In Other Words (40 page)

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Authors: Jhumpa Lahiri

BOOK: In Other Words
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L
'
IMPERFETTO

C
i sono tantissime cose che continuano a confondermi in italiano. Le preposizioni, per esempio:
alla
parete,
per
terra,
dal
calzolaio,
in
edicola
. Per ripassarle, potrei prendere appunti
nel
quaderno o
sul
taccuino. Ho una guida per aiutare lo studente straniero, contenente una serie di esercizi di questo tipo: «Mettiti … miei panni e prova … vedere la situazione … i miei occhi». Sono stucchevoli, ma li faccio lo stesso: se voglio impadronirmi della lingua, non c'è scampo. Più che altro, non riesco mai a riempire quegli spazi alla perfezione. Magari, per imparare le preposizioni una buona volta, basta questa stupenda frase che si trova in un racconto di Moravia: «Sbucammo finalmente
su
una piazza
al
sole,
in
un venticello frizzante
da
neve,
davanti
un parapetto
oltre
il quale non c'era che la luce
di
un grande panorama che non si vedeva».

Un'altra spina nel fianco è l'uso dell'articolo: non mi è chiaro quando si usa e quando cade. Perché si dice
c'è vento,
ma
c'è
il
sole
? Lotto per capire la differenza tra
uno stato
d'
animo
e
una busta
della
spesa, giorni
di
scirocco
e
la linea
dell'
orizzonte
. Tendo a sbagliarmi, mettendo l'articolo quando non ce n'è bisogno (tipo: «parliamo
del
cinema», «sono venuta in Italia per cambiare
la
strada»), ma leggendo Vittorini, imparo che si dice
queste sono fandonie
. Grazie a un cartello pubblicitario per strada, imparo che
il
piacere non ha limiti
.

A proposito: rimango incerta sulla differenza tra
limite
e
limitazione, funzione
e
funzionamento, modifica
e
modificazione
. Certe parole che si somigliano mi tormentano:
schiacciare
e
scacciare, spiccare
e
spicciare, fioco
e
fiocco, crocchio
e
crocicchio
. Scambio ancora adesso
già
per
appena
.

Talvolta vacillo quando paragono due cose, per cui il taccuino è pieno di frasi del genere:
Di questo romanzo mi piace
più
la prima parte
della
seconda
.
Parlo l'inglese
meglio dell'
italiano
.
Preferisco Roma
a
New York
.
Piove
più
a Londra
che
a Palermo
.

So che non è possibile conoscere una lingua straniera alla perfezione. Non a caso, ciò che mi confonde di più in italiano è l'uso dell'imperfetto, rispetto al passato prossimo. Dovrebbe essere una cosa abbastanza semplice ma, per qualche ragione, per me non lo è. Quando devo scegliere tra l'uno e l'altro, non so quale sia giusto. Vedo il bivio davanti a me, rallento, e sento che sto per bloccarmi. Sono pervasa dal dubbio. Provo un senso di panico. Non capisco d'istinto la differenza. Come se avessi una specie di miopia temporale.

È solo a Roma, quando comincio a parlare italiano ogni giorno, che mi rendo conto di questo scoglio. Ascoltando i miei amici, raccontando qualcosa al mio insegnante d'italiano, me ne accorgo. Dico
c'è stato scritto
quando si dice
c'era scritto
. Dico
era difficile
quando si dice
è stato difficile
. Mi confondo soprattutto tra
era
ed
è stato:
due facce del verbo essere, quello fondamentale. A Roma, per quasi un anno, la mia confusione diventa un cruccio.

Per aiutarmi, il mio insegnante mi dà qualche immagine: lo sfondo rispetto all'azione centrale. La cornice rispetto al quadro. Una linea sinuosa anziché dritta. Una situazione anziché un fatto.

Si dice
la chiave era sul tavolo
. In questo caso è una linea sinuosa, una situazione. Eppure a me sembra anche un fatto, il fatto che la chiave fosse sul tavolo.

Si dice
siamo stati bene
. Qui abbiamo la linea dritta, una condizione con un sapore definitivo. Eppure a me sembra anche una situazione.

La confusione mi fa pensare a un motivo geometrico, una
specie di illusione ottica come quella che si trova sui pavimenti delle chiese o dei palazzi antichi: una serie di cubetti di tre colori, un disegno semplice ma complesso che inganna l'occhio. L'effetto di quest'illusione è stupefacente, un po' sconcertante: la prospettiva si sposta, per cui si vedono contemporaneamente due versioni della stessa cosa, due possibilità.

Alla ricerca di qualche indizio, noto che con gli avverbi
sempre
e
mai
si usa spesso il passato prossimo:
sono stata sempre confusa,
per esempio. Oppure
non sono mai stata capace di assorbire questa cosa
. Credo di aver scoperto una chiave importante, magari una regola. Poi, sfogliando
È stato così
di Natalia Ginzburg – un titolo che fornisce un altro esempio del problema –, leggo: «Non mi diceva mai che era innamorato di me … Francesca aveva sempre tante cose da raccontare … Aspettavo sempre la posta». Nessuna regola, solo ancora più confusione.

Un giorno, dopo aver letto
Niente, più niente al mondo
, un romanzo di Massimo Carlotto, sottolineo come una pazza ogni uso del verbo essere al passato. Scrivo tutte le frasi in un quaderno: «Sei stato dolce.» «C'era ancora la lira.» «È stato così fin da quando era giovane.» «Ero certa che tutto sarebbe cambiato in meglio.» Ma questa fatica risulta inutile. Alla fine imparo solo una cosa: dipende dal contesto, dall'intenzione.

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