Virus (26 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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«Ho bisogno del suo aiuto» bisbigliò Lois. Lui vide che aveva gli occhi gonfi di lacrime. «Nel bosco. È stato Tim Carroll a trovarmi. Ha raccontato a qualcuno quello che ha visto?»

Fenstad si strinse nelle spalle. Aveva sentito dire che Lois era preda a una crisi isterica, ma niente di più.

Lei fece un sorriso sardonico. A Fenstad quel sorriso non piaceva per niente. Sapeva di sconfitta. «Allora non l'ha detto a nessciuno. Che gentiluomo. Mi domando come abbiano fatto gli altri a non notare gli animali. Forsce non volevano vedere... Ho mangiato la terra. C'era del sciangue. Il sciangue di James. E anche un'altra cosa. Qualcosa che adesscio è dentro di me. Di notte non ho più nemmeno la lisca...»

La voce era monocorde e il difetto di pronuncia molto accentuato. Autosuggestione, forse. Era comprensibile. Quando lo stress si fa intollerabile, anche le persone più normali cedono. Come un edificio, crollano nei modi più imprevisti.

«Come sai che era sangue?» domandò.

Una lacrima le scorse sul volto, ma lei mantenne la calma. «Perché il sciapore era buono.»

A Fenstad sfuggì l'aria dai polmoni. Era più grave del previsto. Grave da ricovero. Forse grave da crisi schizofrenica.

«Volevo mangiare anche il dito. Per questo ho urlato. Perché volevo mangiarlo.»

Lui si sforzò di mascherare lo shock. Non gli fu facile. «Quale dito?»

Senza riuscirci, Lois tentò di sollevare la testa dal cuscino, e gli fissò addosso quei suoi enormi occhi neri. «James Walker. Ho mangiato il suo dito. Anche altre cose. Uccelli... soprattutto uccelli. Di notte è peggio. È una cosa dentro di me, viene dal bosco.» Tossì di nuovo, e questa volta si asciugò il catarro sui capelli, dove rimase a luccicare. Aveva i ricci tutti incollati in ciocche arruffate, e a prima vista lui aveva creduto fossero unti. Ora si rendeva conto che da giorni usava la testa come fazzoletto.

«Ieri notte ho scigillato la finestra. L'ho chiuscia coi chiodi per non uscire. Oggi mi scento meglio di ieri. Se lo riduco alla fame, forsce mi lascerà stare. Ma non rescisto un'altra notte senza... mangiare. Lei deve rinchiudermi.»

Lui notò i chiodi infilzati in diagonale sugli infissi della finestra. Tracciavano linee contorte e irregolari nel legno. Alcuni erano arrugginiti, quasi tutti erano molto spessi. Abbassò lo sguardo sul pavimento, vide il martello sullo scrittoio, e si rese conto che aveva preso i chiodi strappandoli dalle assi dell'impiantito.

«Mi sbagliavo» disse. «Bisogna portarti in ospedale. Stai troppo male.»

Lei annuì. Gli occhi le si riempirono ancora di lacrime, e gli strinse forte la mano. «È cominciato nel bosco. Sce non mi rinchiude ho paura che quescta notte spaccherò la finestra.»

Fenstad scosse la testa. Sapeva di casi in cui le infezioni virali superavano la barriera encefalica e causavano demenza, persino schizofrenia. Aveva sperato che non si trattasse di un virus. Sperava fosse un esaurimento nervoso. Se l'origine di tutto era lo stress, era meno probabile una lesione permanente.

«Avrei preferito un esaurimento nervoso, dottor Wintrob» disse lei, come se gli avesse letto nel pensiero. Poi rise di nuovo con sarcasmo. «Avrei preferito anche un cancro.»

Lui scosse la testa come per scacciare un pensiero. «Devi farti ricoverare.»

Lei lo guardò, con quegli enormi occhi neri che spiccavano nel volto terreo. «Sa, non scento più le cose come prima. Il bambino nella mia pancia è troppo piccolo per muoversi, ma da quando sono stata nel bosco scalcia. Forse sta male anche lui. Prima mi sarei preoccupata del bambino. Lo avrei amato malgrado tutto. Ma adesso no. Non amo più niente.»

