Quando gli venivano tali pensieri in mente, se ne andava, e a volte non tornava per un mese o anche più; ma quando il momento della serietà gli passava, gli veniva il momento del capriccio, e allora arrivava, pronto per il momento del vizio. Così vivemmo per qualche tempo; anche se lui non mi tenne, come si dice, come una vera mantenuta, tuttavia non mancò mai di trattarmi in modo molto bello, sufficiente a me per vivere senza lavorare e senza, ciò che era anche meglio, continuare il mio vecchio mestiere.
Ma anche quella storia arrivò alla fine; infatti, dopo un anno circa, mi accorsi che lui veniva a trovarmi meno spesso del solito, finché smise del tutto, senza un litigio e senza una scena d’addio; e così ebbe fine quel breve periodo della mia vita, il quale non mi servì a metter gran che da parte, se non una ragione di più per pentirmi.
Durante quell’intermezzo, tuttavia, io me ne stetti moltissimo chiusa in casa; almeno, visto che c’era chi pensava a me, non mi misi in altre imprese, addirittura per altri tre mesi buoni dal giorno in cui lui mi lasciò; ma poi, accorgendomi che mancavo di spiccioli, e siccome non m’andava di spendere il grosso, posi mente di nuovo all’antico mestiere, e cioè a battere le strade; e il primo passo che feci fu piuttosto fortunato.
M’ero vestita con un abito molto scadente, perché avevo diverse maniere di farmi vedere in giro, e quella volta portavo un vestito di stoffa ordinaria, un grembiule blu e un cappello di paglia; mi piazzai alla porta della Locanda delle Tre Tazze, nella St. John Street. C’erano di solito parecchi calessi a quella locanda, e la sera si fermavano sempre nella strada le diligenze per Barnet, per Totteridge e per altre città, prima di mettersi in viaggio, e così io ero pronta per cogliere questa o quella fra le occasioni che mi si potevano presentare. L’idea era questa: la gente arrivava di solito a quelle locande con fagotti o con piccole borse, e chiamava il calesse, o la carrozza, come voleva, per farsi portare in campagna; e in genere c’erano delle donne, mogli o figlie di facchini, pronte a prender la roba per conto dei loro uomini che le facevano lavorare.
Accadde per uno strano caso che io ero ferma al cancello della locanda, e una donna, che era lì prima di me, e che era la moglie del facchino addetto alla diligenza di Barnet, mi vide e mi domandò se io aspettavo qualcuno con la diligenza. Io le dissi di sì, aspettavo la mia padrona che arrivava per andare a Barnet. Lei mi domandò chi era la mia padrona, e io le dissi il primo nome che mi venne in mente; ma, a quanto pare, mi capitò di dire un nome che era anche quello di una famiglia che abitava a Hadley, poco più in là di Barnet.
Per un po’, io non le dissi altro, né lei disse nulla a me, ma di lì a qualche tempo, siccome la chiamarono ad una porta un po’ più in là, lei mi chiese il favore, se la cercavano per la diligenza di Barnet, di farla chiamare a quella casa, che pare fosse una birreria. Io le dissi prontamente di sì, e lei se ne andò.
Se n’era appena andata che arriva una ragazza, tutta sbuffante e sudata, con una bambina, e chiede della diligenza di Barnet. Io subito risposi: “Qui.”
“Siete della diligenza di Barnet?” dice lei.
“Sì, bellezza,” dico io, “che cosa ti serve?”
“Mi servono i posti per due passeggeri,” dice lei.
“Dove sono, bellezza?” dissi io.
“La bambina eccola,” lei dice, “per favore prendetela in carrozza; e adesso vado a prendere la mia padrona.”
“Fai presto, bellezza,” dico io, “altrimenti rischi di trovare pieno.” La ragazza aveva sottobraccio un grosso fagotto; mise così in carrozza la bambina, e io dissi: “Facevi meglio a mettere in carrozza anche il fagotto.”
“No,” dice lei, “ho paura che alla bambina lo portino via!”
“Dallo qui, allora,” dico io, “ci baderò io.”
“Va bene,” dice lei, “ma badateci davvero.”
