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Authors: Sarah Langan

Virus (43 page)

BOOK: Virus
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I vestiti gli si erano incollati addosso. Erano sudici, proprio come a Wilton, quando sua madre era arrabbiata con lui e non metteva più mano al cesto della biancheria finché non traboccava, ma lui non aveva il permesso di usare la lavatrice, così se voleva mettersi qualcosa di pulito doveva sciacquarlo nel lavandino del bagno.

Rimboccò le lenzuola intorno al grumo insanguinato come dopo una storia della buona notte. Si augurava proprio che sua mamma non scoprisse il macello che aveva combinato. Era sdraiata sul letto. Aveva visto tutto, anche se lui voleva proteggerla. Ora non riusciva più a smettere di piangere, perché non se l'era immaginato. Non era mai stato frutto della sua immaginazione. Per tutti quegli anni, la moquette era sempre stata davvero zuppa di sangue.

Lo senti anche tu, Fennie?

Si chinò verso il letto. La donna lo fissava. Prese la sega. Voleva metterla a tacere. Voleva che smettesse di guardarlo. Ma poi vide i suoi capelli viola. Da quando i capelli di Sara erano viola?

Un trucco!

Si precipitò in corridoio. Spalancò la porta. Lei aveva gli occhi sgranati, e lo sguardo colpevole. Che subdola. Era disposta a tutto pur di distruggere la sua casa. «Fen...» disse, ma non ebbe il tempo di finire, perché lui le chiuse il naso con le dita e le cacciò un calza in gola. «Piantala con i tuoi giochetti» disse, e poi uscì sbattendo la porta.

Tornò in camera di Maddie, e riprese posto sulla sedia. Restò di guardia a proteggere le sue donne, perché era l'ultimo uomo rimasto sulla terra.

 

39.

La persistenza del silenzio

 

Lunedì mattina a Corpus Christi il sole fu una delle poche cose che si levarono. Non c'erano macchine a pattugliare le strade. Non c'erano schermi tv a proiettare fasci di colore mentre Regis e Kelly si scambiavano insulti. I tostapane non scattavano. I tegami non sfrigolavano. Le uova non friggevano. I bambini non tossivano, non piangevano, non ridevano, non strillavano nemmeno.

Gli infetti dormivano. Isabelle, la figlia di Graham Nero, non avrebbe mai imparato a camminare. Durante la notte era strisciata giù dal lettino, e ora giaceva accanto a sua madre, dove aveva trovato sostentamento. Dormivano nelle loro case, dormivano sottoterra, dormivano sulle barelle dell'ospedale accanto ai dottori dei quali si erano nutriti, dormivano nelle macchine che intasavano l'autostrada.

La cosa che un tempo si chiamava Lois Larkin giaceva nel suo letto di bambina, dove nessuno sguardo indiscreto poteva trovarla. Mentre gli altri riposavano, lei diede inizio alle ricerche. Perlustrò le memorie dormienti degli infetti. Era più facile leggere nei loro pensieri quando dormivano. Le loro menti erano tranquille. Fece l'appello dei malati, dei divorati, e degli scomparsi. Di ciascuno individuò la cerchia degli amici, il ragazzo della consegna dei giornali, i colleghi di lavoro, fino a ottenere l'elenco di quelli ancora immuni dal contagio, e che potessero ancora ricordare il nome di Lois Larkin.

Su Micmac Street, gli allarmi delle auto suonarono per ore, finché le batterie non furono scariche, e il silenzio persistette come una nuova forma di entropia. A Corpus Christi i sani erano rimasti in sette, e nessuno di loro osava fare rumore.

 

40.

Cianuro

 

Non appena la luce del giorno le filtrò sulla fronte, Lila Schiffer prese la bicicletta di suo figlio dal garage e si diresse all'ospedale. Evitò di prendere la macchina. Di giorno dormivano, ma come esserne sicuri? Non voleva attirare la loro attenzione. La notte precedente gli infetti avevano fatto irruzione in casa sua, ma lei si era nascosta nel seminterrato, e lì non l'avevano cercata. Era stato allora che si era accorta che il polso le aveva fatto infezione. Dalla ferita si dipanavano strisce rosso-bluastre come raggi di una bici. La pomata antibiotica del dottor Wintrob non aveva funzionato; ci voleva la penicillina. Si rese conto in quel momento che non era rimasto nessuno a prendersi cura di lei. Doveva badare a se stessa.

La città era deserta, e intuì che forse qualcuno era ancora in vita, ma si nascondeva. Se l'infezione era partita da qui, allora doveva andarsene. Probabilmente la soluzione migliore sarebbe stata un'isola al largo della costa, ma non aveva una barca.

Alice, Aran
,
disse una vocina. I loro nomi erano un mantra che lei si ripeteva nella mente senza sosta. Non vedeva più i loro volti, né le erano rimasti ricordi delle loro vite negli ultimi quindici anni. Non ripensava ai loro primi passi né ai loro sorrisi sdentati. Solo ai loro nomi. L'ordine delle perdite era innaturale. Avrebbe dovuto andarsene prima lei. Una brava madre trova sempre il modo di morire prima dei suoi bambini, giusto? Sulla bicicletta di Aran il nastro delle manopole sul manubrio si stava staccando, e i freni cigolavano. Provò vergogna che suo figlio non si fosse preso cura della sua bici. Significava che nessuno gli aveva insegnato ad avere rispetto delle cose.

