A Ipswich ebbi delle noie con i funzionari della dogana, che bloccarono il mio baule, come io lo chiamavo, e volevano aprirlo e perquisirlo. Io dissi che non avevo nulla in contrario, lo perquisissero pure, ma la chiave l’aveva mio marito, che non era ancora arrivato da Harwich; dissi questo perché, se dalla perquisizione risultava che c’era dentro roba più adatta a un uomo che a una donna, la cosa non paresse strana. Comunque, siccome volevano assolutamente aprire il baule, io permisi che lo forzassero, e cioè che togliessero il catenaccio, cosa non difficile.
Non trovarono niente che li riguardasse, e questo perché il baule era stato già perquisito prima, ma misero in vista diverse cose che mi dettero grande soddisfazione, e in particolare un quantitativo di denaro in pistole francesi e in ducati olandesi, o dollari, e il resto era costituito da due parrucche, biancheria, saponette, profumi, e altre cose utili, il necessario per uomo, che passarono come di mio marito, e così io mi liberai di quelli.
Era mattino molto presto, e c’era poca luce, e io non sapevo che strada prendere; infatti temevo al mattino d’essere inseguita, e magari presa con la roba; perciò decisi di arrangiarmi in altra maniera. Mi recai ostentatamente a prendere alloggio in una locanda col mio baule, come lo chiamavo, e, tolto il contenuto, giudicai che del contenente non valesse la pena di occuparsi; lo affidai, comunque, alla padrona, con la raccomandazione di averne gran cura e conservarlo al sicuro fino al mio ritorno, e uscii per via.
Quand’ebbi fatto un bel po’ di strada dalla locanda, per la città, m’imbattei in una vecchia che aveva appena aperto l’uscio di casa sua, e mi misi a chiacchierare con lei, le feci una quantità di domande a casaccio, tutte molto lontane da quelli che erano i miei piani; ma durante la mia conversazione con lei appresi com’era fatta la città, che mi trovavo in una via che portava a Hadley, ma che la tal strada portava alla spiaggia mentre la talaltra portava nel centro della città, e quell’altra strada infine portava a Colchester, sicché era da quella parte la via per Londra.
Ne ebbi presto abbastanza della vecchia, perché l’unica cosa che m’interessava era trovare la via per Londra; non che volessi andarci a piedi, né a Londra né a Colchester, ma volevo andarmene nel modo più inosservato da Ipswich.
Feci altre due o tre miglia a piedi, e lì incontrai un bravo campagnolo, che si stava dando da fare in non so che lavoro agricolo, e gli posi dapprima una quantità di domande, prive di scopo, ma alla fine gli dissi che ero diretta a Londra, che la diligenza era piena e io non trovavo posto, e gli domandai se sapeva dirmi dove potevo trovare da prendere a nolo un cavallo capace di portar due persone, e un galantuomo che montasse davanti a me fino a Colchester, in modo da trovare lì un posto sulla diligenza. Il buon cafone mi guardò tutto serio per un po’, e per un buon mezzo minuto non disse niente, poi, grattandosi la capoccia, disse: “Un cavallo, dite? Per Colchester? Da montare in due? Ma sì, signora, perbacco, quanti cavalli volete, ci sono, naturalmente pagando.”
“Certo, amico,” dico io, “questo lo sapevo; mica lo volevo senza pagare.”
“Ma, signora,” dice lui, “quanto volete pagare?”
“Ecco,” dico di nuovo io, “io non conosco le vostre tariffe in questo paese, perché sono forestiera; ma se voi potete procurarmene uno, prendetelo al prezzo più basso possibile, e io darò a voi qualcosa per il vostro disturbo.”
“Ecco, questo è parlare onesto,” dice il contadino.
“Onesto mica tanto,” io dissi tra me, “se tu sapessi tutto.”
“Ecco, signora,” quello dice, “ho io un cavallo che può portar due persone, e non mi fa niente venire io con voi,” e via di questo passo.
