Authors: Sarah Langan
I corridoi non puzzavano di ammoniaca. Puzzavano di malattia. Da ogni direzione Danny sentiva gente che tossiva: pazienti, medici, infermieri, soldati. Si spaccavano tutti i polmoni. Il personale era ridotto all'osso. I pavimenti erano sporchi di fango e, qui e là, di sangue.
Sarebbe tornato a casa se l'ufficio di suo padre non fosse stato ormai a un passo. «Fatto» fu l'unica cosa che disse, fermo sulla soglia. Miller gli batté sulla spalla, con forza, il gesto più prossimo a un abbraccio di suo padre. «Grazie, figliolo. Sapevo di poter contare su di te» disse. Danny non poté farne a meno: si sentì orgoglioso.
«Siamo al sicuro qui, papà? La mamma e io?» domandò. Cercò di tener ferma la voce. Non fu affatto facile.
Miller si strinse nelle spalle. «Al sicuro da cosa?»
«Dal virus. Metà dei miei compagni sono a casa malati, o sono spariti. Forse hanno lasciato la città?»
Miller agitò la mano come a scacciare un fastidio. «Ero al telefono proprio adesso con gli azionisti. Ho detto anche a loro la stessa cosa: niente panico. È questa la cosa importante. Chi si lascia prendere dal panico, finisce sul lastrico. Giusto, Danny?»
«Giusto, papà.»
Miller telefonò al capo della polizia mentre Danny si attardava accanto alla porta ad ascoltare. «Odio dovertelo dire, Tim» disse in fretta nel ricevitore, «ma potrebbe trattarsi di un rapimento. Lou McGuffin vive proprio accanto a noi. Sai che non è sposato. Questa mattina è venuto da noi, farneticava su James. È sempre stato un po' tocco, ma questa volta credo proprio che sia andato oltre...»
Danny non voleva più ascoltare. Si allontanò, con la pancia piena di pietre. Quando arrivò a casa, tre auto della polizia lo avevano battuto sul tempo e stavano già parcheggiate davanti alla casa di McGuffin. Non molto dopo, Tim Carroll scortava Lou McGuffin lungo in vialetto, in manette. Danny guardava dalla finestra. Lou lo fissò per un secondo, e Danny pensò di gridargli qualcosa, di salutarlo con la mano, ma non lo fece. Lou, magro nelle sue braghe beige da due soldi grandi come vele. Danny faceva fatica a guardarlo, tanto che chiuse le tende.
Circa un'ora dopo telefonò il suo amico John. Lui non rispose, si limitò ad ascoltare il messaggio in segreteria. «Ehilà, socio» sbraitò John, da deficiente quale era. «Sentita la novità? Il tuo vicino di casa. Gli sbirri gli hanno trovato immagini porno di ragazzini sul computer. E in più, tutti quelli che conosciamo sono malati o introvabili. Pazzesco, eh? Richiamami, amico, appena puoi.»
Danny non richiamò. Non voleva crederci, ma sapeva che era vero. Suo padre aveva incastrato Lou McGuffin e pagato sottobanco uno sbirro per lasciare i porno dove li avrebbero trovati, e tutto questo solo perché non si sapesse che suo figlio era fuori di testa.
A Danny si rivoltava lo stomaco. Brutta faccenda. Ma cosa poteva farci? La gente lo trattava bene perché suo padre era ricco. Poteva guidare senza patente e bere birra nel bosco. Non aveva mai dovuto scappare dagli sbirri, perché nessuno lo avrebbe arrestato fintanto che suo padre pagava il conto. Grazie ai soldi di Miller, né a lui né a James sarebbe mai toccato di sobbarcarsi l'onere di sua madre.
