa prima di uscire», mi ha risposto Roberto.

Pino è andato subito in bagno, lasciando la porta aperta; lo vedevo pisciare, si teneva in mano il membro molliccio e raggrinzito. Roberto è andato nell'altra stanza ad abbassare il volume e io sono rimasta nel corridoio osservando curiosa tutte le camere che da lì potevo sbirciare.

L'angelo presuntuoso ritornato sorridendo, mi ha baciata in bocca e indicandomi una stanza mi ha detto: «Aspettaci nella cella dei desideri, arriviamo fra poco».

«Eehehehe», ho riso, «cella dei desideri... che strano nome per chiamare una stanza in cui si scopa!».

Sono entrata nella camera, abbastanza stretta. Sulla parete erano attaccate centinaia di foto di modelle nude, ritagli di giornali porno, poster hentai e posizioni del ka-masutra. Immancabile, sul soffitto, la bandiera rossa con il volto del Che.

«Ma dove sono finita», ho pensato, «una specie di museo del sesso... di chi sarà mai questa casa?».

Roberto è arrivato con una stoffa nera in mano. Mi ha voltata e mi ha bendata con il fazzoletto, mi ha rigirata verso di lui e ha esclamato ridendo: «Sembri la dea fortuna».

Ho sentito l'interruttore della luce emettere il suo clic e poi non sono più riuscita a vedere niente.

Ho avvertito dei passi e dei sussurri, poi due mani hanno abbassato i jeans, tolto il maglione accollato e il reggiseno. Sono rimasta in perizoma, autoreggenti e stivali con tacco a spillo. Mi vedevo bendata e nuda, vedevo sul mio viso solo le mie labbra rosse che fra poco avrebbero assaggiato qualcosa di loro.

Improvvisamente le mani sono aumentate, diventando quattro. Era facile distinguerle poiché due stavano sopra palpandomi il seno e due sotto, sfiorandomi il sesso attraverso il perizoma e accarezzandomi il sedere. Non riuscivo a sentire l'odore di alcol di Pino, forse in bagno si era lavato i denti. Mentre m'immaginavo sempre più in balìa delle loro mani e cominciavo a eccitarmi, ho sentito, dietro, il contatto con un oggetto ghiacciato, un bicchiere. Le mani continuavano a toccarmi, ma il bicchiere premeva con più forza la pelle. Spaventata ho allora chiesto: «Chi cazzo è?».

Un risolino di sottofondo e poi una voce sconosciuta: «Il tuo barman, tesoro. Non preoccuparti, ti ho solo portato un drink».

Mi ha avvicinato il bicchiere alla bocca e ho sorseggiato piano della crema di whisky. Mi sono leccata le labbra e un'altra bocca mi ha baciata con passione mentre le mani continuavano ad accarezzarmi e il barman mi dava da bere. Un quarto uomo mi stava baciando.

«Che bel culo che hai...», diceva la voce sconosciuta, «morbido, candido, sodo. Posso darti un morso?».

Ho sorriso per la buffa richiesta e ho risposto: «Fallo e basta, non chiedere. Ma una cosa voglio saperla: quanti siete?».

«Stai tranquilla amore», ha detto un'altra voce alle mie spalle. E ho sentito una lingua leccare le vertebre della mia schiena. Adesso l'immagine che avevo di me era più seducente: bendata, mezza nuda, cinque uomini che mi leccano, mi
accarezzano e
ardiscono il mio corpo. Io ero al centro dell'attenzione e loro facevano di me quello che dentro la cella dei desideri è permesso fare. Non sentivo una voce, solo sospiri e carezze.

E quando un dito si è intrufolato piano nel mio Segreto ho sentito un caldo improvviso e ho capito che la ragione mi stava abbandonando. Mi sentivo arresa al tocco delle loro mani e in me era viva la curiosità di sapere chi fossero, come fossero. E se il piacere fosse stato frutto del lavoro di un uomo bruttissimo e bavoso? In quel momento non mi è importato. E adesso me ne vergogno, diario, ma so che rimpiangere le cose dopo averle fatte non serve a niente.

«Bene», ha detto finalmente Roberto, «manca l'ultima componente».

«Cosa?», ho domandato.

«Non ti preoccupare. Puoi togliere la benda, adesso faremo un altro gioco».

Ho esitato un attimo per togliere la benda ma poi l'ho sfilata piano dalla testa e ho visto che nella camera io e Roberto eravamo soli.

«Ma dove sono andati?», ho chiesto sorpresa.

«Ci attendono nell'altra stanza».

«Che si chiama...?», ho chiesto divertita.

«Mmm... sala della fumanza. Ci facciamo una canna».

