La cameriera scappa via. “Signora, signora,” dice, gridando con tutte le sue forze, “c’è qui una donna mandata dalla signora… ad aiutarci.” La povera donna, a metà fuor di sé, con un fagotto sotto braccio e due bambini, mi viene incontro.
“Cielo, signora,” dico io, “lasciatemi condurre questi poveri bambini dalla signora…; ha detto di mandarglieli; baderà lei a queste povere creature,” e immediatamente io gliene prendo uno di mano, e lei mi mette l’altro in braccio.
“Oh, sì, per amor del Cielo,” dice, “portateglieli. Oh, ringraziatela tanto per la sua gentilezza.”
“Avete nient’altro da mettere al sicuro?” dico io, “ci penserà lei.”
“Oh, cara, sì,” dice quella, “il Cielo la benedica, ditele grazie. Prendete questo fagotto d’argenteria e portatele anche questo. Oh, è una brava donna. Cielo, siamo completamente rovinati, completamente rovinati.” E si allontana di corsa da me, come impazzita, e dietro di lei le cameriere; e io me ne vengo via con i due bambini e il fagotto.
Ero appena uscita in strada che vidi un’altra donna venirmi incontro. “Oh,” dice, “signora,” con un tono compassionevole, “vi può cadere il bambino. Venite, è un momento brutto, lasciate che vi aiuti.” E subito mette le mani sul fagotto per portarlo in vece mia.
“No,” dico io, “se vuoi aiutarmi prendi per mano il bambino e conducilo fino in fondo alla strada; io verrò con te e ti ricompenserò per la pena che ti prendi.”
Lei non poté rifiutarsi di farlo, dopo quel che le avevo detto; ma, per farla breve, quella tale era una del mio stesso mestiere, e non voleva altro che il fagotto; venne comunque con me fino a quella porta, perché non poté farne a meno. Quando fummo giunte lì, io le mormorai: “Vai, bimba, lo so che cosa vuoi. Vai, e qualcosa ci potrai guadagnare.”
Lei capì e se ne andò. Io bussai alla porta con i bambini, e siccome tutti in casa erano già in piedi per il chiasso dell’incendio, fui subito lasciata entrare, e dissi: “È sveglia la signora? Ditele, vi prego, che la signora… le chiede il favore di tenere qui questi due bambini; povera signora, è rovinata, la sua casa è una fiamma sola.” Quelli accolsero molto gentilmente i bambini, espressero la loro compassione per il guaio di quella famiglia, e io me ne andai con il mio fagotto. Una delle cameriere mi domandò se non dovevo lasciar lì anche il fagotto. Io dissi: “No, tesoro, questo va in un altro posto, non è roba loro.”
Ero uscita dal centro della confusione, ormai, e così proseguii, senza che nessuno mi facesse domande, e portai il fagotto d’argenteria, che era ragguardevole, direttamente a casa della mia governante. Costei mi disse che non voleva nemmeno aprirlo, mi spinse a uscire di nuovo per cercarne ancora.
Mi dette l’imbeccata per la signora della casa accanto a quella che andava a fuoco, e io mi sforzai di arrivarci, ma ormai l’allarme dell’incendio era così esteso, e tante trombe suonavano, e la strada era così affollata di gente, che non riuscii nonostante tutti i miei sforzi ad avvicinarmi alla casa; perciò tornai di nuovo dalla mia governante e, portato il fagotto in camera mia, incominciai ad esaminarlo. È con orrore che racconto quale tesoro vi trovai dentro; basterà dire che, oltre la maggior parte dell’argenteria di famiglia, che era molta, trovai una catena d’oro, oggetto di foggia antiquata che aveva una fibbia rotta, sicché pensai che non fosse stato usato da molti anni, ma non per questo l’oro era di minor valore; e anche una scatoletta di anelli col sigillo, l’anello matrimoniale della signora, frammenti di una vecchia fibbia d’oro, un orologio d’oro, una borsa con un valore di circa ventiquattro sterline in monete di vecchio conio, e diverse altre cose di valore.