«Sei incinta?» domandò Fenstad, chiedendosi se poteva trattarsi di una gravidanza isterica - forse si era aggrappata a quell'idea per dare un senso alla sua vita. Per associazione, risolse il mistero. Il cambiamento di personalità non aveva origini virali; era psicologico. Lois aveva bisogno di staccarsi dalle persone che aveva intorno, ma non aveva il coraggio di lasciarsele alle spalle, così aveva sviluppato una nuova personalità in grado di fare il lavoro sporco al posto suo. Una personalità che li vedesse come nemici, e la rendesse libera. Un meccanismo astuto, il subconscio. Si ostina a tenerci in vita, anche quando la logica ci vorrebbe sottoterra.

Lois sorrise. «Sa, alcune donne se la inventano una gravidanza. Si gonfiano tutte e poi, puf, all'improvviso si sgonfiano di nuovo. Hanno un tale bisogno di attenzioni che il loro corpo cambia, solo perché la gente si accorga di loro.»

«Non ho detto che è un gravidanza isterica, Lois» rispose Fenstad.

Lei sorrise. «No?»

Corrugò le sopracciglia, o quanto ne restava, e lui pensò che non gli piaceva affatto questa nuova identità che si era creata. C'era una violenza in agguato dietro gli occhi neri di quella ragazza. E follia. «Penserò io ad aiutarti. Andremo in ospedale. Ti farò mettere in isolamento per la notte, e domani decideremo cosa fare.»

«Se odi qualcuno, significa che non l'hai mai amato?» domandò lei.

Fenstad si strinse nelle spalle. «Dipende dal motivo per cui lo odi. Ti riferisci a tua madre, o a te stessa?»

Lois fece una risatina. Il sole tramontava, e i raggi rossi sparivano lentamente dalla vista. «Secondo me vuol dire che non l'hai mai amato...»

In quel momento Jodi entrò dalla porta.

Dalla finestra, gli ultimi raggi del sole si attardarono sulla parete opposta in fasci obliqui che rimbalzavano sulle pupille dilatate di Lois per poi scomparire. Si fece buio. La stanza restava illuminata solo dagli occhi di lei e dalla fosforescenza delle lancette sull'orologio di Fenstad.

Lois tossì. Non si coprì la bocca, e mandò una zaffata di zolfo puro. Poi chiuse gli occhi. Il suo respiro ebbe un sussulto, sibilò, e infine si fermò del tutto. Fenstad la scosse per le spalle. «Lois!» urlò. Alle sue spalle, Jodi lasciò cadere a terra la
Guida Tv
con l'immagine in copertina di un mormone circondato dalle sue numerose mogli.

La testa di Lois ciondolava. La camicia da notte era aperta fino al terzo bottone. Lui le appoggiò al petto il palmo della mano. Il battito si sentiva appena, ma c'era. Dopo qualche secondo, lei riaprì gli occhi. «Fennie» disse.

Fenstad sbatté le palpebre. Abbassò lo sguardo sulla mano che le teneva appoggiata al seno, e la ritrasse. «Dottor Wintrob» la corresse.

«Certo.» Sorrise. Le pupille erano così enormi che il nocciola dell'iride era svanito. All'improvviso lui desiderò di non essere mai entrato in quel luogo infetto. Desiderò di essere a casa con sua moglie, al posto che gli spettava. Desiderò di essere dovunque tranne lì.

«Ho fame» disse lei.

Jodi cominciò a tremare come all'ultimo stadio di un Parkinson, e lui si rese conto che era terrorizzata. «Martedì sera ha mangiato tutte le bistecche che c'erano in casa, io mi ero addormentata davanti a una maratona della
Ruota della fortuna.
Non credo nemmeno che le abbia cotte. E di notte esce, ma ieri sera l'ho chiusa in camera. Non voglio che i vicini la vedano mezza nuda. E c'è un'altra cosa... Forse sono i suoi nuovi amici del bar. Di notte vengono a picchiare alle finestre. Mi tormentano.» Adesso Jodi piangeva. Raccolse da terra la sua
Guida tv
e strofinò la faccia di Bill Paxton con le dita, come per rassicurarsi.

