Quello si mise allora a parlamentare con me, disse che mi avrebbe dato ogni ragionevole soddisfazione, non voleva altro che sapere da me che cosa io ritenevo mi fosse dovuto. Io dissi che non dovevo io esser giudice per me, toccava alla legge decidere; e poiché dovevo comparire davanti a un magistrato, avrei detto lì quel che avevo da dire. Lui disse che non era più il caso, adesso, di andare dal giudice, io ero libera d’andarmene dove mi pareva; e così, rivolto al gendarme, gli disse che poteva lasciarmi andare, perché ero prosciolta.
Con calma il gendarme gli disse: “Signore, poco fa mi avete chiesto se ero gendarme o giudice, e mi avete invitato a fare il mio dovere, incaricandomi di arrestare questa signora. Ora, signore, a me pare che siate voi a non capire qual è il mio dovere, perché adesso vorreste voi farmi fare il giudice; ma io devo dirvi che ciò non è in mio potere. Io posso eseguire un arresto, quando mi si invita a farlo, ma soltanto la legge e il magistrato possono prosciogliere un detenuto; perciò, signore, vi siete sbagliato; io devo adesso condurre questa donna dal giudice, che voi lo vogliate o no.” Il merciaio sulle prime si dette col gendarme molte arie; ma, siccome si dava il caso che il gendarme non fosse di carriera, ma fosse invece una brava e ragionevole persona (credo che di mestiere facesse il grossista di granaglie) e un uomo di buon senso, s’irrigidì sulla sua posizione, non volle mollarmi prima d’avermi portato dal giudice; e anch’io insistetti per questo.
Quando il merciaio vide che così stavano le cose, “Bene, disse, “portatecela pure se vi fa piacere; io non ho altro da dirle.”
“Ma, signore,” dice il gendarme; “verrete anche voi con noi, spero, perché siete voi che m’avete chiesto di arrestarla.”
“No, io no,” dice il merciaio, “vi ho già detto che non ho altro da dirle.”
“Per piacere, signore,” dice il gendarme, “ve lo domando nel vostro stesso interesse, la giustizia non può fare un passo senza di voi.”
“Ma fatemi il piacere, amico,” dice il merciaio, “limitatevi a fare il vostro mestiere. Vi ho già detto che non ho altro da dire alla signora. In nome del re, vi invito a proscioglierla.”
“Signore,” dice il gendarme, “mi accorgo che non sapete che cos’è un gendarme; ve ne prego, non costringetemi a essere scortese con voi.”
“Non mi pare che ve ne sia bisogno: scortese lo siete già abbastanza,” dice il merciaio.
“No, signore,” dice il gendarme, “non sono affatto scortese; siete stato voi a turbare l’ordine prendendo una donna onesta per strada, dove aveva tutto il diritto di stare, e costringendola nel vostro negozio, e facendola maltrattare qui dai vostri dipendenti; e volete dire adesso che sono io scortese con voi? A me pare di essere molto gentile con voi se non vi rivolgo l’invito, o l’ordine in nome del re, di seguirmi, comandando alla prima persona che vedo passare davanti alla vostra porta di darmi aiuto e assistenza per tradurvi con la forza; voi non potete ignorare che io ho questi poteri, e tuttavia lascio perdere, e ancora una volta vi rivolgo la preghiera di seguirmi.”
Al merciaio, però, la cosa non andava giù, e rispose malissimo al gendarme. Il gendarme, ad ogni modo, non cambiò tono, disse che non ammetteva di essere provocato; a quel punto m’intromisi io, dicendo: “Su, signor gendarme, lasciatelo stare; troverò senz’altro la maniera di condurlo davanti al magistrato, non ho paura di questo; ma c’è quello lì,” dico, “l’uomo che mi ha preso mentre io innocentemente camminavo per via, e voi siete stato testimone della violenza che da quel momento ha usato nei miei confronti; permettetemi di incaricarvi di arrestarlo, e di tradurlo davanti al giudice.”