Fu quello il colpo più grosso, e anche il più infame, che mai mi capitò di fare; benché infatti, come ho detto prima, mi fossi fatta tanto dura da non darmi il minimo pensiero per i casi altrui, tuttavia restai commossa fino in fondo all’anima quando guardai nel mio tesoro, al pensiero di quella povera signora che oltretutto aveva perduto tante cose nell’incendio, e che, di certo, credeva d’aver salvato l’argenteria e le sue cose più belle; come sarebbe rimasta sconvolta e addolorata quando si sarebbe accorta d’essere stata ingannata, quando avrebbe scoperto che la persona che aveva portato via i bambini e la roba non veniva per nulla, come aveva detto, da parte della signora della via vicina, ma che costei s’era vista affidare i bambini senza essere al corrente di nulla.
Devo confessare che la disumanità di quell’azione mi turbò molto, mi sentii mancare, e mi si riempirono per quel motivo gli occhi di lacrime; ma, pur con tutta la consapevolezza d’essere crudele e disumana, mai il cuore mi suggerì di restituire qualcosa. Quei pensieri svanirono, e io passai presto a dimenticare le circostanze che riguardavano quel colpo.
Né questo fu tutto; perché, sebbene con quell’impresa io fossi divenuta considerevolmente più ricca di prima, tuttavia la decisione che avevo preso in precedenza, ovvero di abbandonare quel tremendo mestiere quando avessi avuto qualcosa di più, quella volta non mi tornò in mente, ma mi sentii spinta ad andare ancora oltre, ad accumulare ancora; così la cupidigia si alleò al successo, al punto che io non pensai nemmeno più a cambiar vita in tempo, benché senza di ciò non potessi attendermi salvezza né possibilità di godere tranquillamente quel che avevo mal guadagnato; ma altro ancora, altro ancora, questo volevo.
Alla fine, cedendo alla suggestione dei miei misfatti, io misi da parte ogni rimorso e ogni pentimento, e di tanti pensieri me ne restò in capo soltanto uno, quello cioè di riuscire a fare un altro colpo per esaudire completamente i miei desideri; ma anche quando ci riuscivo, ogni colpo mi spingeva a farne un altro, incoraggiandomi così a continuare il mestiere, al punto che non mi sognavo neppure di pensare a smettere.
In tale situazione, io, indurita dal successo, decisa a continuare, caddi nella trappola che per quel genere d’esistenza mi meritavo. Ma nemmeno questo accadde subito, ebbi infatti diverse altre fortunate avventure sempre proseguendo su quella via di perdizione.
Restai ancora dalla mia governante, la quale per un certo tempo fu molto sconvolta per la disgrazia di quella mia compagna che era stata impiccata; costei, a quanto pare, ne sapeva della mia governante abbastanza per farle fare la stessa fine, e la mia governante era molto agitata, aveva una gran paura.
Vero è che, morta quella senza aprir bocca su quel che sapeva, la governante si sentì tranquilla da quel punto di vista, e forse non le dispiacque che la impiccassero, perché aveva la possibilità di farle ottenere la grazia a spese di certi suoi amici; ma, d’altra parte, il fatto d’averla perduta, e il fatto di capire quanto quella era stata generosa a non mettere in vendita quel che sapeva, commossero la mia governante, la indussero a prendere sinceramente il lutto per quella donna. Io la consolai come meglio seppi, e lei in compenso mi aiutò ad acquistare la durezza che doveva condurmi inesorabilmente a quel medesimo destino.
Diventai comunque, come ho detto, più prudente, e in particolare ero poco attratta dal taccheggio di negozio, specialmente nelle botteghe dei merciai e dei drappieri, una razza di gente che sa tenere gli occhi bene aperti. Feci un paio di colpi nel ramo merletti e modisteria, in particolare uno in un negozio dove m’ero accorta che c’erano due ragazze appena assunte, non ancora pratiche del mestiere. Di lì portai via, mi pare, un rotolo di merletto per busti e un cartata di filo. Ma fu una volta sola: era un trucco che non poteva funzionare un’altra volta.
