Lasciai il funzionario raggiante di gioia per il suo bottino, più che soddisfatto di quel che aveva avuto, e presi appuntamento con lui ad una casa che lui stesso mi disse, dove io arrivai dopo essermi liberata del carico che avevo addosso e della cui esistenza lui non ebbe il minimo sospetto. Quando fui da lui, si mise a mercanteggiare con me, credendo che io non sapessi quale parte del premio mi spettava di diritto, e s’illudeva di liquidarmi con venti sterline, ma io gli feci sapere che non ero ignorante come credeva lui; e tuttavia fui contenta che lui mi desse l’occasione di trattare. Chiesi cento, lui salì a trenta; io scesi a ottanta, e lui salì ancora a quaranta; infine, mi offrì cinquanta sterline, e io accettai, domandando in più solo una pezza di merletto, che giudicavo valesse otto o nove sterline, come se servisse a me da portare, e lui disse di sì. Così incassai la sera stessa cinquanta sterline in contanti e chiusi l’affare; lui non seppe mai chi ero, né dove venirmi a cercare, cosicché se avesse scoperto in seguito che una parte della roba era stata fatta sparire, non avrebbe potuto chiederla a me.
Divisi scrupolosamente il malloppo con la mia governante, e da quella volta in poi fui per lei una campionessa di bravura in lavori speciali. Io trovai che quest’ultimo era stato il migliore e il più facile dei colpi della mia carriera, e mi specializzai, nel fare indagini su merci proibite, e, dopo aver comprato qualcosa, di solito li tradivo, ma nessuna di quelle soffiate mi procurò un utile degno d’esser preso in considerazione, almeno non quanto quella di cui ho appena riferito; io, però, ci tenevo a lavorare sul sicuro, e stavo attentissima a non correre i rischi che vedevo correre agli altri, e che ogni giorno ne mandavano in malora qualcuno.
La cosa più importante che seguì fu un tentativo di scippo dell’orologio di una signora. Si svolse in mezzo alla folla, in un luogo di riunione, dove io ero in grande pericolo di venir presa. Io avevo afferrato saldamente l’orologio della signora, ma, dopo aver dato un forte strattone, come se qualcuno m’avesse spinto addosso a lei, e facendo fare all’orologio un bel giro sul gancio, m’accorsi che non veniva, e perciò lo lasciai subito andare, e mi misi a strillare come se mi stessero ammazzando, che qualcuno m’aveva pestato il piede, e che c’erano di certo dei ladri in giro, perché qualcun altro aveva dato uno strappo al mio orologio; dovete infatti sapere che per quelle imprese andavamo in giro sempre ben vestite, e io avevo un abito molto bello e un orologio al fianco, da signora come tutte le altre.
Non l’avevo ancora detto, che l’altra signora strillò anche lei “Al ladro!”, perché disse che qualcuno aveva cercato di strapparle l’orologio.
Quando avevo toccato il suo orologio io ero vicina a lei, ma quando feci lo strillo mi fermai come se qualcuno mi tirasse, e siccome la folla portò un po’ avanti lei, quando lei strillò si trovò lontana da me, e non ebbe nei miei confronti il minimo sospetto; ma al suo grido “Al ladro!” qualcun altro gridò “E qui ce n’è un altro: anche con questa signora han tentato.”
In quel preciso momento, un po’ più in là in mezzo alla folla, gridarono di nuovo “Al ladro!” e veramente presero sul fatto un giovanotto. Ciò, benché costituisse una disgrazia per l’infelice, venne a proposito per i casi miei, anche se io già me l’ero cavata abbastanza bene; ma ormai io ero fuori causa, la folla correva da quella parte, e il povero giovane fu abbandonato in preda alla furia della folla: una cosa crudele che non v’è bisogno che io descriva, ma che, comunque, si preferisce sempre al fatto d’esser mandati a Newgate, dove spesso si rimane per un lungo periodo, finché si è quasi morti, e parecchie volte si finisce sulla forca, e il meglio che può capitare, se si è condannati, è di essere deportati.