Fenstad provò una stretta allo stomaco. Deliravano entrambe. Forse quell'infezione causava un'isteria collettiva? Forse l'odore che emanava aveva un effetto neurologico? Non lo sapeva, ma quella stanza infantile con le assi sconnesse dove una donna adulta passava le giornate davanti alla televisione era buia e gelida. «Bisogna portarla in ospedale. Aiutami a caricarla in macchina.»

«Non voglio andarci» disse Lois. «A me piace stare qui, nella mia cameretta. Non è così, mamma?»

Jodi guardò prima Fenstad e poi Lois, ma non rispose. Si portò la mano alla bocca in una involontaria pantomima della scimmietta che non parla.

«Ti porto in ospedale, Lois» disse Fenstad.

Lois rise. Il sibilo del suo respiro era meno pronunciato, ma si sentiva ancora. «Ho cambiato idea.»

«Sei malata, non sei in grado di prendere decisioni» disse Fenstad.

Lois annuì. «Ha perfettamente ragione. La decisione spetta a mia madre, e tu non vuoi farmi arrabbiare, vero Jodi? Perché io so dove abiti. Ho vissuto con te per tutta la mia vita di merda.» Poi sorrise. Lui notò che la fessura tra i denti si era chiusa.

Jodi si coprì il volto con le mani, e sbirciò tra le dita. «Ma Lois» disse con falsa sollecitudine, «io voglio solo quello che è meglio per te.»

«Davvero?» domandò Lois. Poi sorrise, perché il significato occulto, intollerabile del suo sarcasmo era evidente a tutti e tre.

Fenstad passò lo sguardo da una donna all'altra, e pensò che la cosa peggiore di quella scena al capezzale di Lois non era la sua follia, ma il rapporto grottesco che la legava a sua madre. Per quasi trent'anni quelle due avevano interpretato il ruolo di madre e figlia affettuose. In quel momento probabilmente nessuna delle due si rendeva conto di quanto odiasse l'altra.

«Mi piace stare qui» disse Lois. «Alla tele ci sono un sacco di quiz meravigliosi.» Aveva i denti dritti come una star di Hollywood negli anni Cinquanta. Che la lisca fosse sparita arrivava ancora a capirlo: con l'autosuggestione c'era gente che riusciva a camminare sui carboni ardenti. Ma i denti? Come spiegarlo,
quello
?

Jodi annuì. Tremava così forte che scuoteva persino la testa. «Sai tu cos'è meglio, Lois» rispose.

La camicia da notte di Lois era bianca, e per un momento lui si ritrovò a Wilton, nel Connecticut, dove la moquette era blu scuro, e nel letto c'era una vecchia pazza.
Fennie? È un nodulo?

L'alito di Lois puzzava come un macello infestato di mosche. Nessun libro di psichiatria documentava metamorfosi così rapide. Gli tornò in mente l'uccello semi-divorato sul prato, e trasalì chiedendosi se in quel bosco l'alter ego di Lois non avesse assassinato James Walker.

«Ho letto sul giornale che Ronnie e Noreen hanno fissato la data» disse per farla parlare.

«E allora?» domandò lei.

Lui scosse le spalle. «Miller Walker sarà furibondo per la scomparsa del figlio. Se resti in città le cose per te si mettono male, Lois. Un breve ricovero in ospedale potrebbe essere la soluzione giusta.»

Lois scosse la testa. «Stai a vedere» disse.

«Cos'è successo nel bosco? Spiegamelo ancora» disse lui.

La voce di Lois era profonda e gutturale. «Stai a vedere, Fennie. Presto capirai.»

«Per te sono ancora il dottor Wintrob.» Tentò un'ultima carta: «Quella cosa, guarda attraverso i tuoi occhi, Lois? Puoi farmici parlare?».