“Sì, signora,” dice il gendarme, e rivolto a quel tale, “Su, signor mio,” dice al commesso, “voi verrete con noi; mi auguro che voi non vi sentiate superiore ai poteri del gendarme, anche se così si sente il vostro padrone.”
Il tipo prese l’aria di un ladro condannato a morte, si buttò indietro, poi guardò il padrone come per chiedergli aiuto; e costui, da vero sciocco, lo incoraggiò a fare il duro, e lui in effetti oppose resistenza al gendarme, lo respinse con violenza quando quello gli si avvicinò per prenderlo, al che il gendarme lo gettò in terra e gridò chiamando aiuto; e subito il negozio si riempì di gente, e il gendarme arrestò il padrone, quell’uomo e tutti gli altri commessi.
La prima infelice conseguenza di quel trambusto fu che la donna che avevano preso, che era veramente la ladra, se la squagliò, e riuscì a sparire in mezzo alla folla; e scapparono anche altri due che avevano fermato; fossero costoro realmente colpevoli, o no, non saprei dire.
Intanto, essendo arrivati alcuni vicini e avendo appreso, dopo essersi informati, come stavano le cose, riuscirono a ricondurre alla ragione il merciaio dai bollenti spiriti, e costui incominciò a convincersi che aveva torto; e così alla fine ci avviammo tutti tranquillamente per andare dal giudice, con una folla di circa cinquecento persone alle calcagna; e per tutta la strada sentivo gente che chiedeva che cosa era successo, e altra gente che rispondeva, dicendo che un merciaio aveva preso una signora invece di una ladra, e adesso era la signora che aveva preso il merciaio e lo stava portando davanti al giudice. Questo stranamente fece gran piacere alla gente, la folla s’ingrossò, e tutti camminando gridavano: “Dov’è quel farabutto? Dov’è il merciaio?” ed erano specialmente le donne che gridavano. Quando poi lo vedevano, strillavano: “Eccolo, eccolo,” e di quando in quando gli arrivava addosso un bel lancio di immondezza; a questo modo andammo a piedi per un bel pezzo finché il merciaio trovò opportuno chiedere al gendarme di prendere una carrozza per proteggersi dalla marmaglia; e così facemmo in carrozza il resto del tragitto, il gendarme, io, il merciaio e il suo uomo.
Quando fummo in presenza del giudice, che era un vecchio gentiluomo di Bloomsbury, dopo che il gendarme ebbe narrato per sommi capi l’accaduto, il giudice invitò me a parlare, e a dire quel che avevo da dire. Per prima cosa mi domandò qual era il mio nome, che a me non andava per nulla di dirgli, ma non c’era niente da fare, e gli dissi così che mi chiamavo Mary Flanders, che ero vedova, che mio marito era un capitano di marina, morto durante un viaggio in Virginia; gli detti anche altri particolari che lui non avrebbe mai potuto smentire, e dissi che al presente abitavo in città presso la tal persona, e feci il nome della mia governante; ma mi preparavo a ripartire per l’America, dove si trovavano gli averi di mio marito, e stavo andando quel giorno a comprare degli abiti per mettermi in mezzo lutto, ma non avevo ancora posto piede in nessun negozio quando quel tipo, e indicavo il commesso del merciaio, mi s’era precipitato addosso con tale furia da farmi paura, e mi aveva portata nel negozio del suo padrone, dove il padrone, pur riconoscendo che non ero io la persona, non aveva voluto lasciarmi andare, e mi aveva dato nelle mani di un gendarme.
Continuai raccontando come il commesso mi aveva trattata; come non mi avevano permesso di mandare a chiamare qualche mio amico; e come infine avevano preso la vera ladra, e le avevano trovato indosso la roba sparita, e tutto il resto di cui s’è detto.
Poi il gendarme riferì la sua parte: la conversazione con il merciaio a proposito del mio proscioglimento, e infine il rifiuto del commesso di seguirlo, e l’incoraggiamento datogli dal padrone, e le botte date al gendarme, e le altre cose che ho già raccontato.