Me la cavai quella volta di così stretta misura, e rimasi così spaventata, che per un bel pezzo non provai più con gli orologi. Ci furono in realtà in quell’episodio molte circostanze che concorsero a salvarmi; ma la principale fu che la donna alla quale avevo tirato l’orologio era una scema; era, cioè, incapace di comprendere la natura del tentativo, e non lo si sarebbe detto, visto che era stata furba al punto da fissare l’orologio in modo che non si potesse strappare. Ma lei si spaventò tanto che non ebbe la presenza di spirito di dare l’allarme nel modo giusto: infatti, quando si sentì tirare, strillò e si buttò avanti, e creò confusione tra la gente intorno a lei, ma né dell’orologio né del borsaiolo disse una sola parola per almeno un paio di minuti, che bastarono a me, e ne avanzava; poiché, siccome io avevo strillato stando dietro di lei, e mi ero portata indietro tra la folla mentre lei si portava avanti, vi furono parecchie persone, almeno sei o sette, con la calca sempre in movimento, che in quel frattempo si posero fra lei e me, e allora gridando io “Al ladro!” quasi prima di lei, o almeno contemporaneamente, poteva esser lei quanto me la persona sospetta, e la gente si confuse nel cercar di capire; laddove, se quella avesse avuto la presenza di spirito necessaria in tali occasioni, e appena sentito lo strappo non si fosse messa a strillare come fece ma si fosse voltata immediatamente e avesse afferrato la prima persona che si trovava dietro, avrebbe senz’altro preso me.
Questo è un consiglio poco generoso nei confronti della consorteria, ma è certamente la chiave per capire i movimenti dei borsaioli; chi seguirà questo consiglio sarà sicuro di prendere il ladro, come sarà certo di non prenderlo chi non lo seguirà. Ebbi anche un’altra avventura, che pone la questione fuor di dubbio, e che può costituire una lezione per la posterità in materia di borsaioli. La mia vecchia e brava governante, per fare un accenno alla sua storia, anche se aveva poi lasciato il mestiere, era, posso dire, nata borsaiola, e, come poi seppi, aveva sperimentato ogni grado dell’arte, e tuttavia era stata presa soltanto una volta, quando fu pescata in modo così grossolano, che fu giudicata colpevole e condannata alla deportazione; ma siccome era una donna con una parlantina speciale, e per di più aveva del denaro in saccoccia, trovò il modo, quando la nave fece scalo in Irlanda per le provviste, di sbarcare là, dove visse ed esercitò il suo vecchio mestiere per alcuni anni; finché, capitata in una cattiva compagnia d’altro tipo, diventò levatrice e ruffiana, e ne fece lì d’ogni colore, secondo il raccontino che me ne fece lei stessa in confidenza quando diventammo più intime; ed era a così balorda persona che io dovevo tutta l’arte e tutta la bravura che possedevo, nelle quali pochi mi hanno sorpassato, e mai nessuno le ha praticate per tanto tempo senza inconvenienti.
Fu dopo quelle imprese in Irlanda, quando si trovò ad essere in quel paese ben conosciuta, che lei lasciò Dublino e tornò in Inghilterra, dove, non essendo ancora spirato il termine della sua condanna alla deportazione, lasciò da parte il mestiere di prima, per paura di cadere di nuovo in cattive mani, perché in quel caso era sicura di andare a picco. Qui riprese a fare lo stesso lavoro che aveva fatto in Irlanda, e ben presto, per il modo in cui ci sapeva fare e per la chiacchiera che aveva, raggiunse la posizione che ho già descritto e incominciò ad arricchirsi, anche se in seguito, come ho accennato, il mestiere le andò di nuovo male.