Già, quella balla del porno di minorenni era proprio la soluzione migliore. Lou se lo meritava, dopo avere accusato James di una cosa così assurda. Certo, James era uno schizzato, ma ti pare possibile che un ragazzino riesca a mangiarsi una mezza dozzina di conigli interi? Chissà, magari era vero che Lou McGuffin si eccitava con i bambini. Se Danny avesse spifferato tutta la faccenda agli sbirri, suo padre gli avrebbe fatto un culo così. Per una volta, sarebbe stato Miller a subire un attacco di sorpresa. Sfoderando il migliore dei sorrisi, gli avrebbe detto:
Sono orgoglioso di te, figliolo, hai detto la verità proprio come ti abbiamo insegnato io e la mamma
,
e poi in men che non si dica avrebbe fatto sbattere in cella pure lui. Meglio non fare niente. Meglio limitarsi a rimorchiare ragazze, giocare un po' più spesso a golf il prossimo autunno, sempre che non si beccasse il virus e tirasse le cuoia la settimana successiva. Meglio ancora, farsi una birra. O anche dieci.
Così Danny andò in cucina, prese una bottiglia di Shipyard, e si sentì benissimo finché non l'ebbe stappata e annusata, sentendo l'odore di quello che gli parve un intero futuro di birre e menzogne. Vomitò acido nel lavabo.
Era mezzanotte passata, e in camera sua sembrava fosse esplosa una bomba puzzolente. Dal piano di sotto veniva un odore di sigarette. Dopo cinque anni di perfetta astinenza, sua madre aveva fatto ritorno a Marlbory Country. Suo parte urlava al telefono, perché un sacco di gente era morta, ma la commissione della sanità pubblica voleva bruciare i corpi mentre gli avvocati volevano conservarli nelle celle frigorifere: così nessuno faceva niente. Negli ultimi due giorni otto persone avevano lasciato un messaggio sul cellulare di Danny. La sua ragazza, Janice. I compagni della squadra di lacrosse. Parlavano di lasciare la città, e di quelli che si erano ammalati. Discutevano delle cose che si vedevano di notte, delle voci sugli animali mezzo mangiati, come se James non fosse più l'unico ragazzino in città con la passione per la vivisezione.
Ora, forse suo fratello era morto, Lou McGuffin era in galera, e lui si faceva una sega mentre quattro zoccole discutevano dei pro e contro di andare a letto con qualcuno al primo appuntamento (decisamente sì, a quanto pareva, se era a lui a pagare la cena), e lui scoppiò a piangere, perché anche se aveva fatto la doccia, aveva ancora sotto le unghie lo sporco della fossa che aveva scavato, e il sale delle patatine gli bruciava le vesciche. Piangeva perché la stanza era al buio, e perché il fumo delle Marlboro di sua madre filtrava da sotto la porta, e perché invece che sentirsi triste si sentiva cattivo. Voleva tirare pugni al muro. Voleva andare da sua mamma e urlare che niente di tutto ciò sarebbe successo se lei non fosse stata sempre impasticcata. Voleva fare del male a qualcuno più debole di lui, seguire l'esempio del buon vecchio papà.
Così si asciugò le lacrime e prese una decisione. Non sarebbe diventato come suo padre. Sarebbe andato alla polizia. Avrebbe raccontato dei conigli. Forse Miller lo avrebbe pestato a sangue, o forse lo avrebbe spedito all'accademia militare come minacciava sempre di fare. Comunque potesse andare, almeno sarebbe finita.
Infilò il cappotto e le scarpe, e afferrò le chiavi di sua mamma. Scese le scale in punta di piedi. Non si sarebbero accorti che se n'era andato finché non avessero sentito il rumore della macchina. E a quel punto sarebbe già stato lontano. In cucina la radio suonava merdosa musica classica a basso volume: Wagner. C'era un cattivo odore al piano di sotto, quasi peggio della bomba puzzolente in camera sua. Lui sentiva l'eco dei propri passi, il che gli parve strano. Miller non urlava più al telefono. Sua mamma non sfogliava le pagine di uno dei suoi libri di autoterapia.
