Per quella notte fummo sbattuti nella stiva, coi boccaporti chiusi, eravamo così pigiati che mi parve di soffocare per mancanza d’aria; la mattina seguente la nave caricò, e discese il fiume fino a un posto chiamato Bugby’s Hole, e questo, ci dissero, d’accordo col mercante, per toglierci ogni possibilità di fuggire. Comunque, quando la nave giunse là e gettò l’ancora, ci fu concessa più libertà, e in particolare ci venne consentito di salire in coperta, ma non sul ponte di comando, che era riservato per il capitano e per i passeggeri.
Quando, dal chiasso che facevano gli uomini sopra il mio capo, e dal movimento della nave, m’ero accorta che avevano issato le vele, ero rimasta dapprima molto meravigliata, avevo temuto che stessimo già per salpare e che non avremmo potuto rivedere più i nostri amici; ma m’ero tranquillizzata subito dopo, accorgendomi che avevano gettato di nuovo l’ancora, e poi da certi uomini sapemmo dove ci trovavamo, e che la mattina dopo ci avrebbero dato il permesso di salire in coperta, e di far venire i nostri amici a trovarci, se ne avevamo.
Tutta quella notte giacqui sulle dure tavole della stiva come gli altri prigionieri, ma in seguito ci furono concesse piccole cabine per quelli di noi che avevano la roba necessaria per farsi il letto, e dove c’era posto per casse e bauli di vestiti e di biancheria, chi ne aveva (è il caso di dirlo) perché alcuni di quelli non avevano né camicia né panni né stracci di lana né di tela, oltre quello che portavano indosso, e non avevano nemmeno un soldo per cavarsela; tuttavia scoprii che non se la cavavano troppo male sulla nave, specialmente le donne, che prendevano dai marinai, lavando i loro panni, soldi in quantità sufficiente a comprare tutte le piccole cose di cui avevano bisogno.
Quando, la mattina dopo, avemmo il permesso di salire in coperta, io domandai a uno degli ufficiali della nave se potevo avere il permesso di mandare a terra una lettera, per far sapere ai miei amici dov’era la nave e farmi mandare le cose di cui avevo bisogno. Era, seppi, il nostromo, un tipo d’uomo civile e cortese, il quale mi disse che mi avrebbe dato quel permesso, e tutti gli altri che desideravo, purché potesse darmeli senza correre rischi. Io gli dissi che non volevo altro; mi rispose che la scialuppa della nave andava a Londra con la prossima marea, e che avrebbe dato la mia lettera da portare.
Così, quando fu per partire la scialuppa, venne da me il nostromo e mi disse che la scialuppa partiva, e che ci andava anche lui, e mi domandò se era pronta la lettera della quale doveva occuparsi. Io, potete figurarvelo, m’ero procurata penna, inchiostro e carta, e avevo scritto una lettera indirizzata alla mia governante, e ne avevo acclusa un’altra per il mio compagno di carcere, senza tuttavia rivelarle che era mio marito, neanche allora. Nella lettera alla governante, dissi dov’era la nave, e la pregai vivamente di inviarmi tutto quanto sapevo che m’aveva preparato per il viaggio.
Con la lettera detti al nostromo anche uno scellino, che gli dissi destinato al compenso del messo o del portatore che lo supplicai di spedire con la lettera appena arrivato a terra, così da poter possibilmente ricevere la risposta per mezzo della stessa persona, e sapere che ne era stato della mia roba. “Infatti, signore,” dico “se la nave parte prima che io abbia a bordo la roba, sono rovinata.”