Si giudicava sempre che fosse un colpo sicuro quando si veniva a sapere di un negozio nuovo, specialmente se c’era gente che di negozi non aveva esperienza. Il minimo che gli può capitare è di ricevere appena incominciano un paio di visitine, e possono dirsi davvero bravi se riescono a prevenirle.
Compii una o due altre imprese, ma furono cose da nulla, anche se davano da vivere. Poi, nulla di notevole mi si presentò per un certo tempo, e io incominciai a pensare sul serio che dovevo smettere il mestiere; ma la mia governante, che non voleva perdermi e si aspettava da me grandi cose, mi mise un giorno in compagnia di una giovane e di un tipo che passava per suo marito, anche se, come poi si vide, non erano affatto marito e moglie, erano invece compari nel mestiere che facevano, e compari in tutto il resto. A farla breve, rubavano insieme, si coricavano insieme, furono presi insieme, e alla fine insieme furono impiccati.
Io feci con quei due una specie di società, con l’aiuto della mia governante, e loro mi portarono in un paio di avventure dove io mi limitai a osservarli commettere dei furti così grossolani e goffi che potevano riuscire soltanto per la grandissima sfrontatezza loro e per l’enorme disattenzione delle persone che venivano derubate. Decisi perciò, da allora in poi, d’esser molto cauta nell’arrischiarmi in loro compagnia; e per la verità, quando mi vennero proposti da loro due o tre progetti infelici, io declinai l’offerta, e convinsi anche loro a non farlo. Una volta, in particolare, proposero di rubare a un orologiaio tre orologi d’oro che avevano visto di giorno, e avevano scoperto il posto dove lui li riponeva; così prendemmo un mezzo accordo; ma, quando considerai più addentro la cosa, capii che proponevano di entrare in quella casa con la violenza, e, siccome la cosa non era il mio genere, io non volli imbarcarmi, e quelli andarono senza di me. Entrarono in quella casa scardinando la porta, scassinarono il ripostiglio chiuso a chiave dov’erano gli orologi, ma trovarono uno solo degli orologi d’oro, più un altro d’argento, li presero, e sveltissimi uscirono fuori scappando. Ma la gente in casa, svegliata, gridò “Al ladro”, e l’uomo fu inseguito e preso; la donna era riuscita a scappare anche lei, ma sventuratamente la presero un po’ più lontano, e le trovarono gli orologi addosso. E così io me la cavai una seconda volta, perché quelli furono giudicati colpevoli e impiccati, come vecchi delinquenti, anche se d’età erano giovani. Come ho già detto, rubavano insieme, si coricavano insieme, e alla fine furono impiccati insieme. Così finì la mia nuova società.
Incominciai allora ad essere prudentissima, perché avevo evitato di stretta misura una purga pesante, e avevo davanti agli occhi quell’esempio; ma avevo adesso un tentatore nuovo, che ogni giorno mi sollecitava: intendo la mia governante; e si presentò da fare un colpo, dal quale, siccome nasceva con l’organizzazione sua, lei si aspettava una buona parte del bottino. Era depositata in una casa privata una gran quantità di merletti delle Fiandre, e lei l’aveva saputo; siccome i merletti delle Fiandre erano proibiti, quello era un gran bel bottino per qualunque funzionario della dogana arrivasse a metterci sopra le mani. Io ebbi dalla mia governante tutte le informazioni, sia sulla qualità sia sul luogo dove la roba era nascosta, e andai da un funzionario della dogana e gli dissi che avevo una certa rivelazione da fargli a proposito di una partita di merletti, se lui mi assicurava che avrei avuto la parte dovuta della ricompensa. Era una proposta così corretta, che niente poteva esserci di più pulito; lui disse di sì, chiamò un gendarme e andammo tutti e tre a frugare quella casa. Siccome io gli dissi che sapevo trovare direttamente il posto, lui lasciò fare a me; era un buco molto buio, io m’infilai dentro, con una candela in mano, e gli passai le pezze, preoccupandomi, mentre alcune le davo a lui, di nascondermene addosso quante più potevo. C’era in quel buco un valore di circa trecento sterline in merletti, e io ne presi per circa cinquanta sterline. I merletti non erano proprietà degli abitanti di quella casa, ma di un mercante che li aveva affidati a loro; loro, perciò, si meravigliarono meno di quel che io avevo previsto.