«Tempo scaduto, dottor Wintrob» disse Lois. «Cinquanta minuti. La seduta è finita. L'ho notato che a volte mi interrompeva dopo quarantacinque minuti. Anche dopo quaranta. Mi trova tanto noiosa?»

Fenstad non si mosse. «Io da qui non me ne vado. Ti voglio troppo bene.»

Lois fece un ghigno. «Il mio cuore ha smesso di battere.»

Lui abbassò lo sguardo sul pavimento sconnesso. Mancavano i chiodi dalle assi, ma a lui parve di vedere la moquette blu di Wilton, nel Connecticut, zuppa di sangue. «Smettila» disse.

Lois si portò una mano al petto. Poi slacciò un altro bottone, mostrandogli i seni scoperti. «Prova a sentire» disse.

Lui fece di no con la testa. Lei gli afferrò la mano e se la portò a forza sulla pelle nuda. Lui pensò alle riviste porno, agli allenamenti sul campo di atletica. Pensò al capezzolo di Lois Larkin sotto il palmo della sua mano, al suo bellissimo cuore palpitante. Gli diventò duro.

«Mi desideri, vero?» domandò lei.

Lui strappò via la mano e scosse la testa. La stanza era buia, si intravedevano solo le sagome, la minuscola scheggia di bianco negli occhi neri di Lois, i suoi denti perfetti. «Il papà non verrà a disturbarci. Lui non mi ama più. E tu?»

La fronte di Fenstad era madida di sudore. L'aria era irrespirabile per il tanfo di zolfo. Perché si era messo i jeans? Non portava i jeans sul lavoro dai tempi del tirocinio. Anche quelli puzzavano. Puzzavano di stantio come quand'era al liceo, quando pescava i vestiti dal cesto della biancheria sporca, perché quando ce l'aveva con lui Sara Wintrob non gli lavava più niente.

«Tu mi ami?» domandò la donna nel letto, e lui rispose automaticamente. Rispose come aveva sempre risposto: «Sì, mamma».

Il pavimento era allagato di sangue. Se lo sentiva sciaguattare sotto le suole, le sue scarpe di cuoio erano fradicie. I piedi gli sprofondavano, come dentro bocche voraci che lo risucchiassero verso il basso. Tirandolo giù. Facendolo annegare. Quanti anni aveva? Quarantasei? Sedici? Non se lo ricordava più.

«Non sono malata» disse lei.

Quella voce. La odiava. La mano gli si chiuse in un pugno. Stava per colpire sua madre. Pestarla fino a farla sanguinare, fino a farle perdere i sensi, come aveva sempre desiderato fare.

«Non sono mai stata malata, e tu lo hai sempre saputo, non è così?» domandò lei. Rideva di lui. Lui le avrebbe cancellato quel ghigno dalla faccia. Le avrebbe stretto le mani alla gola come meritava. «Alza la voce, ragazzo. Non riesco a sentirti» disse lei.

«Basta!» gridò Jodi da un luogo remoto, ma la sua voce era solo un brusio. L'abbaiare del cane gli impediva di sentirla. A chi apparteneva il cane? Era suo? Da quando aveva un cane?

Non cercò di trattenersi perché era di fronte a una donna. Sferrò il pugno con quanta forza aveva in corpo. La faccia diventò rossa, e qualcosa schizzò via. Un dente? Perdeva sangue dalla bocca. Troia. Gliel'aveva fatta pagare. Finalmente. Adesso l'aveva capita. A Wilton, nel Connecticut, la puttana piangeva lacrime amare.

Lei non pianse. L'espressione nei suoi occhi neri non era sgomenta. Era soddisfatta. Rideva, quella donna. Che non era sua madre. Dio, come poteva aver pensato che fosse sua madre? Non era che una paziente, Lois Larkin. Aveva colpito una donna. Una sua paziente. La bocca perdeva sangue sulle lenzuola lerce e giallastre. Senza smettere di fissarlo, lei si portò le mani a coppa sotto il mento, e cominciò a bere.

«È buono» disse.