“Ne rispondo io,” dissi, “ci fosse pure un valore di venti sterline dentro.”
“Allora, eccolo,” dice quella, e via, se ne va.
Appena ebbi avuto il fagotto, e la cameriera fu scomparsa alla vista, io mi avviai verso la birreria dove si trovava la moglie del facchino, cosicché, se la incontravo, era come se fossi venuta soltanto a darle il fagotto e a rimandarla al suo posto, perché io me ne dovevo andare e non potevo fermarmi più lì; ma, siccome non la incontrai, continuai a camminare, girai in Charterhouse Lane, tagliai per Charterhouse Yard, giù per Long Lane, traversai la Bartholomew Close, entrai in Little Britain, e per il Bluecoat Hospital sbucai nella Newgate Street.
Per evitare di essere riconosciuta, mi tolsi il grembiule blu e vi avvolsi dentro il fagotto, che prima era fatto su in una pezza di cotone dipinto, molto bella; ficcai dentro anche il mio cappello di paglia e mi misi in testa il fagotto; e fu un gran bene che lo facessi, perché, uscendo dal Bluecoat Hospital, andai a imbattermi proprio nella ragazza che m’aveva dato da tenere il fagotto. A quanto pare, era con la sua padrona, che era andata a prendere per condurla alle diligenze di Barnet.
Vidi che aveva fretta, e io non avevo certo convenienza a fermarla; così se ne andò, e io portai tranquillamente il mio fagotto a casa della governante. Nel fagotto non c’erano né soldi, né argenteria, né gioielli, ma c’erano un abito molto bello di damasco indiano, una gonna e una sottoveste, una cuffia guarnita di merletti di Fiandra molto belli, e una certa quantità di lino e altra roba, e di tutto si poteva calcolare facilmente il valore.
Non era stata un’invenzione mia, me l’aveva passata una tale che l’aveva già provata con successo, e alla mia governante piacque moltissimo; e per la verità io provai varie altre volte, mai però due volte nello stesso posto; la volta seguente provai in Whitechapel, all’angolo di Petticoat Lane, dove si fermano le carrozze dirette a Stratford, a Bow e da quella parte del paese; un’altra volta provai al Cavallo Volante, fuori Bishopsgate, dove fermavano allora le carrozze per Cheston; ed ebbi sempre la fortuna di venirmene via con un bottino.
Un’altra volta mi piazzai vicino a un magazzino sul fiume dove arrivavano le barche costiere del nord, da posti come Newcastle sul Tyne, Sunderland, e altri. Lì, siccome il magazzino era chiuso, arrivò un giovane con una lettera; voleva una cassa e un paniere che dovevano giungere da Newcastle sul Tyne. Io gli domandai se aveva i documenti; lui così mi fece vedere la lettera, in virtù della quale era autorizzato a chieder quella roba, e nella quale si accennava anche al contenuto: la cassa era piena di lino e il paniere conteneva cristalleria. Io lessi la lettera, ed ebbi cura di osservare il nome, i bolli, il nome della persona che mandava la merce e il nome della persona alla quale era indirizzata; poi dissi al messaggero di ripassare la mattina dopo, perché per quella sera il magazziniere non tornava più.
Filai via e, procuratomi l’occorrente in un locale pubblico, scrissi una lettera da parte del signor John Richardson al suo caro cugino Jemmy Cole, di Londra, con la nota di quel che aveva spedito per mezzo della tale barca (avevo infatti tenuto a memoria i minimi particolari): tante pezze di lino, tante misure di tela d’Olanda, e così via, in una cassa, e un paniere di vetri soffiati della cristalleria del signor Henzill; e la cassa era contrassegnata con le iniziali J. C. e il numero 1, mentre il paniere aveva un cartellino con l’indirizzo fissato ai legacci.
Un’oretta più tardi, tornai al magazzino, trovai il magazziniere, e mi feci consegnare la roba senza nessuna complicazione; il valore del lino era di circa ventidue sterline.
Potrei riempire tutto questo racconto con una gran varietà di imprese di quel tipo, perché ogni giorno ne inventavo una nuova, e le compivo con la maggiore bravura, e sempre con successo.
