«Sul serio?»
«Sì, e la leggenda dice che nel 1920 qualcuno trovò là sotto un barchino con un paio di scheletri in abiti vittoriani. Hanno naufragato e sono morti.»
«Mostruoso», disse Jo. «Sembra un film dell'orrore di serie C.»
«Però temo che sia tutto orribilmente vero», commentò Philip.
«E io credo sia ora che andiamo a guardare coi nostri occhi», li sollecitò Laura.
Oxford, 30 marzo, mezzogiorno
La stazione di polizia fremeva d'attività quando l'ispettore capo John Monroe spalancò la porta ed entrò. Nell'ingresso, due agenti cercavano di trattenere un ragazzo ubriaco, con sciarpa gialla e nera e un berretto con pompon.
«Un pullman di tifosi da Watford. Tutti sbronzi marci», spiegò l'agente Hornet a Monroe, che aveva raggiunto la scrivania. Monroe, senza rispondere, allungò all'uomo di servizio alcuni fogli sul piano della scrivania. «E c'è un certo signor Bridges nella stanza 3. È qui da mezz'ora», aggiunse Hornet. «Poi si è fatta avanti una testimone per la scomparsa del professor Lightman. Un'anziana signora che crede di aver visto il professore trascinato fuori dall'auto da due uomini, vicinissimo a casa sua, a Norham Gardens. Eccole il rapporto.» Monroe ringraziò con un cenno silenzioso e imboccò il corridoio che partiva dall'atrio d'ingresso.
Gettò un'occhiata al rapporto ma decise di rimandare a dopo. Entrato nella stanza per interrogatori numero 3, vide Malcolm Bridges seduto a un tavolo sotto la finestra, al lato opposto del locale.
«Signor Bridges, mi scuso del ritardo.» Il giovanotto fece per alzarsi dalla sedia.
Monroe si accomodò pesantemente sulla sedia di fronte. Era stanchissimo. Si protese, coi gomiti sul tavolo, e si fregò gli occhi. «Il professor Lightman... Lo conosce bene?» chiese.
Bridges era irrequieto. «Sì, sì. Io, ecco, lo aiuto in biblioteca.»
«E a casa?»
«Sì, anche. Paga bene.» Bridges si concesse un veloce sorriso.
«D'accordo.» Monroe non aveva alcuna espressione in viso. «Quando lo ha visto per l'ultima volta?»
«Ieri sera, verso le sette, a casa sua, a...»
«So dove vive, signor Bridges.» Bridges emise un nervoso colpo di tosse. «Ha qualche novità sulla sua scomparsa?» Monroe soppesò l'uomo all'altro lato del tavolo. Portava un elegante completo scuro, ma i lunghi capelli neri, tirati all'indietro e impomatati, non facevano che mettere in risalto l'aspetto cadaverico. Era magro in maniera anormale, con una carnagione straordinariamente chiara, come trascorresse in biblioteche e laboratori più tempo di quel che avrebbe giovato alla sua salute.
«Da quanto conosce il professor Lightman?»
«Due anni circa. L'ho incontrato quando lavoravo alla tesi di laurea.
Prima ero a Cambridge.»
«Capisco. E Russell Cunningham? Conosce bene anche lui?»
«Frequenta il primo anno. È uno degli studenti affidati a me per il lavoro pratico. Non che sia terribilmente in gamba, a essere onesto. Ha troppe distrazioni. Ma Cunningham cosa c'entra?» Lo conosce bene?
Bridges fece una pausa di un secondo. «No, affatto. Ci incontriamo nel mio ufficio una volta ogni due settimane. Devo valutare i suoi progressi. A parte quello, ogni tanto lo vedo in facoltà. Non posso dire che sia il mio tipo, sinceramente.» Monroe inarcò un sopracciglio. «Strana cosa da dire.»
«Per essere franco, penso che a Oxford sprechi il suo tempo. Dovrebbe fare qualcosa nella City. Secondo me è qui per iniziativa del padre. Gli uomini come Nigel Cunningham mandano i figli a Oxford per migliorare la propria immagine. E un figlio trofeo.»