All'ospedale, non si sentiva più tossire. Le sale erano deserte. Qui e là si vedeva un cadavere accasciato con il collo ancora gonfio, o un mucchietto di ossa. Giacevano sui pavimenti e sulle barelle. Per evitare l'ingresso principale era passata dal parcheggio. Non voleva vedere i resti dei suoi figli. Non ricordava bene ciò che aveva fatto. Solo che aveva dovuto farlo, perché i loro spiriti trovassero requie.

Quand'era bambina, sua madre le aveva imposto di lavorare part-time e di cucinare la cena due volte la settimana. Ma a Corpus Christi, le aveva spiegato Aran senior, se vuoi che i tuoi figli
diventino qualcuno
,
li accompagni agli allenamenti di calcio e alle lezioni di pianoforte, e fai in modo che abbiano sempre i vestiti perfettamente stirati e mai logori. Li mandi in Europa per le vacanze estive e lasci che esprimano le loro emozioni. Non stabilisci regole, ma apri
negoziati.
Le era sembrato perfettamente sensato finché una mattina si era svegliata e all'improvviso si era resa conto di avere lasciato le roulotte di Bedford solo per diventare la donna delle pulizie di un uomo ricco.

Il generatore non ronzava più, ed escludendo i punti in prossimità delle finestre, i corridoi dell'ospedale erano bui. Vagò di reparto in reparto in cerca del dispensario, ma non ne trovò traccia. D'un tratto sentì il fischio di un uccello - ma gli uccelli non erano tutti morti? Non riuscì a trattenersi, le venne da sorridere. Che strana coincidenza, che proprio lì un uccello fosse riuscito a salvarsi. Il fischio si fece più forte, e il sorriso le svanì. Non era un uccello. Il suono echeggiava, e lei si chiese se gli spiriti dei suoi figli fossero tornati. Non l'avrebbero mai perdonata, ma era comprensibile. Nemmeno lei sarebbe mai riuscita a perdonarsi.

Scrutò attraverso l'oscurità, e vide una sagoma che si avvicinava. Le melodia le era familiare, una vecchia canzone dei Beach Boys che ricordava di aver sentito canticchiare una volta al dottor Wintrob. Era lui, la sagoma in fondo al corridoio? L'ombra era alta, e camminava eretta, ma questo non significava che non fosse un infetto. Lei si infilò nel primo ingresso che riuscì a trovare. Vide la riproduzione degli orologi liquefatti di Dalì, e le sfuggì il respiro, come una vela che si affloscia: oh no. Era entrata nel suo studio.

Non aveva il tempo di tornare sui suoi passi. Si girò per dirigersi nell'armadio, ma non c'era tempo! Lui era già alla porta. Si accucciò contro il divano di pelle. Lui entrò. Lei rimase acquattata accanto al bracciolo. Non riusciva a vederlo in faccia, ma era giorno e lui non tossiva, quindi probabilmente non era malato. Però aveva i vestiti tutti imbrattati di sangue. D'altra parte, anche lei. Il cuore le batteva all'impazzata, e lei ricordò a se stessa che, diversamente da molti altri, almeno il suo batteva ancora.

Aran! Alice!
strillava la sua mente, perché avrebbe sempre gridato i loro nomi, per il resto della sua vita.

Mentre lui allungava la mano verso un cassetto della scrivania, lei sbatté un ginocchio contro il tavolino basso. Lui si girò in un lampo, e tirò fuori qualcosa dal passante della cintura. Un martello. Lei trattenne il respiro. Lui guardò sotto il tavolino di cristallo, e lei quasi gridò: «Non colpirmi!». Ma non la vide. Si girò di nuovo, aprì un cassetto della scrivania, prese un mazzo di chiavi e uscì dallo studio. Fischiettava la stessa canzone, e lei ne ricordò il titolo:
Feel Flows.
Risuonava sinistra in quel silenzio, come un requiem per tutto l'ospedale.

Lo seguì. Lui era diretto all'accettazione. Sapeva che avrebbe dovuto andarsene nella direzione opposta. In lui c'era qualcosa di strano. I suoi gesti erano troppo meticolosi, come se non si rendesse affatto conto che il mondo intero fosse in rovina. Ma d'altronde, era un medico facoltoso. Forse lui ce l'aveva una barca. I corridoi erano così bui che lei strisciava i piedi invece che sollevarli, per evitare di inciampare contro qualcosa di molle (
Aran! Alice!
) sul pavimento.