“Sì?” dico io; “bene, vedo che siete un onest’uomo; se ci state, a me va bene; e vi pagherò ragionevolmente.”
“Ecco, sentite, signora,” lui dice, “allora lo troverete ragionevole: se vi porto a Colchester, vi costerà cinque scellini per me e per il cavallo, perché difficilmente ce la farò a tornare in serata.”
In breve, presi l’onest’uomo e il suo cavallo; però quando arrivammo a un paese lungo la strada (non ricordo il nome, ma è su un fiume) finsi di sentirmi molto male e di non poter più proseguire per quella sera, ma volli che lui si fermasse con me, perché io ero forestiera, e ben volentieri pagavo di più, sia per lui che per il cavallo.
Feci questo perché immaginavo che il gentiluomo olandese e i suoi servitori fossero per strada quel giorno, o in diligenza o coi cavalli da posta, e non volevo che l’ubriaco, o chiunque altro mi avesse potuto vedere a Harwich, mi rivedesse, e così pensai che un giorno di sosta poteva bastare a farli passare oltre.
Restammo lì la notte, e il giorno dopo non era troppo presto quando ci mettemmo in viaggio, sicché erano quasi le dieci quando arrivammo a Colchester. Non fu senza piacere che rividi la città dove avevo trascorso tanti giorni piacevoli, e chiesi informazioni dei bravi vecchi amici che un tempo avevo avuto colà, ma trovai ben poco; erano tutti morti o s’erano trasferiti. Le signorine s’erano tutte sposate o erano andate a Londra; il vecchio signore e la vecchia signora che era stata la mia prima benefattrice erano morti tutti e due; e quel che più mi turbò fu che il giovanotto che era stato il mio primo amante, ed era poi diventato mio cognato, era morto anche lui; di lui restavano due figli, uomini fatti, ma s’erano trasferiti a Londra.
Licenziai lì il mio vecchio, e restai tre o quattro giorni a Colchester in incognito, poi presi posto su un carro, perché non mi arrischiavo a farmi vedere sulle diligenze di Harwich. Ma avrei potuto fare a meno di usare tante precauzioni, perché c’era soltanto la padrona della locanda che m’avesse visto a Harwich; né era ragionevole pensare che quella, col daffare in cui si trovava e avendomi vista solo una volta, e a lume di candela, fosse in grado di smascherarmi.
Adesso ero rientrata a Londra, e anche se per i casi dell’ultima impresa avevo fatto un bel guadagno, tuttavia non avevo nessuna voglia di fare altre gite in provincia, e, avessi dovuto anche far quel mestiere fino alla fine dei miei giorni, non mi sarei avventurata più fuori città. Feci alla mia governante la storia del mio viaggio; a lei piacque molto l’impresa di Harwich, e, discorrendone tra noi, disse che, siccome il ladro è una persona che studia gli errori altrui, è impossibile che manchino le occasioni a chi sa essere attento e paziente, e di conseguenza, a suo parere, a una persona brava nel mestiere com’ero io non poteva non presentarsi almeno una bella occasione dovunque me ne andassi.
D’altra parte, ogni episodio del mio racconto, purché debitamente considerato, può riuscire utile alla gente onesta, e costituire un serio monito per le persone d’un tipo o di un altro a premunirsi dalle sorprese e a tener gli occhi aperti quando hanno a che fare con forestieri d’ogni genere, perché è raro che non vi sia qualche trappola sul loro cammino. La morale, insomma, di tutta la mia storia, è lasciata da tirare al buon senso e al giudizio del lettore; io non sono qualificata per far la predica. Possa l’esperienza di una persona tanto corrotta e tanto sciagurata essere un repertorio completo di insegnamenti utili per chi legge .
Mi sto avviando ora a narrare un’altra specie di vicende vissute. Al mio ritorno, divenuta una dura grazie a una lunga sfilza di delitti e ad un successo senza paragone (almeno secondo le mie informazioni), non avevo, come ho detto, la minima intenzione di lasciar perdere un mestiere che tuttavia, se dovevo giudicare in base all’esempio altrui, non poteva non terminare nella sciagura e nel dolore.
