Gai-Jin (7 page)

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Authors: James Clavell

Tags: #Fiction, #Action & Adventure

BOOK: Gai-Jin
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In tono esitante continuò: “E... sembra che fossero tutti terrorizzati all'idea che la rivolta dei Taiping si diffondesse da Nanchino e travolgesse Pechino e che quella diventasse la fine di ...”.

Si fermò per ascoltare con attenzione. Aveva un sapore terribile in bocca e la testa gli scoppiava.

“Che cosa succede?”

“Credo... credo di aver sentito qualcuno gridare.” Babcott si mise in ascolto ma non sentì niente.

“Continuate coi manciù.”

“Be', la, ehm... la ribellione dei Taiping. Si dice che più di dieci milioni di contadini siano stati assassinati o uccisi dalle carestie in questi ultimi anni.

Ma a Pechino tutto è tranquillo: ovviamente l'incendio e il saccheggio del Palazzo d'Estate da parte dei soldati inglesi e francesi due anni fa, la rappresaglia ordinata da Lord Elgin, ha insegnato ai manciù una lezione che non dimenticheranno in fretta. Non uccideranno più un inglese senza riflettere. Non è quello che sir William ordinerà anche qui? Un'azione di rappresaglia?”

“Se sapessimo contro chi condurla avremmo già cominciato. Ma contro chi? Non possiamo cannoneggiare Edo a causa di qualche assassino senza nome ...”

Delle voci concitate lo interruppero, era il sergente English alle prese con gutturali suoni di giapponesi. Poi la porta fu spalancata da un samurai.

Dietro di lui altri due stavano minacciando il sergente con le spade già quasi sguainate mentre due granatieri li tenevano sottotiro dal corridoio. Il quarto samurai, il più anziano del gruppo, entrò nella sala operatoria. Tyrer indietreggiò contro il muro paralizzato, rivivendo i terribili istanti della morte di Canterbury.

“Kinjiru!” ruggì Babcott.

Nessuno si mosse.

Per un attimo il samurai più anziano, furente, sembrò sul punto di sguainare la spada e attaccare.

Poi Babcott girò su se stesso e li affrontò con un bisturi stretto nell'enorme pugno, le mani e il grembiule insanguinati, gigantesco e minaccioso.

“Kinjiru!” gridò per la seconda volta. Poi indicò la porta con il bisturi. “Fuori di qui! Dete. Dete... dozo ...”

Fissò gli uomini per qualche istante con occhi fiammeggianti.

Quindi voltò le spalle agli intrusi e tornò a dedicarsi alla ferita di Struan, a ricucirla e a tamponarla.

“Sergente, accompagnateli nella sala d'attesa... con garbo!”

“Sissignore.”

A gesti il sergente indicò la strada ai samurai che discutevano con rabbia tra loro.

“Dozo” borbottò. “Avanti, schifosi nani bastardi.” Fece altri cenni.

Il samurai più anziano partì con un gesto altezzoso. Immediatamente gli altri tre si inchinarono e lo seguirono.

Con un gesto goffo Babcott si asciugò una goccia di sudore dal mento con il dorso della mano e poi riprese a lavorare.

La testa, il collo e la schiena gli dolevano.

“Kinjiru significa vietato” spiegò costringendosi a parlare in tono tranquillo.

In realtà il suo cuore batteva all'impazzata come sempre gli accadeva quando si trovava disarmato in presenza di un samurai con la spada più o meno sguainata.

Troppe volte era stato chiamato capezzale di vittime di quelle spade.

I feriti erano più spesso giapponesi, perchè a Yokohama, a Kanagawa e nei villaggi dei dintorni scontri e faide tra samurai erano abituali.

“Dozo significa per favore, dete, andatevene. Con i giapponesi usare sempre per favore e grazie è fondamentale. Grazie si dice domo.

Bisogna dire per favore anche quando si urla.”

Guardò il tremante Tyrer ancora appoggiato alla parete.