Ebbi cura, quando gli detti lo scellino, di fargli osservare che avevo con me qualcosa di meglio dei prigionieri comuni, dato che lui vide bene che avevo una borsa, con molto denaro dentro; e io m’accorsi che bastò quella vista a farmi riservare subito un trattamento molto migliore di quello che altrimenti avrei ricevuto su quella nave; il nostromo infatti, benché fosse stato molto gentile anche prima, per una specie di istintiva compassione nei miei riguardi, nei riguardi cioè di una donna nei guai, tuttavia lo fu molto più dopo, e fece in modo che sulla nave mi trattassero, ripeto, molto meglio di come altrimenti mi avrebbero trattato; come a suo tempo e luogo si vedrà.
Fece onestamente portare la lettera alla mia governante, e mi riportò la risposta di pugno di lei; e, quando mi dette la risposta, mi restituì anche lo scellino. “Ecco,” dice, “il vostro scellino, perché la lettera l’ho consegnata io personalmente.”
Io non sapevo che dire, rimasi molto sorpresa; ma, dopo un attimo di pausa, dissi: “Signore, siete troppo gentile; allora, sarebbe stato ragionevole che vi foste pagato il tragitto in carrozza.”
“No, no,” dice lui, “sono strapagato. Chi è quella signora.? Vostra sorella?”
“No, signore,” dico io, “non è mia parente, ma è una cara amica, la più cara di quanti amici ho al mondo.”
“Bene,” dice lui, “ci sono al mondo amici così. Già, piange come una bambina per voi.”
“Sì,” dico io, “sarebbe disposta, io credo, a dar cento sterline, per togliermi dalla terribile situazione in cui mi trovo.”
“Davvero le darebbe?” dice lui. “Per metà di quella somma, io credo che potrei mettervi in condizione di riacquistare la vostra libertà.” Ma disse questo a voce molto bassa, in modo che nessuno potesse sentire.
“Ahimè, signore,” dissi io, “ho paura che si tratti di un tipo di libertà che, se mi dovessero riprendere, mi costerebbe la vita.”
“Certo,” disse lui, “una volta lasciata la nave, dovreste pensar voi a voi stessa; di questo io non posso saper nulla.” Così, per quella volta, interrompemmo il discorso.
Nel frattempo la mia governante, fedele fino all’ultimo, fece avere la mia lettera a mio marito in carcere, ed ebbe la risposta, e il giorno dopo venne lei stessa alla nave, portandomi, in primo luogo, una branda da viaggio, come si dice, con tutto l’occorrente, quanto ci voleva ma non tanto da far pensare alla gente che si trattasse di roba straordinaria. Portò un forziere da viaggio, vale a dire un forziere come si fanno per marinai, con tutto il necessario dentro, pieno di tutto quel che potevo desiderare; e in un angolo del forziere, dov’era un cassetto personale, c’era tutto il mio capitale in contanti, voglio dire la parte che avevo deciso di portare con me; infatti avevo voluto lasciar lì una parte della mia ricchezza, in modo da farmela poi inviare trasformata in mercanzie quando avrei trovato la mia sistemazione; poiché il denaro non vale gran che in un paese dove la maggior parte delle cose si comprano in cambio di tabacco, e tanto meno vale la pena di portarselo laggiù da qui.
Ma il mio era un caso speciale: non era affatto opportuno che io giungessi là senza denaro e senza roba, ma, da povera deportata quale ero, destinata ad esser venduta appena sbarcata a terra, non potevo nemmeno portarmi un carico di mercanzie, sarebbero state notate, forse me le avrebbero portate via; perciò presi con me, a quel modo, una parte dei miei averi, e lasciai il resto in consegna alla mia governante.
La governante mi portò molte altre cose, ma non era opportuno che io sulla nave mi mostrassi troppo ben fornita, almeno finché non sapevo che tipo di capitano avevamo. Quando lei salì sulla nave, io credetti davvero di vederla morire; le mancò il cuore al vedermi, al pensiero di separarsi da me in quelle condizioni, e scoppiò in un pianto così irrefrenabile che per parecchio tempo non potei scambiare con lei nemmeno una parola.