Alla fine (non si dice forse che tanto va la brocca al pozzo che ritorna a casa rotta?) mi ficcai in certi piccoli guai, che anche se non poterono riuscirmi fatali servirono tuttavia a farmi conoscere, e questa era la cosa peggiore che mi potesse capitare, quasi come esser pescata.
Mi ero travestita con un abito da vedova; l’avevo fatto senza avere un vero piano in mente, ma soltanto per aspettare le occasioni che si sarebbero presentate, come facevo spesso. Accadde che, mentre camminavo in Covent Garden, si levasse un alto grido: “Al ladro! Ferma, ferma!” Gente del mestiere aveva, a quanto pare, tentato un colpo da un negoziante, e, trovandosi inseguiti, chi era scappato da una parte, chi dall’altra; e c’era fra loro una donna, dissero, in gramaglie da vedova, e questo bastò per far raccogliere intorno a me la folla, e c’era chi diceva che ero io, chi diceva di no. Subito arrivò il commesso del merciaio e si mise a spergiurare forte che ero io quella donna, e così mi pigliarono. Tuttavia, quando la folla mi ebbe portata fino al negozio del merciaio, il padrone disse che assolutamente non ero io la donna entrata nel suo negozio, e m’avrebbe lasciato andar via immediatamente; ma un altro tizio disse tutto serio: “Vogliate restar qui fin quando arriva il signor… (intendendo il commesso), lui, conosce quella donna.” Così mi trattennero con la forza per un’altra mezz’ora. Avevano chiamato un gendarme, che si fermò nel negozio come mio carceriere; parlando con il gendarme io gli domandai dove abitava e dove lavorava; l’uomo, senza minimamente sospettare quel che sarebbe poi accaduto, mi disse come si chiamava, dove abitava, dove lavorava; e come per burla mi disse anche che certo l’avrei sentito nominare quando sarei andata davanti all’Old Bailey.
Alcuni commessi mi trattarono in maniera impertinente, e dovetti faticar parecchio per tenermi giù le loro mani di dosso; il padrone, per la verità, fu più civile con me, ma non mi lasciò andar via, pur ammettendo che non era in grado di dire se mi aveva vista o no nel negozio.
Io mi misi a fargli il muso duro, gli dissi che speravo non si sarebbe poi lamentato se a tempo debito io avrei rimesso le cose a posto con lui in una forma più legale; e che l’unica cosa che volevo era di poter mandare a chiamare degli amici miei per difendere i miei diritti. Lui disse di no, che quel permesso non me lo dava, potevo domandarlo quando mi trovavo davanti al giudice; e, visto che minacciavo, ci avrebbe pensato lui, intanto, a farmi spedire dritta a Newgate. Io gli dissi che adesso era il momento suo, ma di lì a poco sarebbe venuto il mio, e dominai meglio che potei la mia rabbia. Chiesi comunque al gendarme di far venire un facchino, cosa che lui fece, e poi domandai penna, inchiostro e calamaio, ma di questo non mi permisero d’avere niente. Chiesi al facchino come si chiamava e dove abitava, e il poveretto me lo disse molto volentieri. Gli dissi di osservare e di ricordare com’ero trattata lì; vedeva bene che ero trattenuta con la forza. Gli spiegai che mi serviva la sua testimonianza in un altro luogo, e che non avrebbe avuto di che pentirsi a parlare. Il facchino disse che sarebbe stato felicissimo di servirmi. “Ma, signora,” dice, “fatemi sentire quando voi volete andarvene e quelli dicono di no, così lo saprò dire meglio, dopo.”
A questo punto, io rivolsi la parola a voce alta al padrone del negozio, dicendo: “Signore, voi sapete in coscienza che non sono io la persona che cercate e che prima non mi trovavo nel vostro negozio, di conseguenza io vi chiedo di non trattenermi oltre, o di dirmi per quale motivo lo fate.” A quelle parole, quel tizio diventò ancora più brusco, e disse che non avrebbe fatto né l’una né l’altra cosa finché non ne avesse avuto voglia. “Benissimo,” dissi io al gendarme e al facchino, “mi farete la cortesia di ricordare questo, signori, in altra occasione.” Il facchino disse: “Sì, signora,” e il gendarme, al quale la cosa incominciava a piacer meno, avrebbe voluto persuadere il merciaio a sollevar lui dall’incarico e a lasciar andar via me, visto che, come aveva detto, ammetteva che la persona ricercata non ero io.
