Moll Flanders (Collins Classics) (14 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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Non passò molto tempo, potete figurarvelo, che avemmo un secondo colloquio sull’argomento. Lei, come se volesse dimenticare la storia che era stata lei a raccontarmi di sé, e fingendo di credere che io avessi dimenticato certi particolari, si mise a raccontarmela da capo con cambiamenti e con omissioni; ma io le rinfrescai la memoria, rimisi a posto molti punti che finsi di credere lei avesse dimenticato, e alla fine arrivai a rifarle la storia intera con tale precisione che fu impossibile per lei tirarsene fuori. Allora lei ricadde nelle lamentazioni, imprecando alla crudeltà della sua sfortuna. Quando questo le fu quasi passato, incominciammo a discutere su quel che anzitutto andava fatto, prima di mettere al corrente mio marito. Ma a che servivano tutti quei nostri discorsi? Nessuna delle due scorgeva una via d’uscita, né giudicava prudente aprire gli occhi a lui su un simile quadro. Non era possibile sapere, e nemmeno immaginare, che reazioni poteva avere lui, apprendendo la cosa, né che decisioni poteva prendere; e se lui perdeva il controllo di sé al punto da metter tutto in piazza, era facile prevedere che ciò voleva dire la famiglia rovinata, mia madre e io completamente smascherate. Se poi lui sfruttava il vantaggio che la legge gli dava, poteva mandarmi via con ignominia e lasciare che cercassi di recuperare quel po’ di dote che era mia, sprecandola magari tutta nell’azione legale e ritrovandomi poverissima; e anche i figli sarebbero stati rovinati, perché non avevano nessuna pretesa legale sugli averi di lui. Così magari l’avrei veduto fra le braccia di un’altra moglie, pochi mesi dopo, e sarei stata la creatura più infelice del mondo.

Mia madre si rendeva conto di tutto questo come me. Insomma, non sapevamo che fare. Dopo qualche tempo giungemmo a prendere più precise risoluzioni, ma ci fu un altro guaio, e cioè che il punto di vista mio e il punto di vista di mia madre risultarono completamente diversi e assolutamente inconciliabili. Il punto di vista di mia madre, infatti, era che io seppellissi tutta la faccenda e continuassi a vivere con lui come marito finché qualche altro avvenimento non rendesse più conveniente la rivelazione di quei fatti; lei, nel frattempo, si sarebbe adoperata per farci riconciliare, ristabilire la tranquillità reciproca e la pace in famiglia; potevamo coricarci insieme come eravamo abituati a fare, e lasciar che tutto rimanesse segreto come in una tomba. “Perché, ragazza,” dice, “se vien fuori, siamo perdute tutte e due.”

Per convincermi a questo, mi promise di migliorare la mia situazione, per quel che poteva far lei, e di lasciarmi alla sua morte il più possibile, legandolo a me in modo distinto da mio marito; così, se la cosa fosse saltata fuori in seguito, io non mi sarei trovata sprovveduta, ma avrei potuto puntare i piedi e ottener giustizia da lui.

Quella proposta non s’accordava affatto con il mio modo di vedere la cosa, anche se era molto bella e gentile da parte di mia madre; i miei pensieri, però, andavano in tutt’altra direzione.

Tenerci la cosa in petto, noi due, e lasciarla dov’era, io le dissi che era impossibile. Le domandai se lei pensava che io potessi accettare l’idea di coricarmi con mio fratello. In secondo luogo, le dissi che il fatto che lei era viva costituiva l’unica base della rivelazione, e se lei mi riconosceva come figlia sua, e aveva le sue buone ragioni per ammettere che così era, nessuno poteva avanzare dubbi; ma, se lei moriva prima della rivelazione, io sarei stata trattata da spudorata che ha inventato una storia simile per abbandonare il marito, o da pazza e da scombinata. Le raccontai poi che lui mi aveva già minacciato di mandarmi in manicomio, e quanto io me n’ero preoccupata, e come era stato proprio per quello che mi ero vista costretta a fare quella rivelazione a lei.