«Quindi il ragazzo non le piace proprio?»
«Non ho detto questo.»
«Nutre risentimento nei confronti di gente come lui.»
«Non parlerei nemmeno di quello... Trovo le persone come Cunningham prive d'interesse.»
«Okay.» Monroe sospirò. «Può dirmi dove si trovava alle ore e nei giorni dei recenti omicidi?»
«COSA?» Bridges era completamente scioccato. «Credevo mi avesse convocato qui per aiutarla a trovare il professor Lightman.»
«Infatti. Però stiamo esplorando molte possibili connessioni. Russell Cunningham è un sospetto...»
«Davvero?»
«E lei lavora con lui. E anche col professor Lightman. Può dirmi dove si trovava tra il 20 e il 21 marzo, dalle 19.30 alle 3 del mattino?» Bridges si carezzò il lobo di un orecchio. «Sono stato a Londra per tutta la giornata del 20. Un lunedì, giusto? Sono andato alla riunione della Royal Society of Psychologists, a Pall Mall.»
«Ed è rientrato a Oxford quando?»
«Verso le dieci di sera, le dieci e mezzo, mi pare. All'ora che le interessa mi trovavo in una stanza con almeno altri cinquanta psicologi.» E la sera di mercoledì, il 22? Era a Oxford?» Bridges puntò gli occhi sul tavolo. «Il mercoledì, alle 19.30 faccio da supervisore a un gruppo di tirocinio, quindi devo essere rimasto in facoltà fino a tardi. Direi le 20.45, forse le 21.»
«Ha lavorato con il gruppo il mercoledì di due settimane fa?»
«Sì.»
«E quei seminari o quel che sono durano un'ora?» Bridges annuì.
«Qualcun altro l'ha vista dopo le 20.30?»
«C'era ancora qualcuno in giro dopo la conclusione dell'incontro col gruppo. Rankin era uscito prima, verso le 20, direi. È passato in laboratorio a scambiare qualche parola. Gli studenti di solito svaniscono quasi all'istante quando abbiamo finito, però è rimasto qualcuno di quelli che stanno prendendo il dottorato.
«Capisco. Quindi, tecnicamente, lei avrebbe potuto uccidere la seconda e la terza vittima.» Bridges impallidì. «Perché vuole anche solo suggerire un'idea tanto ridicola?»
«Il suo ufficio dista solo cinque minuti d'auto.»
«È assurdo! Una quantità di posti dista solo cinque minuti d'auto. Perché dovrei uccidere qualcuno? Quale possibile movente...»
«Si calmi, signor Bridges. Non ho detto che lei abbia commesso gli omicidi. Ho semplicemente notato che avrebbe potuto commetterli.» Bridges scrutò Monroe con crescente ostilità. «C'è qualcosa d'altro che vorrebbe chiedermi, detective ispettore capo?»
«No, grazie, signor Bridges. Non ora. Lei mi è stato di grande aiuto.» Monroe si alzò. «Però c'è un'altra cosa che lei potrebbe fare per noi.
Sarebbe tanto gentile da fornirci un campione di DNA?» Quando Monroe lasciò la stanza per interrogatori numero 3, un giovane agente della scientifica entrò con un kit per il test del DNA e si avvicinò a Bridges.
In corridoio, il clima era più tranquillo. Due tifosi di calcio erano trattenuti in cella; gli altri erano stati rispediti a Watford tre ore prima dell'inizio della partita a Headington. Lungo la strada verso il suo ufficio, Monroe si fermò alla scrivania più grande dell'atrio.
«Hornet?» chiese all'agente, seduto a un terminale. Sì, signore?
«Come vanno i colloqui con le studentesse?» Hornet consultò un grosso taccuino che aveva sul piano. «Greene, Matson e Thompson stanno conducendo colloqui paralleli nelle stanze 4,5 e 7. Abbiamo parlato con...» fece scorrere l'indice sul foglio. «Mi faccia vedere. Dieci, undici... quattordici ragazze, comprese le tre presenti al momento.»