Fu il giorno dopo Natale, di sera, che, a conclusione di una lunga serie di cattive azioni, uscii di casa per andare in giro a vedere che cosa trovavo sul mio cammino; e passando davanti alla bottega di un orefice in Poster Lane, vidi un’esca tentatrice, irresistibile per una persona del mio ramo, perché nel negozio, a quel che vedevo, non c’era nessuno, e una gran quantità di argenteria era sparsa nella vetrina e sul bancone, davanti al posto dell’uomo che di solito, immaginai, lavorava in quella bottega.
Entrai decisa, feci per posare la mano su uno di quei pezzi d’argenteria, e l’avrei potuto benissimo fare, squagliandomela col bottino, fosse stato per la cura che se ne davano gli uomini addetti a quella bottega; ma un tipo zelante che era in una casa, non in una bottega, dall’altra parte della via, vedendomi entrare e accorgendosi che dentro non c’era nessuno, traversa correndo la strada, entra in bottega e senza nemmeno domandarmi chi ero e che volevo mi afferra e si mette a gridare chiamando la gente di casa.
Io, come ho detto, non avevo toccato niente in quel negozio, e nell’istante medesimo in cui con la coda dell’occhio vidi qualcuno arrivare di corsa, ebbi tanta presenza di spirito da picchiar forte col piede in terra, e stavo incominciando a chiamare a voce alta quando quello mi mise le mani addosso.
Comunque, siccome il coraggio maggiore lo avevo sempre quando più mi trovavo in pericolo, mi attaccai forte a quel punto, che cioè ero entrata per comprare mezza dozzina di cucchiai d’argento; e per mia buona sorte quello era un orefice che vendeva anche argenteria, così come lavorava argento per altre botteghe. Quel tale la prese in ridere, dava tanto importanza al favore che aveva fatto al suo vicino, da volere assolutamente che io fossi entrata lì per rubare, non per comprare; e richiamò gran folla. Io dissi al padrone del negozio, che nel frattempo era stato richiamato a casa da qualche posto nelle vicinanze, che era inutile far tutto quel chiasso, e mettersi a discutere lì la faccenda; quel tizio insisteva che io ero entrata per rubare, e doveva darne la prova, e io volevo che andassimo subito davanti a un magistrato senza altre storie; già capivo, infatti, che l’uomo che m’aveva presa non se la sarebbe passata liscia.
Il padrone del negozio e la moglie non erano per la verità violenti come l’uomo dell’altro lato della via; disse il padrone: “Signora, per quel che ne so io avreste potuto entrare in bottega con intenzioni buone, ma era chiaramente un grosso pericolo per voi entrare in una bottega come la mia quando vedevate bene che non c’era nessuno; e io non posso non rendere giustizia al mio vicino, che è stato così gentile con me, devo ammettere che aveva tutte le ragioni; anche se, dopo tutto, a me non risulta che voi abbiate cercato di prender niente, e perciò non so davvero che risolvere.” Io insistetti con lui perché andassimo subito davanti a un magistrato, e se si provava contro di me che io avevo comunque avuto l’intenzione di rubare, io mi sarei volentieri sottomessa, ma in caso contrario mi sarei attesa una riparazione.
Proprio mentre eravamo presi in quella discussione, e una folla di persone s’era formata davanti alla porta della bottega, passò Sir T. B., che era consigliere municipale e giudice di pace; saputolo, l’orefice va subito fuori a supplicare sua signoria di venir dentro a risolvere il caso.