Per tutto ciò le dissi che, dopo aver riflettuto il più seriamente possibile sul caso, ero arrivata a una decisione che speravo le riuscisse gradita, perché era una via di mezzo fra i nostri due punti di vista: lei doveva, cioè, fare ogni sforzo per ottenere dal figlio che mi desse il permesso di partire per l’Inghilterra, come io avevo chiesto, e mi fornisse una somma adeguata di denaro, o in merci da portar con me, o in titoli per potermi mantenere laggiù, suggerendo soprattutto che lui poteva un giorno o l’altro giudicar opportuno venirmi a raggiungere.

Quando io fossi partita, lei doveva allora, con tutta calma, dopo averlo impegnato nel modo più solenne a mantenere il segreto, svelargli la verità, facendolo a poco a poco, come le suggeriva il buonsenso, in modo da non sbalordirlo e da non provocargli accessi di collera né contro di me né contro di lei; e doveva anche preoccuparsi di impedire che lui si liberasse dei figli e che prendesse di nuovo moglie prima di aver avuto notizia certa della mia morte.

Questo era il mio piano, e le mie ragioni erano buone. Io ero ormai definitivamente estranea a lui, a causa di quel che era accaduto. Inoltre avevo per lui come marito un odio mortale, un’avversione che m’era entrata così dentro da non potermela levare più. Al tempo stesso, vivere in quel modo illegale e incestuoso faceva aumentare la mia avversione, e, benché io non me ne facessi troppo un caso di coscienza, pure tutto collaborava a rendere quella convivenza per me la cosa più ripugnante del mondo; credo davvero d’essere arrivata a un punto tale che avrei avuto più voglia di abbracciare un cane anziché permettere a lui di farmi una cosa di quel genere, e per questo non potevo soffrire l’idea di andare sotto le lenzuola con lui. Non posso dire che avevo ragione nel mio modo di fare, nel giungere a tal punto mentre non mi decidevo d’altra parte a rivelargli la verità; ma io sto facendo il racconto di quel che capitò, non di quel che sarebbe o non sarebbe dovuto capitare.

In tale netto contrasto di opinioni mia madre e io restammo ancora per molto tempo, e fu impossibile conciliare i nostri punti di vista; molte discussioni avemmo, ma nessuna delle due abbandonava il suo, né riusciva a convincere l’altra.

Io insistevo sulla ripugnanza che coricarmi con mio fratello mi faceva, lei insisteva sul fatto che era impossibile convincerlo a darmi il permesso di partire per l’Inghilterra; in quella incertezza rimanemmo, senza risparmio di battibecchi e litigi, ma senza d’altra parte riuscire a trovare che cosa potevamo fare per rimediare al guaio terribile in cui eravamo.

Alla fine io mi decisi a un passo disperato e comunicai la mia decisione a mia madre, cioè di dirglielo io. Mia madre, al solo pensiero, si terrorizzò al massimo; ma io le dissi di non agitarsi, glielo avrei detto a poco a poco, con le buone maniere, con tutta l’abilità e la parlantina che avevo, avrei scelto il momento adatto, l’avrei preso in un giorno di buon umore. Dissi che il mio unico problema era riuscire ad essere abbastanza ipocrita da fingere per lui più affetto di quel che nutrivo in realtà, poiché in tal caso il mio piano avrebbe avuto successo, e ci saremmo separati col suo consenso, d’amore e d’accordo, visto che io come sorella potevo sempre volergli bene, anche se non potevo più come moglie.

In tutto quel tempo lui assillava la madre per cercar di sapere che cosa significava quella spaventosa frase mia, così lui diceva, e cioè che io non ero legalmente sua moglie, né i miei figli erano legalmente figli suoi. Mia madre lo teneva buono, gli raccontava che non le riusciva di convincermi a dare una spiegazione e che capiva che qualcosa doveva esserci che mi turbava molto, sperava di riuscire presto a tirarmelo fuori, e intanto gli raccomandava tanto di trattarmi con dolcezza, di conquistarmi col suo solito garbo; gli diceva che lui mi aveva turbata, terrorizzata con la minaccia di mandarmi in manicomio, e così via, e gli consigliava di non far cose capaci di condurre una donna alla disperazione.