Fornisco tutti questi particolari sulla storia di quella donna per meglio illustrare la parte che ebbe nella vita cattiva che io ora conducevo, in ogni particolare della quale fu lei a farmi da guida, come se mi portasse per mano, e mi dette tali e tanti insegnamenti, e io li applicai tutti così bene, che divenni la più grande artista del mio tempo, e da tutti i pericoli mi cavai con tale bravura che, mentre molte altre mie colleghe finirono a Newgate dopo aver fatto il mestiere per la metà di un anno, io invece riuscii a esercitare per ben cinque anni, e ancora la gente di Newgate nemmeno mi conosceva; avevano, sì, sentito molto parlare di me, e s’aspettavano spesso di vedermi arrivare, ma io riuscivo sempre a cavarmela, anche se molte volte con estremo rischio.
Uno dei rischi maggiori che ora correvo era che ormai ero fin troppo conosciuta nel mestiere, e certuni, il cui odio per me nasceva più dall’invidia che non dall’aver fatto io qualcosa di male a loro, incominciarono a provar rabbia perché io riuscivo a scamparla sempre, mentre loro venivan sempre presi e sbattuti a Newgate. Furono loro che mi misero nome Moll Flanders; il quale nome non somigliava al mio nome vero, né a tutti gli altri nomi che avevo in altre circostanze usato, più di quanto il bianco somiglia al nero, anche se una volta, come ho già raccontato, quando m’ero rifugiata nella Zecca, m’ero fatta passare per signora Flanders; ma quei farabutti non lo sapevano, non ho mai scoperto come arrivarono a mettermi quel nome, né quando.
Fui ben presto informata che alcuni di quelli che erano finiti chiusi a Newgate avevano giurato di inguaiarmi; e siccome io sapevo che due o tre di loro erano capacissimi di farlo, me ne preoccupai moltissimo, e per parecchio tempo non uscii di casa. Ma la mia governante — con la quale avevo sempre spartito i miei successi, e che adesso con me andava sul sicuro, perché aveva una parte del guadagno senza avere nessuna parte del rischio — ripeto, la mia governante si mostrava scontenta del fatto che io conducevo una vita così inutile, così poco redditizia, come lei diceva; trovò perciò un trucco nuovo per farmi uscire, cioè travestirmi da uomo, e mi fece così debuttare in una nuova specialità.
Ero alta e di bella figura, ma avevo la faccia un po’ troppo liscia per un uomo; però, visto che quasi sempre uscivo di sera, poteva andare; ma mi ci volle parecchio tempo prima di riuscire a muovermi nei miei nuovi abiti con disinvoltura: per il lavoro, s’intende, che dovevo fare. Era impossibile essere sciolta, svelta e brava, in cose di quel genere, indossando un abito così innaturale; e siccome facevo tutto in modo goffo, non avevo né il successo né le possibilità di scampo che avevo avuto prima, e decisi perciò che dovevo smettere; ma ben presto la mia decisione ricevette conferma dal caso che segue.
Quando m’ebbe fatta travestire da uomo, la mia governante mi mise insieme a un uomo, un giovanotto abbastanza svelto nel mestiere, e per due o tre settimane andammo abbastanza bene insieme. Il nostro lavoro principale era curare i banchi dei bottegai, e far sparire qualsiasi tipo di cosa trovassimo incustodita in giro, e per un po’ di tempo facemmo, come si diceva, buoni affari. E siccome stavamo sempre insieme, acquistammo una certa intimità, anche se lui non sapeva che io non ero un uomo, e addirittura nonostante il fatto che più volte io mi recai al suo alloggio, per le necessità del nostro lavoro, e quattro o cinque volte passai tutta la notte nello stesso letto con lui. Ma altro era il nostro destino, e per me era assolutamente necessario tenergli nascosto di che sesso ero, come in seguito si vide. Il tipo di esistenza che conducevamo, il fatto stesso che rincasavamo tardi, e il doverci occupare di tante cose per le quali era indispensabile che nessun estraneo mettesse piede nel nostro alloggio, facevano sì che io non potevo, senza confessare di che sesso ero, rifiutare di mettermi a letto con lui; sta di fatto che riuscii in pratica a non scoprirmi.