Va detto a tutto merito dell’orefice che fece il suo racconto con grandissima imparzialità e moderazione, mentre il tipo che si era intromesso e che mi aveva afferrata fece il suo con molta foga e con rabbia idiota, che a me giovò invece di farmi danno. Venne poi il turno mio di parlare, e io raccontai a sua signoria che ero forestiera in città, perché ero appena arrivata dal nord; alloggiavo nel tal posto, stavo passando per quella via, ed ero entrata nel negozio dell’orefice per comprare una mezza dozzina di cucchiai. Per buona sorte, avevo in tasca un vecchio cucchiaio d’argento, che tirai fuori, e dissi che l’avevo portato con me per trovarne una mezza dozzina di nuovi che andassero bene con quello, da tenere insieme con altri che avevo in campagna.
Vedendo che non c’era nel negozio nessuno, dissi, avevo picchiato forte col piede in terra per farmi sentire dalla gente, ed avevo anche chiamato a voce alta; era vero che c’era in bottega dell’argenteria sparsa in giro, ma nessuno poteva dire che io l’avessi toccata, nemmeno che mi fossi avvicinata; quel tizio era entrato di corsa in bottega dalla via, e mi aveva messo le mani addosso in maniera brutale, proprio mentre io stavo chiamando la gente di casa; se avesse davvero voluto rendere un servigio al suo vicino, avrebbe dovuto fermarsi a una certa distanza, osservare in silenzio se toccavo qualcosa o no, e poi saltarmi addosso e cogliermi sul fatto. “Questo è verissimo,” dice il signor consigliere, e rivolto al tizio che mi aveva afferrata gli domandò se era vero che io avevo picchiato, in terra col piede. Quello disse che sì, avevo picchiato col piede, ma potevo averlo fatto perché avevo visto arrivare lui. “Eh, no,” dice il consigliere, interrompendolo, “adesso vi contraddite, perché avete appena detto che costei si trovava nella bottega volgendovi le spalle e non si accorse di voi finché non le foste addosso.” Ora, era vero che io volgevo quasi del tutto le spalle alla via, ma il mio mestiere era tale da esigere che io tenessi aperti gli occhi da ogni parte, e perciò io con la coda dell’occhio l’avevo visto arrivare, di corsa, come ho detto, anche se lui non se n’era accorto.
Dopo aver ascoltato tutto, il consigliere espresse il parere che il vicino s’era sbagliato e che io ero innocente, e l’orefice fu d’accordo, e la moglie anche, e così io fui lasciata libera; ma, mentre stavo per allontanarmi, il consigliere disse: “Un momento, signora, se avevate l’intenzione di comprare dei cucchiai, spero che non vorrete far perdere l’affare al nostro amico per causa del suo sbaglio.”
Io prontamente risposi: “No, signore, sono sempre pronta a comprare i cucchiai, se vanno bene col mio cucchiaio dispari, che ho portato come campione”; e l’orefice me ne mostrò allora alcuni che erano proprio della stessa forma. Pesò i cucchiai, e faceva trentacinque scellini; io per pagare tirai fuori la borsa, nella quale avevo quasi venti ghinee, perché non andavo mai fuori senza portare con me una tal somma, per qualsiasi evenienza, e mi fu utilissima sia in altre occasioni, sia in quella.
Quando il signor consigliere vide il mio denaro, disse: “Bene, signora, ora sono convinto che eravate stata accusata a torto, ed è stato per questo motivo che vi ho invitata a comprare i cucchiai, perché se non aveste avuto il denaro per pagarli, io avrei dovuto sospettare che foste entrata in questa bottega non con l’intenzione di comprare, perché per la verità la gente che nutre le intenzioni delle quali eravate stata accusata voi, ben di rado ha in tasca tant’oro quanto vedo che voi ne avete.”
Io sorrisi, e dissi a sua signoria che dunque una parte della sua benevolenza nei miei riguardi la dovevo al mio denaro, ma mi auguravo che lui avesse avuto buoni motivi anche per dare il parere che aveva dato prima. Lui disse di sì, li aveva avuti di certo, ma ora s’era confermato nella propria opinione, ed era assolutamente convinto che mi era stato fatto un torto. Così io me ne venni via a vele spiegate, anche se in quell’avventura ero giunta a un pelo dal disastro.