«Okay.» Monroe diede un colpetto con le dita al taccuino, perso nei propri pensieri.
Rientrato in ufficio, fu lieto di chiudere la porta sul mondo esterno. Era sconvolto da ciò che stava accadendo. I suoi uomini più giovani erano estasiati per quello che avevano trovato il giorno prima nell'appartamento di Cunningham, tuttavia per Monroe qualcosa non quadrava. Chiaramente, il ragazzo era disturbato, ma questo non faceva di lui l'assassino. A uccidere le tre ragazze e Simon Welding era stato un professionista, non un giovane ricco e pervertito con troppo tempo libero. E come giudicare Bridges? Era molto nervoso, però dava l'impressione che fosse una sua caratteristica. Monroe non era convinto che nascondesse qualcosa.
Certo, avrebbe potuto commettere gli omicidi più recenti. Ma il colpevole doveva essere una sola persona, giusto? Se non era stato Bridges a uccidere la prima vittima, allora doveva essere pulito.
Monroe ripensò a quello che la scientifica aveva raccolto. Un pezzo di pelle e un po' di plastica. Non ne era uscito niente. Poi c'era la traccia di sangue rinvenuta sulla scena del secondo omicidio, ma senza alcuna corrispondenza nei database della polizia.
Tolte alcune carte dalla scrivania, cercò di trovare il rapporto del laboratorio. Era in fondo a una pila. La seconda pagina conteneva lo stampato prodotto dall'analizzatore di spettro, l'impronta di DNA ricavata dalla minuscola macchia di sangue nella casa vicino al punto in cui era stato ritrovato il cadavere di Jessica Fullerton. Fissò l'insieme di linee e blocchi di colore sul foglio. Era il profilo di qualcuno, pensò, una configurazione unica di DNA che apparteneva a una persona che probabilmente non si trovava troppo lontano da lì, dal suo ufficio; che viveva in quella città. Ma senza un dato di raffronto, anche quello sarebbe stato di scarso o nessun aiuto.
Monroe buttò il foglio sul tavolo e afferrò il telefono.
«Hornet», abbaiò nell'apparecchio. «Chiamami Howard Smales all'MI5 immediatamente. E passa la telefonata nel mio ufficio.» Riprese in mano lo stampato dell'analizzatore di DNA. Stava seguendo l'andamento di picchi e gole quando l'apparecchio squillò.
«Howard», lo salutò, in tono caloroso. «Sì, sì, è un pezzo che non mi faccio vivo... Oh, lo sai, la solita vita... Sì, me l'hanno detto.
Congratulazioni. Senti, avrei bisogno di chiederti un favore... Detto fra te e me, ha a che fare con gli orni... Sì.» Una risata piuttosto acida. «Be', sì, ho un campione, ma non corrisponde a niente nel nostro... No, certo, lo so...
Allora, lo faresti? Te lo posso far avere subito... Sì, c'è una certa urgenza...
Lo so, purtroppo, ma è così che opera la vecchia squadra. Non abbiamo santi particolari al governo e nemmeno troppi soldi... Be', sarebbe fantastico... Grazie, Howard. Sono in debito.»
Nei pressi di Woodstock
30 marzo, 14.00
Philip riuscì a dormire solo un paio d'ore prima che lo convocassero alla stazione di polizia di Oxford. Quattro ore più tardi, dopo aver comperato un sandwich di pollo in una panetteria lungo la Carfax, stava tornando a casa quando squillò il suo cellulare.
«Come va?» Era Laura.
«Ah, siamo svegli, eh?» Lei sospirò all'altro capo della linea. «In effetti, mi sono alzata non appena sei partito tu. Sono andata a casa di James Lightman. Speravo di vedere Bridges, ma non c'era.»
«Pare che Monroe abbia trovato un nuovo legame tra le vittime», riferì Philip. «Non l'ho visto, e tutti quelli con cui ho parlato hanno la bocca sigillata. Monroe ha imposto la segretezza assoluta. Comunque, tutte le ragazze assassinate sono state sottoposte a un profilo psicologico eseguito da un gruppo di ricerca all'università, l'anno scorso.»