Meglio andarsene subito, ma quel silenzio lo inquietava. Lentamente spinse la porta della sala da pranzo e dalla fessura spiò all'interno. Un filo di fumo saliva da un posacenere. Aprì ancora di un poco la fessura. Un braccio coperto dalla manica blu di un maglione penzolava da una sedia. Dondolava piano in cerchi lenti.
Mamma
,
pensò lui, anche se non la chiamava così da prima del manicomio.
Aprì del tutto la porta. Lei era accasciata sulla sedia Luigi XIV con la gola squarciata e una pozza di sangue che si allargava sul parquet. Il sangue colava, una goccia dopo l'altra.
Il cuore gli sfuggì dal torace e gli si piantò nell'esofago. Continuò a battere, anche nel posto sbagliato. La gola di sua madre non c'era più, e mentre la guardava, la testa le ricadde all'indietro. Lui ricordò di quando andavano insieme a portare il pane alle anatre, e il modo che aveva di tagliargli la mela dal mezzo, lasciando una sezione a stella nello spicchio.
Poi accadde la cosa peggiore. Peggiore di quanto avesse mai potuto immaginare. Il collo era semimasticato, e la testa pendeva all'indietro. Cominciò a ciondolare. Era rimasta solo una parte di osso a tenerla al suo posto. Il resto non era che cartilagini. L'osso si spezzò. Un rumore come se qualcuno si fosse schioccato le nocche. La testa produsse un suono fradicio spiaccicandosi sul tappeto. Poi rotolò verso di lui. Per un attimo pensò che fosse viva. Voleva dirgli qualcosa. Si fermò a qualche centimetro dai suoi piedi. Aveva la bocca spalancata, e lui pensò che avrebbe parlato.
«Hhh» ansimò lui, senza riuscire a smettere. «Hhhh... Hhhh... Hhhh.» Si coprì la bocca con una mano, sperando che suo padre non avesse sentito. Era stato suo padre. Suo padre era un mostro. E poi si ricordò di suo fratello. Era stato James? O suo padre?
Si diresse verso la porta di servizio. Cauto, molto cauto, per non inciampare in quella cosa sul pavimento. Aveva il cuore in gola, batteva all'impazzata.
«Fratello» disse un voce. Il suono era freddo, e biascicato, e irriconoscibile.
James bloccava la porta. Aveva gli occhi completamente neri. Era assurdo, ma sembrava che le dita dei piedi gli fossero ricresciute. Quelle nuove erano pallide e perfette. Nemmeno un po' storte, com'erano un tempo. Non aveva più i capelli, né ciglia, né sopracciglia. La pelle era esangue e cascante: sembrava ancora James, ma invecchiato di cent'anni.
Danny si mise a correre. Senza volerlo tirò un calcio alla cosa per terra, che rotolò via sguazzando sul pavimento. Lui fissò a occhi sbarrati da una rivoluzione all'altra, e si chiese se avesse sentito dolore. Sentiva il cuore in bocca. Lo strinse tra i denti mentre scappava.
James si tuffò e lo placcò alle gambe. Lo strinse finché non caddero insieme. Danny si girò su un fianco, e si ritrovò James sdraiato sopra. La sua pelle puzzava di marcio, come se si stesse staccando dalle ossa, e a Danny si bloccò il respiro.
Sopra di lui, vedeva il corpo decapitato di sua madre, con il braccio che ciondolava ancora, avaaaaanti e indieeeetro, molto lentamente. «Papà!» cercò di gridare Danny, ma venne fuori solo un sussurro.
«Papà!» gli fece il verso James. «Papà! Papà!» gridava. Non rispose nessuno, e Danny capì che suo padre era morto. Irrazionalmente, gli venne da pensare: il re è morto. Viva il re.