Lui promise di moderare il proprio atteggiamento, la incaricò di assicurarmi che lui mi amava ancora come prima e non aveva affatto intenzione di mandarmi in manicomio, qualunque cosa avesse detto nell’impulso dell’ira. Desiderava inoltre che mia madre si adoperasse per persuadere anche me, per far rifiorire il nostro affetto e farci tornare a vivere insieme d’amore e d’accordo come prima.

Notai subito gli effetti della manovra. Il comportamento di mio marito cambiò immediatamente, lui diventò per me completamente un altro uomo. Non si può essere più gentili né più devoti di quanto lo divenne lui, in ogni circostanza, e io non potei fare a meno di dargli qualcosa in cambio. Lo feci come meglio sapevo, ma le prime volte andò piuttosto male, perché non v’era niente di più spaventoso per me delle sue carezze, e la paura di avere un figlio da lui rischiava di farmi venire un attacco di nervi. Compresi, così, che era assolutamente necessario raccontargli il fatto senza altro indugio, cosa che feci comunque con tutte le cautele e con ogni riserva possibile.

Era già un mese che lui aveva mutato atteggiamento nei miei riguardi, e cominciavamo a vivere tutti e due una vita nuova; avessi potuto accontentarmi di tirare avanti, credo che sarebbe durata così finché fossimo vissuti insieme. Una sera che eravamo seduti a chiacchierare molto cordialmente, sotto una piccola tenda che serviva da portico all’ingresso in casa nostra dal giardino, lui, di umore allegro e simpatico, mi disse un monte di cose sulla piacevolezza del nostro buon accordo presente, sugli inconvenienti del nostro passato contrasto, e sulla gioia che costituiva per lui il poter sperare che nulla di simile sarebbe accaduto mai più.

Io trassi un profondo sospiro e gli dissi che nessuno al mondo più di me poteva rallegrarsi del buon accordo che avevamo sempre mantenuto, o dolersi della sua rottura, e così fosse stato possibile continuare, tranquillamente; ma mi doleva dovergli dire che v’era nel nostro caso una circostanza infelice che io tenevo chiusa in cuore e non sapevo come svelargli, circostanza che rendeva assai sciagurata la mia partecipazione, e di tutto il resto mi toglieva il piacere.

Lui insistette per sapere di che si trattava. Io gli dissi che non sapevo come dirglielo: finché lui non lo sapeva, io sola ero infelice, ma, se lo avesse saputo anche lui, saremmo stati infelici entrambi; tenerlo all’oscuro era perciò la cosa più gentile che io potevo fare, era stato solo per quel motivo che io avevo mantenuto il segreto con lui, e mi rendevo conto che proprio lo sforzo da me compiuto per mantenerlo era destinato ad essere prima o poi la causa della mia rovina.

È impossibile descrivere il suo stupore a quel discorso e la raddoppiata insistenza che usò perché io gli svelassi di che si trattava. Mi disse che non potevo vantarmi di essere gentile con lui, no, e nemmeno fedele, se glielo tenevo nascosto. Gli dissi che lo pensavo anch’io, e tuttavia non potevo farlo. Lui si rifece a quel che avevo detto io prima, e mi disse che sperava io non alludessi a quello che avevo detto nell’impulso dell’ira; per parte sua, aveva deciso di dimenticarlo, di considerarlo lo sfogo di un animo scosso, esasperato. Io dissi che avrei tanto voluto poterlo dimenticare anch’io, ma non andava fatto, troppo profonda era l’impressione in me, io non ci riuscivo: insomma, era proprio impossibile.