Il giudice ascoltò poi il merciaio e il suo uomo. Il merciaio fece in verità una lunga arringa sul gran danno che essi subivano per colpa di ladri e borsaioli; era facilissimo per loro sbagliarsi, e quando lui se n’era accorto voleva farmi lasciare libera, e così via, come sopra. Quanto al commesso, ebbe molto poco da dire, si limitò a sostenere che erano stati gli altri commessi a dirgli che quella donna ero io.
In conclusione, il giudice per prima cosa disse a me con molto garbo che ero prosciolta, gli dispiaceva molto che l’uomo del merciaio nella foga dell’inseguimento avesse avuto così poco discernimento da scambiare per colpevole una persona innocente; se non fosse stato così scorretto da trattenermi dopo, il giudice pensava che io avrei potuto perdonare la prima offesa; non era comunque in suo potere farmi avere la minima riparazione, se non rivolgendo a quelli un rimprovero pubblico, cosa che faceva; ma supponeva che io mi sarei valsa dei mezzi che la legge mi offriva; intanto, lui gli faceva fare il giuramento.
Ma per gli atti d’aggressione compiuti dal commesso, mi disse che mi avrebbe dato soddisfazione, perché l’avrebbe spedito a Newgate sotto l’accusa di aver aggredito il gendarme e me.
E così fece, ordinando di tradurre a Newgate il commesso per aggressione; il padrone versò la cauzione per lui, e ce ne venimmo tutti via; ma io ebbi la soddisfazione di vedere la folla aspettarli tutti e due all’uscita, urlare, gettar pietre e immondezza contro la carrozza nella quale loro si trovavano; e così io tornai a casa dalla mia governante.
Dopo tanto trambusto, tornata a casa e raccontata la storia alla governante, lei mi scoppia a ridere in faccia. “Che cos’è che ti diverte tanto?” dico io; “non c’è poi tanto da ridere quanto pare a te, in questa storia; lo so io che pandemonio è stato e che spavento mi son presa in mezzo a quel mucchio di brutte canaglie.”
“Certo che rido, bimba,” dice la mia governante, “rido perché capisco che persona fortunata sei; questa storia sarà l’affare migliore che tu abbia mai fatto in vita tua, se sai muoverti bene. Ti garantisco,” dice, “che riuscirai a far pagare al merciaio cinquecento sterline di danni, più quel che ti farai dare dal commesso.”
Io ero di parere diverso da lei su quell’argomento; specialmente perché avevo dato il mio nome al giudice e sapevo che il mio nome era tanto conosciuto dalla gente alla Hicks’s Hall, all’Old Bailey, e in posti del genere che se si arrivava a discutere la causa in pubblico e si facevano indagini sul mio nome, non c’era tribunale che se la sarebbe sentita di far pagare troppi danni per la reputazione di una come me. Comunque, fui costretta a dare inizio regolarmente all’azione legale, e la mia governante mi scovò perciò un uomo molto capace di cavarsela, che era un avvocato di gran mestiere e di chiara fama, e certamente la governante in questo aveva ragione; perché, se avesse assunto un qualsiasi procuratore maneggione, o uno poco conosciuto, e di reputazione poco buona, certamente sarei riuscita ad avere ben poco.
Mi incontrai con quell’avvocato, e gli raccontai il fatto in tutti i particolari, che ho già riferito; lui mi assicurò che quello era un caso, così disse, che stava in piedi da solo, e non c’era il minimo dubbio che una giuria avrebbe fissato un risarcimento notevole per un tal fatto; accettato così l’incarico, fece la citazione, e il merciaio, arrestato, pagò la cauzione. Pochi giorni dopo il pagamento della cauzione, si presenta al mio avvocato col suo avvocato, a dire che desiderava aggiustare la faccenda; s’era lasciato prendere dalla vampata di un impulso sciagurato; la sua cliente, e cioè io, aveva una lingua così tagliente e indisponente, che li avevo trattati proprio male, facendomi gioco e beffe di loro, persino quando loro credevano che quella donna fossi io, e insomma li avevo provocati, e così via.