Volevo andarmene con tutte le mie forze e lasciarli lì. Quella pausa mi ha raffreddata e la realtà si è presentata con tutta la sua crudezza. Ma non potevo, ormai avevo iniziato e dovevo a tutti i costi finire. L'ho fatto per loro. Ho intravisto le sagome risaltare nella stanza buia, rischiarata solo da tre candele poggiate per terra. Da quel poco che potevo notare le forme dei
ragazzi
presenti nella sala non erano brutte e questo mi ha consolata.

Nella stanza c'era un tavolo rotondo e attorno delle sedie. L'angelo presuntuoso si è seduto.

«Fumi anche tu?», mi ha chiesto Pino.

«No,
grazie,
non fumo mai». 

«Eh no... da stasera fumerai anche tu», ha detto il barman di cui potevo notare il bel fisico tornito e slanciato, la pelle scura e i capelli lunghi fino alle spalle, crespi.

«No, mi spiace deluderti. Quando dico no è no. Non ho mai fumato, non fumerò adesso e non so se fumerò in futuro. Trovo inutile farlo e lo lascio fare perciò a voi».

«Ma almeno non ci toglierai una bella vista», ha detto Roberto battendo la mano sul legno del tavolo, «siediti qui».

Mi sono seduta sul tavolo a gambe divaricate, i tacchi degli stivali inchiodati sul legno e il sesso aperto alla vista di tutti. Roberto ha avvicinato la sedia, ha puntato la candela accesa verso il mio pube per illuminarlo. Rollava la sua cartina rivolgendo lo sguardo prima verso l'erba odorosa e poi verso il mio Segreto. I suoi occhi brillavano. 

«Toccati», mi ha ordinato. Allora io ho intrufolato piano un dito nella mia ferita e lui ha lasciato il lavoro di fu-manza per concedersi alla vista del mio sesso.

Da dietro è arrivato qualcuno che mi ha baciato le spalle, mi ha presa fra le braccia e mi ha incastrata al suo corpo cercando con la sua asta di entrare dentro di me. Ero inerme. Lo sguardo basso e spento. Vuoto. Non ho voluto guardare.

«Eh no no... ne abbiamo parlato prima... nessuno stasera la penetrerà», ha detto Pino.

Il barman andato nell'altra stanza e ha ripreso la benda nera che aveva coperto prima i miei occhi. Mi hanno nuovamente bendata e una mano mi ha costretta a inginocchiarmi.

«Adesso, Melissa, ci passeremo la canna», ho sentito la voce di Roberto, «e ogni volta che uno di noi l'avrà in mano schioccheremo le dita e ti toccheremo la testa, così capirai di essere arrivata. Tu ti avvicinerai dove ti diremo noi e glielo prenderai in bocca fino a farlo venire. Cinque volte, Melissa, cinque. D'ora in poi non parleremo più. Buon lavoro».

E nel mio palato si sono scontrati cinque gusti diversi, cinque sapori di cinque uomini. Ogni sapore la sua storia, ogni pozione la mia vergogna. Durante quei momenti ho avuto la sensazione e l'illusione che il piacere non fosse solo carnale, che fosse bellezza, gioia, libertà. E stando nuda in mezzo a loro ho sentito l'appartenenza a un altro mondo, sconosciuto. Ma poi, uscita da quella porta, mi sono sentita il cuore a pezzi e ho provato una vergogna indicibile.

Dopo mi sono abbandonata sul letto e ho sentito il mio corpo intorpidirsi. Sulla scrivania della stanza stretta vedevo il display del mio cellulare lampeggiare e sapevo che mi stavano chiamando da casa, erano già le due e mezzo del mattino. Ma intanto qualcuno è entrato, si è sdraiato sopra di me e mi ha scopata; un altro l'ha seguito e ha puntato il suo pene verso la mia bocca. E quando uno aveva finito, l'altro scaricava addosso a me il suo liquido biancastro. E anche gli altri. Sospiri, lamenti e grugniti. E lacrime silenziose.

Sono ritornata a casa piena di sperma, il trucco sbava-

to e mia madre che mi aspettava dormendo sul divano.

«Sono qui», le ho detto, «sono tornata».

Lei era troppo assonnata per rimproverarmi per l'orario, così ha accennato con la testa ed è andata verso la camera da letto.

Sono entrata in bagno, mi sono guardata allo specchio e non ho visto più l'immagine di chi si osservava incantata qualche anno fa. Ho visto gli occhi tristi, resi ancora più pietosi dalla matita nera che colava sulle guance. Ho visto una bocca che è stata più volte violata questa sera e ha perso la sua freschezza. Mi sentivo invasa, sporcata da corpuncoli estranei.

Poi mi sono data cento colpi di spazzola, come
facevano
le principesse, dice sempre mia madre, con la vagina che ancora adesso, mentre ti scrivo nel cuore della notte, odora di sessi.

BOOK: 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire
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