«Adesso basta!» gemette Jodi, mentre Lois ridacchiava. A Fenstad faceva male la mano, la stessa che in quel momento era sulla maniglia della porta. Avrebbe dovuto restare, anche se aveva sbagliato. Avrebbe dovuto aggiustare quello che aveva rotto, rimettere tutto a posto. Era compito suo. Lo era sempre stato. Doveva fare il suo dovere, o la sua casa di legno sarebbe andata in pezzi.

«Fennie? Lo senti anche tu?» sussurrò la donna nel letto mentre lui fuggiva via.

 

19.

Il lavandino che perde

 

Gli occhi di Fenstad piangevano a dirotto. Aveva parcheggiato la Escalade nel vialetto di casa, ma non era pronto a entrare. Aspettava che il lavandino dei suoi occhi smettesse di perdere.

Maddie ballava davanti allo specchio nella sua stanza al secondo piano, e al piano di sotto Meg leggeva seduta al tavolo della cucina. Lui si concentrò sull'ancheggiare maldestro di sua figlia (non proprio una Ginger Rogers), e sulla luce che si rifletteva sul volto immobile di Meg, ma ancora i suoi occhi continuavano a lacrimare come una tubatura rotta.

Cos'era successo nella casa di Lois Larkin? Non era sicuro di ricordare con esattezza. Gli aveva raccontato di aver mangiato un uccello, e lui ci aveva creduto. L'aveva immaginata catturarlo a mani nude, e trapassargli il torace con quei suoi denti enormi, senza fessura. Come gli era venuto in mente un pensiero così assurdo? Ma c'era di più. Sua madre. Nella stanza c'era anche Sara. Com'era possibile?

Alla radio trasmettevano
Feel Flows.
Lui tamburellò le dita sul cruscotto, e questo gli diede conforto, perlomeno stava facendo qualcosa. Non stava seduto a oziare, a farsi arrugginire gli occhi. Continuò a tenere il tempo, nella speranza che il mondo tornasse normale. Dopotutto, la radio suonava i Beach Boys. Non poteva succedere niente di male, se la voce calda di Brian Wilson riusciva ancora a cantare.

Era stata una giornata nera. Non nera come quella del Motel 6, stanza 69, dove la moquette era marrone e il copriletto grigio sporco. No, non così nera. Ma quasi. I pazienti che morivano come mosche, i bambini che affollavano l'ospedale e l'obitorio: una giornata nera. Tamburellò le dita. Cominciò a canticchiare
Feel Flows.
Si sforzò di archiviare i pensieri, di cancellare il mondo perché alla fine non restasse altro che una canzone.

Dal vuoto sentì una voce, e gli riaffiorò alla in mente il ghigno insanguinato di Lois:
Fennie, è un nodulo?

Il canestro da basket appeso sopra il garage si era arrugginito, e la rete era sparita. Una volta aveva passato un'intera giornata di vacanza a giocare a «uno contro uno» con suo figlio. Lo aveva battuto per cinque partite di fila, ed era pronto a perderne una perché il ragazzo tornasse a sorridere, quando David era corso in casa, piangendo come una femminuccia. Si era nascosto dietro i pantaloni attillati di Meg, a frignare che non avrebbe più giocato: e così era stato. Fenstad era rientrato un minuto dopo, pronto a spiegare al ragazzino che a volte si vince e a volte si perde, che per diventare uomini bisogna sapere affrontare entrambe le cose, ma l'espressione furibonda di Meg lo aveva bloccato.

Bel ringraziamento per l'impegno che metti con le persone. Aveva dedicato tutta la vita agli altri. Aveva ascoltato i loro problemi. Aveva analizzato i loro stupidi sogni, li aveva tenuti per mano, aveva aperto libretti di risparmio per i suoi figli. E adesso i suoi pazienti lo tradivano uno dopo l'altro: Albert. Lila. Lois. I suoi figli erano anche peggio. Maddie con le sue urla. David perduto per sempre. Meg aveva amato troppo quel ragazzo, se lo era tenuto troppo stretto. Ne aveva fatto uno smidollato che lo prendeva nel culo. E poi c'era Meg. Quella troia. Nella sua testa, il cane non la smetteva di abbaiare. Nella sua testa, il cane la faceva a pezzi mentre la sua casa di pietra e mattoni mandava fumo, e poi veniva inghiottita dalle fiamme.