«Davvero?» Laura aveva un tono eccitato. «Un profilo? Che tipo...»
«Non sono riuscito ad avere molti particolari. Sembra si siano offerte volontarie. Un giorno di esami vari in cambio di un buono da cinquanta sterline per l'acquisto di libri, o qualcosa del genere. Hanno partecipato una quarantina di ragazze.»
«Nessun nome?»
«Solo Monroe e un paio di altri uomini hanno l'elenco. Non ho potuto scoprire niente. Tutti muti come pesci. Tu dove sei, fra parentesi?»
«Vicino a casa tua. Sto entrando a Woodstock.»
«Ti sono alle spalle. Ci vediamo a casa.» Qualche minuto più tardi, Philip imboccava il vialetto. Lo sorprese vedere Laura sulla porta della cucina. Pareva stravolta.
«Cosa c'è?»
«Qualcuno si è introdotto in casa tua.» Lui la seguì di corsa in sala da pranzo, poi in soggiorno. Il computer era ridotto in pezzi sparsi sul pavimento. Carte sparpagliate dovunque, scaffali di libreria rovesciati, un paio dei quadri di sua madre appesi ad angoli strani. Si buttò su un divano a braccia conserte, studiò i danni in silenzio, poi emise un pesante sospiro. Sentiva l'ira montare.
«Mi spiace, Philip», disse Laura.
«Ti spiace? Perché?»
«Sono stata io a trascinarti a questo disastro. Io e le mie idee folli. E adesso tutto quello che ci ha lasciato Charlie è scomparso.»
«Cosa te lo fa pensare?»
«Be', guarda.» Lei agitò la mano in direzione del caos della stanza. «Non sono stati un pugno di ragazzini o un ladro casuale, giusto?»
«Sono certo che tu abbia ragione», rispose lui.
«Però non devi temere per il materiale di Charlie. Avevo la sensazione che potesse succedere qualcosa di simile... e ho preso la precauzione di portare tutto con me. E di tenerlo in automobile.»
Stazione dei pullman di Victoria
Londra 30 marzo, 17.00
Gail Honeywell, abbronzata, capelli striati di biondo dal sole greco, gettò lo zaino sul pavimento della sala d'attesa della stazione dei pullman di Victoria. Evitò con cura il chewing-gum ancora umido e una macchia scura di quello che sperava fosse cioccolato. Estrasse di tasca la scheda telefonica e, con due passi, raggiunse il telefono pubblico più vicino.
Sorpresa di udire il segnale di linea, compose il numero del suo ragazzo e aspettò di sentirsi rispondere.
«Ray», disse, eccitata. «Ciao. Sono a Londra. Senti, non resta molto credito su questa scheda. No, è stato fantastico. Il professor Truman è così rilassato. Credo che abbiamo fatto un buon lavoro. È solo che... sei settimane all'estero sono troppe. Non vedo l'ora di tornare a casa. Muoio dalla voglia di rivederti...» Attraverso il vetro lurido, semi-opaco, vedeva pullman entrare e fare manovra, passeggeri salire e scendere.
Un autista in uniforme passò davanti alla porta d'ingresso della stazione.
La sala era deserta.
«Prenderò il pullman delle 17.30 da qui. Dovrei arrivare a Headington verso le 18.40. No, senti, non devi venirmi a prendere. Stasera hai il football, no?... Sì, sì. No, Ray, non ho... Quali omicidi? No, dio, sul serio?
Merda, stai scherzando. E lui la conosceva? Sì, sì. No, okay, se davvero non ti spiace... No, scemo. Dio, mi sei mancato moltissimo anche tu. È stato fantastico, ma sono contenta di essere tornata.» Restò in ascolto per qualche secondo. Poi: «Sì, perfetto. Okay... Ci vediamo. Ti amo...» E la scheda telefonica spirò.
Gail risistemò il ricevitore e raccolse lo zaino proprio mentre un autista affacciava la testa dalla porta. «Prendi il 17.30 per Oxford, tesoro?» chiese.