L’avvocato mio per parte sua si mosse altrettanto bene; fece loro credere che ero una ricca vedova, che potevo farmi rendere giustizia da sola, e per di più avevo amici importanti in grado di appoggiarmi, i quali tutti mi avevano promesso di andare fino in fondo, e, dovesse anche costarmi un migliaio di sterline, avevo la certezza assoluta di ottenere soddisfazione, perché le offese che avevo ricevute erano intollerabili.
Quelli riuscirono comunque a far promettere al mio avvocato una cosa, e cioè che non avrebbe soffiato sui carboni accesi, ma se io ero propensa a un accomodamento, lui non me lo avrebbe impedito, e anzi mi avrebbe piuttosto persuasa a far la pace che a far la guerra; del che, gli dissero, non avrebbe avuto da pentirsi; tutto ciò, lui me lo riferì con assoluta onestà, e mi disse che, se quelli gli offrivano una mancia, lo avrei senz’altro saputo anch’io; ma, in conclusione, mi disse con chiarezza che, se volevo accettare il suo parere, mi consigliava di mettermi d’accordo con quelli, visto che siccome erano spaventatissimi ci tenevano soprattutto a raggiungere un accordo, e sapevano che comunque andasse, sarebbe toccato a loro pagare le spese del processo; era convinto che quelli mi avrebbero dato spontaneamente più di quanto avrebbe potuto stabilire qualunque tribunale in base a un processo. Io gli domandai a quanto pensava di poterli portare. Lui disse che quello ancora non poteva dirlo, ma avrebbe saputo dirmi di più la prossima volta che ci saremmo visti.
Qualche tempo dopo, tornarono per sapere se aveva parlato con me. Lui disse che lo aveva fatto, e aveva trovato meno contraria me, all’idea di un accomodamento, di quanto invece non fossero certi amici miei, i quali s’erano indignati per l’offesa che mi era stata fatta, e mi mettevano su; erano loro che soffiavano in segreto sui carboni accesi, e mi istigavano a vendicarmi, o, come dicevano, a farmi rendere giustizia; sicché lui non sapeva bene che dire; raccontò che era pronto a fare ogni sforzo per convincermi, ma occorreva che mi potesse dire che proposta loro facevano. Quelli pretesero di non potere fare nessuna proposta, perché la si sarebbe potuta usare contro di loro; e lui disse che di quel passo neanche lui avrebbe potuto fare una richiesta, perché la si sarebbe potuta usare per far calare la quota di risarcimento che una giuria poteva essere disposta a concedere. Comunque, dopo altri discorsi e reciproche promesse di non cercar vantaggi né da una parte né dall’altra per quel che si transigeva in quella o in altre riunioni, arrivarono ad una specie di definizione; ma così vaga, e con tale distanza ancora tra le due posizioni, che non ci si poteva aspettare ne venisse fuori nulla; infatti il mio avvocato domandava cinquecento sterline più le spese, e loro ne offrivano cinquanta senza spese; così chiusero, e il merciaio propose di incontrarsi direttamente con me, e il mio avvocato prontamente acconsentì.
L’avvocato mi avvertì di presentarmi a quell’incontro ben vestita, e con una certa aria, perché il merciaio si rendesse conto che valevo più di quel che poteva essere sembrato quando mi avevano presa. Io arrivai perciò con un vestito nuovo da mezzo lutto, secondo quel che avevo detto al giudice. E mi misi anche benino, quanto era ammissibile per una vedova in mezzo lutto; la mia governante per di più mi arredò con una collana di perle vere chiusa dietro da un fermaglio di brillanti, che lei aveva in pegno; e al fianco avevo un bell’orologio d’oro; sicché, in poche parole, facevo una gran bella figura; e dopo avere aspettato finché fui sicura che quelli fossero arrivati, arrivai io in carrozza, e accompagnata da una cameriera.