Lui mi disse allora che aveva deciso di non bisticciare con me per nessun motivo e non avrebbe perciò insistito mai più, dimenticando deliberatamente qualsiasi cosa io avessi detto e fatto prima; mi domandava solo d’essere d’accordo anch’io perché, qualunque cosa fosse, non turbasse più la nostra tranquillità e il nostro reciproco affetto.

Questa era la cosa più irritante che poteva dirmi, perché io in realtà avevo bisogno della sua insistenza per farmi sopraffare al punto da tirar fuori quello che in verità mi costava un’angoscia mortale tener celato; così gli risposi semplicemente che non potevo dirmi contenta di non subire altre insistenze, anche se non sapevo in che modo esaudirle.

“Ma, senti, infine, mio caro,” dico, “dimmi tu a quali condizioni vuoi che io ti riveli tutto.”

“Qualunque condizione,” dice lui, “purché tu possa ragionevolmente pretenderla da me.”

“Bene,” dico io, “senti, dammi la tua parola che, se vedrai che io non ho nessuna colpa e non mi sono volontariamente posta fra le cause della sciagura di cui dirò, allora tu non mi biasimerai, non mi farai del male, non mi recherai offesa, non cercherai di far espiare a me ciò che non è colpa mia.”

“Questa,” dice lui, “è la richiesta più ragionevole del mondo: non biasimarti per quello che non è colpa tua. Dammi penna e inchiostro,” dice; e io corsi a prendergli penna, inchiostro e carta, e lui scrisse la condizione con le parole stesse con cui io gliel’avevo proposta, e firmò col suo nome.

“Bene,” dice, “e c’è qualcos’altro, mia cara?”

“Ecco,” dico io, “c’è questo: che tu non mi faccia colpa di non averti rivelato il segreto prima di conoscerlo io.”

“Molto giusto anche questo,” dice lui, “sinceramente.” Così scrisse anche quello, e firmò.

“Bene, caro,” dico io, “ho ancora una sola condizione, e cioè che, siccome la cosa riguarda soltanto me e te, tu non dovrai rivelarla a nessun altro al mondo, eccetto tua madre; e che, qualsiasi decisione tu voglia prendere in seguito alla mia rivelazione, poiché io sono coinvolta come te, sebbene come te innocente, tu non agirai sotto l’impulso della passione e non farai nulla che possa risultare a danno mio né di tua madre senza dirmelo e senza avere il mio consenso.”

Di ciò rimase piuttosto stupito, e scrisse le parole con chiarezza, ma le rilesse più volte prima di firmarle, esitando e ripetendo: “A danno di mia madre! A danno tuo! Ma che mistero sarà mai?” Però alla fine firmò.

“Bene,” dico io, “mio caro, non chiederò la tua parola per altro; ma poiché stai per udire la cosa più inattesa e sorprendente che forse sia mai piombata su una famiglia al mondo, ti prego di promettermi che l’accoglierai con la calma e la forza d’animo che si addicono a un uomo ragionevole.”

“Farò tutto quel che posso,” dice lui, “a patto che tu non mi faccia aspettare più, perché con tutti questi preamboli mi terrorizzi.”

“Bene, allora,” dico io, “ecco qua: come nell’impulso della passione ti ho detto che io non sono legalmente tua moglie e che i miei figli non sono legalmente figli tuoi, così devo ora informarti, con calma e dolcezza, ma con grande dolore, che io sono tua sorella e tu sei mio fratello, e siamo tutti e due figli della stessa madre, che è viva, è in questa casa, ed è convinta della verità di quel che dico, in modo innegabile e irrefutabile.”

Lo vidi impallidire, guardarmi come stesse per diventar matto, e dissi: “Ora ricordati la promessa che hai fatto, e prendila con forza d’animo: infatti, che si poteva dir di più, per prepararti, di quel che ti ho detto io?” Chiamai comunque una cameriera e gli feci portare un bicchierino di rum (che è il liquore in uso da quelle parti), perché era sul punto di svenire.

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