Lasciai il funzionario raggiante di gioia per il suo bottino, più che soddisfatto di quel che aveva avuto, e presi appuntamento con lui ad una casa che lui stesso mi disse, dove io arrivai dopo essermi liberata del carico che avevo addosso e della cui esistenza lui non ebbe il minimo sospetto. Quando fui da lui, si mise a mercanteggiare con me, credendo che io non sapessi quale parte del premio mi spettava di diritto, e s’illudeva di liquidarmi con venti sterline, ma io gli feci sapere che non ero ignorante come credeva lui; e tuttavia fui contenta che lui mi desse l’occasione di trattare. Chiesi cento, lui salì a trenta; io scesi a ottanta, e lui salì ancora a quaranta; infine, mi offrì cinquanta sterline, e io accettai, domandando in più solo una pezza di merletto, che giudicavo valesse otto o nove sterline, come se servisse a me da portare, e lui disse di sì. Così incassai la sera stessa cinquanta sterline in contanti e chiusi l’affare; lui non seppe mai chi ero, né dove venirmi a cercare, cosicché se avesse scoperto in seguito che una parte della roba era stata fatta sparire, non avrebbe potuto chiederla a me.
Divisi scrupolosamente il malloppo con la mia governante, e da quella volta in poi fui per lei una campionessa di bravura in lavori speciali. Io trovai che quest’ultimo era stato il migliore e il più facile dei colpi della mia carriera, e mi specializzai, nel fare indagini su merci proibite, e, dopo aver comprato qualcosa, di solito li tradivo, ma nessuna di quelle soffiate mi procurò un utile degno d’esser preso in considerazione, almeno non quanto quella di cui ho appena riferito; io, però, ci tenevo a lavorare sul sicuro, e stavo attentissima a non correre i rischi che vedevo correre agli altri, e che ogni giorno ne mandavano in malora qualcuno.
La cosa più importante che seguì fu un tentativo di scippo dell’orologio di una signora. Si svolse in mezzo alla folla, in un luogo di riunione, dove io ero in grande pericolo di venir presa. Io avevo afferrato saldamente l’orologio della signora, ma, dopo aver dato un forte strattone, come se qualcuno m’avesse spinto addosso a lei, e facendo fare all’orologio un bel giro sul gancio, m’accorsi che non veniva, e perciò lo lasciai subito andare, e mi misi a strillare come se mi stessero ammazzando, che qualcuno m’aveva pestato il piede, e che c’erano di certo dei ladri in giro, perché qualcun altro aveva dato uno strappo al mio orologio; dovete infatti sapere che per quelle imprese andavamo in giro sempre ben vestite, e io avevo un abito molto bello e un orologio al fianco, da signora come tutte le altre.
Non l’avevo ancora detto, che l’altra signora strillò anche lei “Al ladro!”, perché disse che qualcuno aveva cercato di strapparle l’orologio.
Quando avevo toccato il suo orologio io ero vicina a lei, ma quando feci lo strillo mi fermai come se qualcuno mi tirasse, e siccome la folla portò un po’ avanti lei, quando lei strillò si trovò lontana da me, e non ebbe nei miei confronti il minimo sospetto; ma al suo grido “Al ladro!” qualcun altro gridò “E qui ce n’è un altro: anche con questa signora han tentato.”