Impiegai quel tempo per leggere la lettera del mio compagno di carcere, la quale, tuttavia, mi rese grandemente perplessa. Mi diceva che era deciso a partire, ma gli pareva impossibile essere rilasciato in tempo per venire sulla mia stessa nave, e, cosa anche più grave, si chiedeva se gli avrebbero permesso di partire con la nave che voleva lui, anche se era un deportato volontario; forse l’avrebbero imbarcato sulla nave che volevano loro, e l’avrebbero consegnato al capitano della nave come tutti gli altri forzati; sicché, incominciava a perder la speranza di incontrarmi prima di giungere in Virginia, e questo lo gettava nella disperazione; e oltretutto capiva che, se laggiù non trovava me, scomparsa magari per una disavventura in mare o per qualche altra mortale sciagura, per lui era finita, ciò avrebbe fatto di lui l’essere più sperduto al mondo.
Questo era molto preoccupante, e io non sapevo che fare. Raccontai alla governante la storia del nostromo, e lei si mostrò impaziente che io intavolassi trattative con quello, ma a me non andava per nulla l’idea, finché non sapevo se mio marito, ovvero il mio compagno carcerato, come lo chiamava lei, avrebbe avuto o no il permesso di venire con me. Alla fine mi trovai costretta a metterla a parte di tutta la faccenda, meno una cosa sola, e cioè che quello era mio marito. Le dissi che avevo già concluso con lui un vero e proprio accordo per partire insieme, se lui riusciva ad avere il permesso di venire sulla stessa nave, e sapevo che aveva del denaro.
Le feci poi una lunga esposizione di quel che mi proponevo di fare quando saremmo arrivati laggiù, come avremmo potuto fare i coltivatori, sistemarci, e, in breve, diventar ricchi senza correre altri rischi; e, come in gran segreto, le dissi che ci saremmo sposati appena a bordo.
Lei subito fu entusiasta, a sentir ciò, e d’accordo che partissi, e da quel momento prese come compito suo darsi da fare per fare uscire lui dal carcere in tempo, perché potesse imbarcarsi sulla stessa nave con me, cosa che alla fine si riuscì a combinare, non senza grandi difficoltà, e non senza tutte le forme solite della deportazione, benché lui in realtà non fosse ancora un vero e proprio forzato, perché non aveva subito il processo, e tutto ciò fu per lui una grande mortificazione. Poiché il nostro destino era ormai deciso, e noi ci trovavamo entrambi imbarcati, diretti in Virginia, nella meschina condizione di deportati, destinati ad essere venduti come schiavi, io per cinque anni, e lui con l’obbligo e la garanzia di non tornare più in Inghilterra per tutta la vita, lui era molto avvilito e molto giù; l’umiliazione d’essere condotto a bordo in quel modo, come un forzato, gli era seccata moltissimo, dato che prima gli avevano detto che avrebbe potuto scegliere di sua volontà la deportazione, e cioè imbarcarsi come un libero signore. Vero è che non c’era per lui, diversamente che per noi, l’ordine di venderlo appena arrivati laggiù, e che per questo motivo lui doveva pagare il proprio viaggio al capitano, cosa che noi invece non dovevamo fare; per tutto il resto, era smarrito come un bambino, non sapeva che fare né come disporre del suo, bisognava dirgli tutto.
Per prima cosa facemmo il confronto dei nostri averi. Lui fu molto onesto con me, e mi disse che di suo s’era trovato ad aver parecchio quand’era entrato in carcere, ma il viver lì come aveva fatto, recitando la parte del gran signore, e, dieci volte di più, il farsi degli amici, e fare le necessarie pratiche per il suo caso, gli era costato molto; in poche parole, tutto quel che gli era rimasto erano centootto sterline, che aveva con sé in monete d’oro. Io gli detti conto con altrettanta sincerità di quel che possedevo io, vale a dire di quel che avevo portato con me, perché ero decisa, qualsiasi cosa capitasse, a tener come riserva quel che avevo lasciato presso la mia governante; nel caso mi capitasse di morire, quel che avevo con me sarebbe stato abbastanza da dare a lui, e quel che avevo lasciato nelle mani della mia governante sarebbe andato a lei, che se l’era del resto ben meritato.