“In quell'armadio c'è del whisky.”

“Io sto... sto bene ...”

“Non state affatto bene, siete ancora in preda allo shock. Servitevi una buona dose di whisky. Sorseggiatelo. Tra poco avrò finito e vi darà qualcosa per fermare la nausea. Non vi dovete preoccupare! Capito? ...” Tyrer annuì.

Cominciò a piangere a dirotto senza riuscire a fermarsi.

Persino camminare gli risultava difficile.

“Che cosa... che cosa... mi sta succedendo?” balbettò.

“E' soltanto lo shock, non ve ne preoccupate. Passerà. Succede in guerra, e qui siamo in guerra. Ho quasi finito. Poi ci occuperemo di quei bastardi.”

“E come... come farete?”

“Non lo so.”

Una certa durezza trasparì nella voce del dottore mentre ripuliva per l'ennesima volta la ferita con un quadrato di cotone preso da una pila che si stava assottigliando in fretta.

E c'erano ancora molti punti di sutura da dare.

“Farò come al solito, suppongo, agiterò le mani e dirò loro che il nostro ministro gli farà vedere i sorci verdi e cercherò di scoprire chi vi ha attaccato.

Di certo negheranno qualsiasi conoscenza del fatto, il che probabilmente è vero, sembra che non sappiano mai niente di niente.

Sono diversi da tutti gli altri popoli che ho conosciuto.

Non so se si tratti di pura e semplice stupidità o di un'intelligenza e una segretezza che raggiungono i vertici del genio.

A quanto pare noi non siamo in grado di penetrare nel loro tessuto sociale né lo sono i nostri cinesi, non abbiamo alleati nelle loro fila, non sembriamo capaci di corrompere uno di loro per aiutarci, non riusciamo nemmeno a comunicare con loro direttamente.

Il senso di impotenza di noi tutti è enorme.”

“Vi sentite meglio?” Tyrer si era versato del whisky.

Prima aveva asciugato le lacrime pieno di vergogna, si era sciacquato la bocca e versato dell'acqua sulla testa.

“Non esattamente... comunque grazie. Me la cavo. E Struan?”

Dopo una pausa Babcott disse:

“Non so. Non lo si sa mai veramente”.

Il suo cuore sobbalzò al suono di altri passi che si avvicinavano. Tyrer sbiancò.

Un colpo e la porta si spalancò.

“Cristo Santo” esclamò Jamie McFay fissando la sua attenzione sul tavolo operatorio coperto di sangue e soprattutto sull'enorme ferita nel fianco di Struan.

“Se la caverà?”

“Ciao, Jamie” disse Babcott. “Hai sentito dei ...”

“Si, siamo appena arrivati dalla Tokaidò seguendo le tracce del signor Struan. C'è fuori Dmitri. Voi state bene, signor Tyrer? Quei bastardi hanno fatto il povero vecchio Canterbury in dodici pezzi da lasciare in pasto agli avvoltoi!”

Tyrer fu davanti al bacile con un balzo.

McFay guardò la scena dalla soglia con un grande senso di disagio.

“Per l'amor di Dio, George, se la caverà?”

“Non lo so!” sbottò Babcott irritato, mentre l'eterna sensazione di impotenza e ignoranza si trasformava in rabbia davanti all'incapacità di capire perchè alcuni pazienti vivessero e altri, con ferite meno gravi, non ce la facessero; perchè alcune ferite incancrenissero e altre guarissero.

“Ha perduto litri di sangue, gli ho ricucito un intestino reciso, tre lacerazioni, ci sono ancora tre vene e due muscoli da sistemare e la ferita da richiudere e Dio solo sa quanto sudiciume è entrato a infettarla, se è da questo che ha origine la cancrena. Non lo so! Non so niente di niente!

Adesso esci di qui e vai ad affrontare quei quattro bastardi della Bakufu e cerca di scoprire, per Dio, chi ha combinato questo macello.”