Ma la cattiva sorte sua, e la buona mia, posero fine a quel tipo di vita, della quale devo ammettere che ero già scontenta, per diversi altri motivi. Avevamo fatto già parecchi colpi in quel genere di lavoro, ma l’ultimo era destinato ad essere diverso dagli altri. C’era in una certa via una bottega la quale aveva sul retro un magazzino che dava su un’altra via, la casa era sulla cantonata.
Attraverso la finestra del magazzino vedemmo, posate sul banco di esposizione che era proprio di fronte, cinque pezze di seta, più altra roba, e, benché fosse già quasi buio, quelle persone, occupate coi clienti in bottega, non avevano avuto il tempo di chiudere quella finestra, o se n’erano dimenticate.
Di ciò il giovanotto fu tanto entusiasta che non si tenne più. Era tutto lì a portata di mano, disse, e imprecando aggiunse che quella roba la prendeva lui, a costo di buttar giù la casa. Io cercai di dissuaderlo, ma vidi che non c’era rimedio, così lui si buttò deciso, tolse con una certa bravura un quadrato di vetro della finestra, senza far rumore, tirò fuori quattro pezze di seta e venne con quelle verso di me, ma fu immediatamente seguito da un chiasso terribile. Eravamo vicini, ma io non avevo preso niente dalle sue mani, e in gran fretta gli dissi: “Sei perduto, fila, per amor dei Cielo!” Lui fuggì come il lampo, e io feci lo stesso, ma la caccia era più accesa per lui che per me, era lui che aveva la roba. Buttò via due pezze, che fermarono per un momento gli inseguitori, ma poi la folla aumentò, e continuò a correrci dietro. Presero subito lui con le altre due pezze, e il resto della folla venne dietro a me. Io feci una gran corsa ed entrai nella casa della mia governante, dove alcuni più svelti che mi avevano seguito mi videro entrare. Non bussarono subito alla porta, e io ebbi perciò il tempo di togliermi il travestimento e di rivestirmi con i miei abiti; per di più, quando arrivarono gli altri, la mia governante, che aveva già pronta una storia, tenne chiusa la porta, e a quelli che erano di fuori gridò che in casa non c’era nessun uomo. Quelli affermarono che un uomo era entrato, e gridarono che buttavano giù la porta.
La governante, per nulla sorpresa, parlò con tutta calma, disse che erano liberi di entrare a perquisire la casa, se portavano con sé un gendarme, e se facevano entrare solo quelli che il gendarme permetteva, perché sarebbe stato irragionevole far entrare tutta la folla. A questo non potevano opporsi, anche se erano in tanti. Così andarono subito a chiamare un gendarme, e lei tranquillamente aprì; il gendarme restò a guardia della porta, e gli uomini da lui designati frugarono la casa, con la governante che li accompagnò stanza per stanza. Quando arrivarono alla mia stanza, lei mi chiamò dicendo a voce alta: “Cugina, per piacere, apri la porta: ci sono qui dei signori che devono entrare a dare un’occhiata in camera tua.”
Io avevo con me una ragazzina, che era la nipote della mia governante, quando lei mi chiamò; dissi a quella di aprir pure la porta, e rimasi seduta a lavorare con una quantità di cose sparpagliate intorno, come se fossi stata intenta tutto il giorno a quel lavoro, ed ero tutta svestita, con soltanto una cuffia da notte in testa, e una veste da camera molto scollata indosso. La governante si scusò garbatamente del fatto che mi disturbavano, dicendomene sommariamente il motivo e aggiungendo che non aveva potuto far altro che aprir la porta a quelle persone, perché si rendessero conto da sé, visto che quel che aveva detto lei non era bastato. Io restai a sedere, dissi a quelle persone di perquisire la stanza se volevano, perché ero certa che, se mai in casa c’era qualcuno, certo in camera mia non era; quanto al resto della casa, non potevo dir niente io, non sapevo che cosa stavano cercando.