Il capitale che avevo con me era di duecentoquarantasei sterline, più qualche scellino; avevamo così fra tutti e due trecentocinquantaquattro sterline, e forse mai fu messa insieme, per ricominciare un’esistenza, una sostanza così mal guadagnata.
La nostra più grande sfortuna in fatto di soldi, era che erano tutti in contanti, e ognuno sa quale merce di scarso valore sia questa da portarsi in piantagione. Il suo, credo davvero che fosse tutto quanto gli era rimasto al mondo, come mi disse lui; ma io, che avevo da parte fra le settecento e le ottocento sterline, quando mi capitò la disgrazia, e che avevo la più amica delle persone possibili a occuparsene, tenuto conto che non era affatto una donna di principi religiosi, avevo ancora depositate in mano sua trecento sterline, che come ho detto tenevo di riserva; avevo, inoltre, diverse cose di notevole valore, e in particolare due orologi d’oro, alcuni pezzi di argenteria piccola, e alcuni anelli, tutta roba rubata. L’argenteria, gli anelli e gli orologi, li avevo messi nel forziere con i soldi, e con quel tesoro, nel sessantunesimo anno della mia vita, mi lanciai in un mondo nuovo, posso dire, nella condizione (almeno all’apparenza) di una povera galeotta priva di tutto, mandata in deportazione per risparmiarle la forca. I miei vestiti erano poveri e brutti, ma non stracciati né sporchi, e nessuno in tutta la nave sapeva che io avevo con me qualcosa di valore.
Tuttavia, siccome avevo una gran quantità di buoni vestiti, e biancheria in abbondanza, che avevo fatto mettere in due grandi casse, le avevo fatte imbarcare a bordo, non come roba mia, ma indirizzate in Virginia al mio nome vero; e avevo in tasca le bollette di spedizione firmate dal capitano; in quelle casse c’erano la mia argenteria, gli orologi, e tutto il resto di valore, meno il denaro, che tenevo separato in un cassetto segreto del mio forziere, dove nessuno poteva trovarlo, né, trovandolo, poteva prenderlo senza rompere il forziere.
In quello stato rimasi sulla nave per tre settimane, senza sapere se avrei avuto con me mio marito oppure no, e perciò senza saper decidere se dovevo, e in che modo, accettare l’offerta dell’onesto nostromo, cosa che lui sulle prime in verità trovò piuttosto strana. Passato quel tempo, ecco mio marito che arriva a bordo. Aveva un’aria avvilita e rabbiosa, il cuore gonfio di furore e sdegno; esser condotto da tre carcerieri di Newgate e imbarcato come un forzato, senza che nemmeno gli avessero fatto il processo! Se ne dolse moltissimo con i suoi amici, perché pare che avesse delle relazioni; ma i suoi amici fecero fiasco con il loro interessamento, si sentirono dire che lui aveva già avuto sufficienti benefici, e che di lui, dal momento in cui era stata data la garanzia per la deportazione, si eran sapute tali cose che poteva considerarsi molto ben trattato se non lo rimettevan sotto processo da capo. Quella risposta lo fece calmare subito, perché sapeva fin troppo bene che cosa poteva capitargli, che cosa si doveva aspettare; e comprese allora la bontà del consiglio avuto, che l’aveva convinto ad accogliere la proposta della deportazione volontaria. E quando il suo rancore verso quei cani dannati, come li chiamava, si fu un po’ placato, prese un’aria più tranquilla, cominciò a mostrarsi più allegro, e, poiché io gli dicevo quant’ero contenta di riaverlo di nuovo strappato a quelle mani, mi prese fra le sue braccia e ammise con grande affetto che gli avevo dato il migliore consiglio possibile.