“Si, certamente, mi dispiace, George” rispose MacFay fuori di sé per la preoccupazione e stupito di trovare l'imperturbabile Babcott tanto arrabbiato.

Aggiunse in fretta: “Ci proveremo, c'è anche Dmitri, ma sappiamo già chi è stato, siamo stati informati da un negoziante cinese del villaggio. E' molto strano, tutti i samurai venivano da Satsuma e...”.

“E dove diavolo è?”

“Secondo il cinese è un feudo poco lontano da Nagasaki, nell'isola meridionale, a sei o settecento miglia da qui e...”

“Che cosa diavolo stavano facendo da queste parti, per Dio?”

“Il cinese non lo sapeva, ma ci ha assicurato che si sarebbero fermati a dormire a Hodogaya. E' un posto di cambio sulla Tokaidò, Phillip, a meno di dieci miglia da qui, e sembra che con loro ci fosse il re in persona.”

Capitolo 3


 

Sanjiro, signore di Satsuma, dagli occhi simili a due crudeli fenditure, era un uomo barbuto e ben piantato di quarantadue anni.

Lama impareggiabile, si liberò del mantello azzurro di seta pregiata e interrogò con gli occhi il suo consigliere più fidato.

“L'attacco è stato una buona o una cattiva idea?”

“Una buona idea, sire” rispose a bassa voce Katsumata.

Sapeva che le spie potevano nascondersi ovunque. I due uomini inginocchiati uno di fronte all'altro erano soli nella stanza più confortevole di una locanda di Hodogaya, villaggio e posto di cambio lungo la Tokaidò a sole due miglia dall'Insediamento.

“Perché?” Per sei secoli gli avi di Sanjiro avevano governato su Satsuma proteggendone gelosamente l'indipendenza, e Satsuma era uno dei due feudi più ricchi e potenti del Giappone.

L'altro era a feudo dei Toranaga, loro acerrimi nemici.

“Perché creerà problemi tra lo shògunato e i gai-jin” rispose Katsumata.

Katsumata era un uomo snello e duro come l'acciaio, apprezzato maestro di spada e il più celebre di tutti i sensei gli insegnanti di arti marziali, della provincia di Satsuma.

“Più quei cani si mettono in conflitto tra loro e prima si dichiareranno guerra, e quanto prima avverrà lo scontro tanto meglio sarà per noi perchè contribuirà a far cadere i Toranaga e le loro marionette consentendovi di fondare un nuovo shògunato, di installare un nuovo shògun e nuovi ufficiali, nonché di dare a Satsuma il ruolo che gli spetta e a voi il diritto di diventare uno dei nuovi roju.”

Roju era un altro nome con cui veniva chiamato il Consiglio dei Cinque Anziani che regnava in nome dello shògun.

Uno dei roju? Perché soltanto un roju, pensò Sanjiro. Perché non primo ministro? Perché non shògun...

Ho il lignaggio necessario.

Due secoli e mezzo di dominio Toranaga sono stati più che sufficienti. Nobusada, il quattordicesimo shògun, sarà anche l'ultimo della sua stirpe, sulla testa di mio padre sarà l'ultimo!

Lo shògunato a cui si riferiva Sanjiro era stato fondato dal condottiero Toranaga nel 1603.

Dopo la vittoria ottenuta nella battaglia di Sekigahara, le legioni di Toranaga tagliarono quarantamila teste nemiche e, in seguito, il grande condottiero fu in grado di eliminare completamente l'opposizione riuscendo per la prima volta nella storia del Giappone nell'impresa di sottomettere l'intero paese, la Terra degli Dei, come lo chiamavano i suoi abitanti, e di unificarlo sotto un unico dominio.

Questo astuto generale e brillante amministratore che ormai esercitava un potere temporale assoluto, accettò di buon grado il titolo di shògun, il più alto grado che un mortale potesse ottenere da un imperatore privo di poteri effettivi, e divenne legalmente il dittatore del paese.