Strano, la gente morta per l'infezione non era stata mangiata. I soli corpi rimasti erano quelli con il collo gonfio e la pelle arrossata dallo sfogo. Lui si fermò accanto alla finestra. Pioveva, e persino la luce sembrava bagnata. Per terra c'era Val, la sua segretaria. Lila riconobbe la sua coda di cavallo stretta dall'elastico. Non era morta, solo infetta. Il torace si sollevava ancora, e aveva le labbra rosse. Chissà perché era andata proprio lì a dormire. Forse era il posto dove si sentiva più al sicuro. Oppure, come per Lila, una piccola parte di lei stava cercando il dottor Wintrob, sperava che lui le dicesse cosa fare, e la perdonasse per ciò che aveva già fatto.

Aran! Alice!
Desiderò di potersi frugare dentro per spegnere un interruttore, perché adesso cominciava a ricordare i loro volti.

Il dottor Wintrob smise di fischiettare. Con la punta della scarpa da tennis spinse il corpo di Val. Poi le premette il martello sulla fronte. Ci batté sopra una volta, piano. Il suono del metallo contro la carne sembrò quello di uno schiaffo. «Stavo solo scherzando, Val. Lo sai che non ti farei mai del male» disse. «Mi sembra di capire che il Canada non sia stato poi tanto una buona idea.» Poi riprese a camminare come niente fosse.

All'accettazione, usò la chiave che aveva preso dalla scrivania per aprire una vetrinetta. Prese alcuni flaconi di qualcosa, poi richiuse la serratura. La inquietò che si fosse comportato in quel modo, invece che spaccare il vetro per prendersi quello che gli serviva. Voleva dire che, diversamente da tutti gli altri, lui rispettava ancora le regole.

Il dottor Wintrob si girò e la vide. Lei si arrestò. La sala era buia, e c'erano solo loro. Lei deglutì e pensò di scappare, ma forse lui aveva una barca. Meglio ancora, forse le avrebbe tenuto la mano e le avrebbe detto che era stato tutto un brutto sogno. Non aveva affatto ammazzato i suoi figli con un bisturi; era ancora seduta nel reparto malattie mentali, a sorseggiare acqua da un bicchierino di plastica.
Alice! Aran!
Quando ieri li aveva lasciati, si era dimenticata di chiudere loro le palpebre.

«Deve scusarmi» disse al dottor Wintrob, perché non le venne in mente altro da dire.

«Come sta, signora Schiffer?» domandò lui. Lei indossava una tuta pesante, ma tutto d'un tratto le venne freddo. Gli rispose con un cenno della testa, perché aveva troppa paura per parlare.

«Ne sono davvero felice.» Si levò il martello di tasca. Dall'estremità appuntita pendeva un brandello di scalpo. «È buio qui. A lei piace il sole, giusto?» domandò.

Lei annuì. Lui si avvicinò, tenendo in mano il martello. «Sono venuta a prendere la penicillina» disse lei tutto d'un fiato. Poi sollevò la manica e tese in fuori il braccio, come a darne prova.

Lui fece per toccarle il polso con la mano libera, ma aveva le unghie incrostate di sangue. Istintivamente, lei ritirò il braccio. Lui accusò l'insulto inclinando la testa ma, almeno per il momento, non la colpì. «La trovo proprio in forma, signora Schiffer.»

«Sì» rispose lei.

Rimasero là in piedi, circondati da almeno venti cadaveri accasciati sul pavimento. Frammenti di ossa erano disseminati come polvere in tutto l'ospedale. Costellavano anche il prato di casa sua. E Micmac Street. I nuovi giocattoli degli infetti bambini.

Aran! Alice!
L'avevano odiata perché non aveva mai imposto delle regole. Ma era comprensibile. D'altronde anche lei si odiava.

«Le serve niente?» domandò il dottor Wintrob.

Normalmente gli avrebbe sorriso, e gli avrebbe raccontato di aver visto cose terribili:
Santo cielo, dottor Wintrob, lei è davvero un uomo coraggioso!
gli avrebbe detto, con un sorrisino invitante. Invece indicò l'inserviente abbandonato su una sedia, e poi Val e il resto degli infetti. «Immagino che qui fossero tutti amici suoi» disse.

Lui smise di sorridere. Si passò una mano sul volto, e quando svelò di nuovo la sua faccia a lei parve più familiare. Tornò alla vetrinetta, la aprì, prese un altro paio di flaconi e li consegnò a Lila. Lei li cacciò nella borsa senza guardarli. «Trovi un posto sicuro e si chiuda dentro» le disse. «Aspetti che sia passata.»

«Passerà?» domandò lei.

Lui si strinse nelle spalle, e con un cenno della testa le indicò la borsa. «In un modo o nell'altro.» Poi mise in bocca una pastiglia. Quando prese a masticarla gli sfuggì un mugolio, come se fosse più buona di una barretta al cioccolato, e lei si rese conto che lui era diventato un tossico.

Allungò poi un braccio come per farle un buffetto sulla spalla, ma lo ritrasse, e rimise il martello al suo posto alla cintola. «Mi dispiace tanto per i suoi figli...»

Le ci volle un momento. Non ricordava più.
Aran! Alice!
E poi capì perché il polso aveva fatto infezione. Staccare la testa di Alice con il bisturi le aveva riaperto la ferita.

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