“Brav’uomo,” gli disse pieno di alterigia il merciaio, “siete gendarme o giudice, voi? Io vi ho incaricato di sorvegliarla; fate per piacere il vostro dovere.”
Il gendarme, un po’ turbato, ma con belle maniere, gli disse: “Conosco il mio dovere e so chi sono, signore; ma ho paura che siate voi a non capire quello che state facendo.”
Si scambiarono altre parole dure, e nel frattempo i commessi, da villani spudorati, continuarono a trattarmi in maniera incivile, e uno di loro, quello che m’aveva presa per primo, finse di volermi perquisire e mi mise le mani addosso. Io gli sputai in faccia, chiamai il gendarme e gli dissi di osservare che cosa mi facevano. “E per piacere, signor gendarme,” dissi, “prendete il nome di quel mascalzone,” indicando quell’uomo. Il gendarme lo rimproverò severamente, gli disse che mostrava di non capire quel che faceva, perché sapeva bene anche lui che il suo padrone aveva riconosciuto che non ero io la persona entrata nel negozio. “E io,” dice il gendarme, “ho una gran paura che il vostro padrone stia mettendo nei guai se stesso, e anche me, se questa signora arriva a dimostrare chi è, e dove si trovava, e risulta chiaro che non è la donna che voi dite.” “Maledetta,” dice di nuovo quello, con un’aria dura e sfrontata, “è lei la donna, ci potete credere: io ci giuro, che è lei la persona che era in negozio, e la pezza di raso che manca gliel’ho messa io in mano. E ne saprete di più quando arrivano il signor William e il signor Anthony (erano altri commessi), la riconosceranno come me.”
Proprio mentre quel cialtrone impudente parlava così al gendarme, ricompaiono il signor William e il signor Anthony, come quello li aveva chiamati, seguiti da un gran tumulto di folla, portando con sé la vera vedova che quelli pretendevano fossi io; entrarono nel negozio sudati e ansanti e con un’aria trionfale e con maniere degne di un macellaio trascinarono la poveretta verso il padrone, che era nel retro del negozio, e gridarono forte: “Eccola, la vedova, signore; finalmente l’abbiamo presa.”
“Che volete dire?” dice il padrone “L’abbiamo già: eccola lì seduta, e il signor… giura che è lei.”
L’altro, quello che chiamavano il signor Anthony, replicò: “Il signor… può dire quel che vuole, e giurare quel che gli pare, ma la donna è questa, ed ecco il resto del raso che ha rubato: gliel’ho trovato addosso con le mie mani.”
Io restai tranquillamente seduta, cominciavo a sentirmi il cuore più leggero, ma feci un sorriso e non dissi niente; il padrone era diventato pallido; il gendarme si voltò a guardarmi. “Lasciate fare a loro, signor gendarme,” io dissi, “lasciateli pur continuare.” Il caso era lampante, e non c’era niente da negare, così al gendarme venne affidata la ladra giusta, e il merciaio mi disse con tono molto riguardoso che era addolorato dello sbaglio e sperava che io non l’avrei presa male; gliene facevano tante di quel genere ogni giorno, che non bisognava dar loro la colpa se erano un po’ bruschi nel farsi giustizia da sé. “Non prenderla male?” dissi io. “E dovrei prenderla bene? Se voi mi aveste lasciata andare quando quell’insolente del vostro uomo mi ha preso per via e mi ha portato qui, e voi stesso avete riconosciuto che non ero io quella donna, io avrei potuto passar sopra, e non prenderla male, in considerazione di tutte le cattive azioni che, ci credo, vi fanno ogni giorno; ma il modo in cui mi avete trattata da quel momento è stato intollerabile, specialmente quello del vostro dipendente. Per questo io ho diritto di ottenere riparazione, e lo pretendo.”