Ben presto rese la carica ereditaria e decretò che per il futuro tutte le questioni temporali sarebbero state di competenza esclusiva dello shògun e tutte le questioni spirituali di competenza dell'imperatore.

Durante gli ultimi otto secoli gli imperatori che si erano succeduti sul trono del Figlio del Cielo avevano vissuto segregati con la corte dietro le mura del palazzo imperiale di Kyòto.

Soltanto una volta all'anno l'imperatore varcava quelle mura per visitare il sacro tempio di Ise, ma anche in quell'occasione veniva celato agli sguardi del popolo e il suo volto non veniva mai mostrato in pubblico. Persino all'interno delle mura che lo isolavano, la sua persona era nascosta a tutti, eccetto i familiari più stretti, da ufficiali zelanti che occupavano quell'incarico per diritto ereditario, e da antichi protocolli mistici.

Il generale che esercitava il controllo reale delle Porte del palazzo e decideva chi vi entrava e usciva, aveva de facto anche il controllo dell'imperatore e della sua attenzione, e perciò della sua influenza e del suo potere.

E benché tutti i giapponesi credessero ciecamente nella natura divina dell'imperatore, e lo venerassero quale Figlio del Cielo discendente del sole in linea diretta dall'alba dei tempi, la tradizione voleva che né il Celeste né i membri della sua corte disponessero di armi.

Inoltre nel palazzo di Kyòto nessuno godeva di altra rendita al di fuori di quella garantita dal generale incaricato del controllo delle Porte, che aveva anche il diritto di stabilirne annualmente l'ammontare.

Per decenni gli shògun Toranaga regnarono incontrastati esercitando sull'intero paese un controllo saggio e spietato insieme.

I discendenti del primo shògun tuttavia si rivelarono più deboli, e lasciarono che ufficiali di rango inferiore usurpassero strati sempre più grandi di potere trasformando gradualmente in mandati ereditari anche i propri incarichi.

Lo shògun restò ufficialmente il capo, ma nel corso dell'ultimo secolo divenne poco più di un fantoccio, sempre scelto tra i discendenti di Toranaga che godevano inoltre del diritto di far parte del Consiglio degli Anziani. L'attuale shògun, Nobusada, era stato prescelto quattro anni prima all'età di dodici anni.

Ma non ne passerà ancora molti su questa terra, si ripromise Sanjiro prima di tornare a concentrarsi sul problema che lo angustiava in quel momento.

“Katsumata, anche se meritate, queste uccisioni potrebbero risultare troppo provocatorie per i gai-jin, e ciò sarebbe nocivo per Satsuma.”

“Non vi vedo niente di pericoloso, sire. L'imperatore vuole l'espulsione dei gai-jin, come la vogliono quasi tutti i daimyo. Il fatto che i due samurai siano satsuma non dispiacerà all'imperatore. Non dimenticate che la vostra missione a Edo è stata coronata da grande successo.” Attraverso alcuni intermediari alla corte imperiale di Kyòto, tre mesi prima Sanjiro era riuscito a persuadere l'imperatore Komei a firmare personalmente alcune “richieste” da lui stesso suggerite, e a concedere che un messaggero imperiale consegnasse formalmente a Edo il rotolo che ne assicurava l'accettazione.

Era difficile rifiutare una “richiesta” dell'imperatore.

Negli ultimi due mesi Sanjiro aveva condotto intensi negoziati e vincendo la titubanza degli anziani e degli ufficiali della Bakufu era riuscito a ottenere il loro consenso scritto ad alcune riforme che avrebbero sortito l'effetto di indebolire l'intero shògunato.

La cosa più importante era che avesse ormai il loro consenso formale a cancellare gli odiati trattati firmati contro la volontà dell'imperatore e poter così espellere i detestati gai-jin e richiudere il paese facendo tornare la situazione com'era prima del malaugurato arrivo di Perry.

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