Brian Wilson cantava. Fenstad lo accompagnò, canticchiando la strofa sulle corone di fiori, e si domandò se, una volta giunta la fine del mondo, qualcuno ne avrebbe riconosciuto i segni.

...
Tu lo sapevi che non ero malata, vero?
domandò Sara Wintrob, con la voce di Brian.

 

Improvvisamente, sua madre bussava sul vetro. Il cuore cominciò a battergli spasmodicamente, e il mondo si mise a urlare. Nel buio distingueva la sua sagoma. Magra e pallida. Il ghigno le scopriva i denti senza fessura, a quella troia.

Fennie, è un nodulo?
domandò la radio.

Lei lo guardava. Non era più sua madre. Lois? Lila? Sarebbe sceso a strozzarla. L'avrebbe caricata nel baule. Avrebbe potuto passarla liscia se avesse aspettato fino a tardi per bruciare il cadavere nell'inceneritore dell'ospedale. E se quell'altra sgualdrina che abitava con lui lo avesse colto sul fatto? Be', avrebbe strozzato anche lei.

La donna bussò più forte. L'avrebbe sventrata come una trota. I suoi occhi perdevano, cominciavano ad arrugginire. Lei continuava a bussare. Meg. Sua moglie. Lois, Sara. L'aveva presa a pugni. Ma quale delle due?

Attese che gli si schiarisse la vista. Pensò ai Beach Boys anche se adesso la canzone alla radio era
Wonderful tonight. Fennie, è un nodulo?
domandò la radio. Pensò alla squadra di atletica e ai cavoli fermentati. Pensò al primo ditalino con Joanne Streibler, e a una moquette zuppa di sangue, ai chiodi scardinati sull'impiantito di Lois, e ai figli grassi di Lila Schiffer. Ma soprattutto pensò a tutta la fatica che aveva fatto, per ritrovarsi poi con una moglie che si scopava uno yuppie nella stanza 69.

Meg gridava il suo nome. Certo, adesso veniva a cercarlo. Ora che Nero l'aveva infettata con il suo virus riducendola a merce avariata. «Fammi entrare!» gridava. Lui fece un respiro profondo, e attese che finissero le lacrime. Non si asciugò gli occhi, lasciò che lo facesse l'aria. Alla fine abbassò il finestrino e spalancò un sorriso gioviale: «Serve qualcosa?».

Lei saltellava su un piede solo. Non gli riuscì di capirne il motivo fino a quando non ricordò la sua caviglia rotta. «Cosa fai qui fuori?» domandò lei. Infilò la testa nel finestrino. Volendo avrebbe potuto fracassarle il cranio contro il telaio della portiera. Un tragico errore.
Ooops, scusami tanto, tesoro! E a proposito, gli specchi con la doratura fasulla alle pareti non fanno classe, fanno bordello di provincia.

«Hai un aspetto orrendo. Stai male?» domandò lei. Scese dal marciapiede e aprì la portiera. Lui si fece da parte e la lasciò entrare. Profumava di zucchero, e aveva i capelli stirati come spaghetti. Ai piedi portava un paio di pantofole lise.

«Di' qualcosa. Mi stai facendo paura» disse.

Lui la guardò a lungo. Una successione di volti di donna gli passò in rassegna nella mente. Lois, Sara, Lila, Maddie, e alla fine riuscì a riconoscerla:
Meg.
Lei gli prese una mano e la strinse forte.

Era così piccola. Aveva il respiro affannato e la fronte sudata, chiaro segno che non aveva preso abbastanza codeina. «Fenstad?» domandò. «Riesci a sentirmi?»

Nel paradiso delle canzonette, Eric Clapton diceva alla sua ragazza che era bellissima, mentre una minuscola Meg Bonelli lo scrutava intimidita dal basso in alto e lui pensava di spaccarle la faccia.

«Fenstad?» domandò. «Riesci a sentirmi?» Le si incrinò la voce, e gli prese il mento tra le mani.

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