L'espressione di James era contorta, una smorfia orrenda e gonfia d'odio. L'odio paralizzante di un demente, così rovente che le sue fiamme si consumavano da sole prima di arrivare a lambire l'oggetto della sua avversione. Il tipo di odio che aveva spinto un bambino a uccidere il proprio animaletto domestico. James scoprì i denti, e gli si avventò alla gola.
Danny scalciò con tutta la forza che aveva in corpo. James volò in aria. Andò a sbattere contro la sedia, che rotolò con lui sul pavimento. Danny trasalì alla vista delle calze blu di lana di Felice. Una era bucata, e dal foro le spuntava l'alluce.
Aprì una vetrinetta e afferrò un coltello da bistecca. Non voleva farlo, ma lo puntò contro suo fratello. James si divincolò dal cadavere di Felice. Rimasero a studiarsi. James si leccava le labbra rosse. Danny si sforzò di non formulare il nesso, ma la sua mente fu più veloce di lui. Sangue. Suo fratello aveva addosso il sangue dei suoi genitori.
Fece la cosa peggiore che gli venne in mente (
Perdonatemi, mamma, papà, Dio, e James
). Abbassò il coltello disegnando un arco nell'aria. Prese James in pieno petto. Cercò di tirarlo fuori e pugnalarlo di nuovo, ma provava troppo ribrezzo. Lo lasciò dov'era. James barcollò indietro, ma non cadde. Con un ululato, si strappò via il coltello, che cadde sferragliando sul pavimento.
James digrignava i denti, ma Danny vedeva che adesso aveva paura. La sua reazione l'aveva colto alla sprovvista. «Te la farò vedere» disse. «Ci rivediamo nel bosco, Danny, e allora vedrai!» Si era messo a piangere come se fossero tornati bambini, e Danny gli avesse fatto un dispetto di troppo.
James perdeva le forze. Cadde in ginocchio e a quattro zampe uscì dalla porta sul retro. Si lasciava alle spalle una scia di sangue, come un'ombra. Danny lo seguì, e lo vide aggrapparsi all'erba come in cerca di un sostegno. Sempre carponi attraversò il prato.
Danny si appoggiò al telaio della porta. Voleva grattarsi il naso, ma aveva le dita sporche di sangue. Voleva chiudersi in casa, ma la sua casa era sporca di sangue. Restò a guardare suo fratello inghiottito dal buio, e avrebbe voluto soccorrerlo, salvare l'unico superstite della sua famiglia, ma capì che per quella malattia non c'era che una cura.
23.
Ruota della fortuna
Adesso vivo qui. Sotto un cartello che dice VUOTO.
Qui è dove le nostre strade si separano. Qui è dove tutto finisce.
Quella stretta allo stomaco, non è immaginazione.
Quella stretta allo stomaco, è come mi uccidi.
La cosa che un tempo si chiamava Lois Larkin stringeva il brandello di un biglietto rosa. Sul cartoncino ruvido aveva scarabocchiato una poesia. I versi erano tristi, e li aveva imparati a memoria. Se li era ripetuti all'infinito, anche se non ne ricordava il significato. Tutto ciò che sapeva era che aveva fame.
Era sabato, a tarda notte. Lei era a letto, sprofondata nella propria lordura e nel proprio tanfo. Il prurito era tornato. Le strisciava tra le pieghe della pelle raggrinzita, sotto i seni penduti, e anche dentro. I suoi organi, i suoi muscoli agonizzanti, le sue ossa ispessite; li sentiva come croste che non sarebbero mai guarite. Stava cambiando. I capelli bruni le cadevano a ciocche. Non era più soltanto il sole a farle strizzare gli occhi; bastava la striscia di luce che dalla lampadina in corridoio filtrava sotto la sua porta, o i fari delle macchine che passavano lungo la strada. Stava diventando
non Lois.
Così strinse più forte il cartoncino, e recitò la poesia come un incantesimo, cercando di resuscitare la donna che era stata un tempo.