Lui fece tutto quel che poteva per far scoprire quel Gabriel Spencer; mi descrisse, rivelò il luogo dove gli avevo detto che abitavo e, in poche parole, fornì ogni particolare sulla mia persona; ma siccome gli avevo tenuto nascosto quel particolare fondamentale che era il mio sesso, mi trovavo in vantaggio, e lui non riuscì mai a trovar mie notizie. Mise nei guai due o tre famiglie con i suoi sforzi per scovarmi, ma costoro di me non sapevano nulla, se non che io giravo in compagnia di un tale che avevano visto, ma non sapevano altro. Quanto alla mia governante, anche se era stata lei il tramite del nostro incontro, la cosa tuttavia era avvenuta per interposta persona, e lui non la conosceva affatto.
Ciò si risolse a suo danno; infatti, avendo promesso rivelazioni che non era risultato in grado di fare, fece la figura di aver voluto prendere in giro la giustizia cittadina, e fu perseguitato con accanimento ancora maggiore dai bottegai che l’avevano catturato.
Io mi sentii, tuttavia, terribilmente a disagio per tutto quel tempo, e per togliermi completamente di mezzo mi allontanai per un po’ dalla casa della mia governante; ma, non sapendo dove andare a vagabondare, presi con me una cameriera, e in diligenza mi recai a Dunstable, dai miei vecchi padroni di casa, dove avevo passato giorni così belli col mio marito del Lancashire. Lì raccontai alla padrona una storia adatta alla circostanza, e cioè che attendevo di giorno in giorno l’arrivo di mio marito dall’Irlanda, mi aveva scritto dandomi appuntamento a Dunstable in casa loro, sarebbe certo sbarcato entro pochi giorni, se il vento era buono, e così io venivo a passare qualche giorno con loro, perché lui doveva arrivare o con la posta o con la diligenza di West Chester, non sapevo bene con quale delle due; arrivando, comunque, sarebbe certo venuto a cercarmi a casa loro.
La padrona di casa fu contentissima di vedermi, e il padrone mi fece tante feste che se fossi stata una principessa non avrei potuto esser trattata meglio, e lì da loro mi sarei potuta fermare un mese o due se me ne fosse parso il caso.
Ma le mie preoccupazioni erano d’altro genere. Ero agitatissima (per quanto travestita così bene che era quasi impossibile scoprirmi) all’idea che quel tale riuscisse in un modo o nell’altro a pescarmi; e anche se non poteva accusarmi per quella rapina, perché io avevo cercato di persuadere lui a non commetterla e mi ero per parte mia limitata a prender la fuga, pure avrebbe potuto accusarmi di altre cose, e salvarsi la vita a prezzo della mia.
Questo mi gettò in preda a una terribile apprensione. Non avevo risorse, né amici, né confidenti, oltre la mia vecchia governante, e non vedevo altra via d’uscita che affidar la mia vita in mano sua, e così feci, mandandole a dire dove poteva trovarmi, e finché rimasi colà ricevetti da lei diverse lettere. Alcune mi spaventarono tanto da farmi quasi diventar matta; ma alla fine me ne inviò una con la lieta novella che quel tale era stato impiccato, e fu quella la più bella notizia che avessi ricevuto da molto tempo.
Ero rimasta lì per cinque settimane, e avevo vissuto per la verità con ogni comodità (se si toglie l’ansia segreta dell’animo mio) ma quando ebbi quella lettera mi sentii di nuovo di ottimo umore e dissi alla padrona di casa che avevo ricevuto una lettera di mio marito dall’Irlanda, mi dava notizie ottime di sé, ma anche una brutta notizia, cioè che i suoi affari non gli consentivano di arrivare presto come aveva pensato, e perciò io dovevo ripartire senza di lui.
La padrona si rallegrò con me, comunque, per le buone notizie che avevo avuto di lui. “Infatti io mi ero accorta, signora,” disse, “che non eravate del vostro solito buon umore. Lui vi sta a cuore come la vostra stessa vita, si direbbe,” dice la brava donna, “e si vede benissimo che adesso avete cambiato faccia per la contentezza.”
“Mi dispiace, certo, che il nostro gentiluomo non possa venire ancora,” dice i1 padrone, “sarei stato molto contento di vederlo. Ma spero che, quando avrete notizia certa del suo arrivo, vorrete fare di nuovo una scappata qui, signora,” dice, “e sarete la benvenuta ogni volta che vi piacerà venire.”
Con tutti quei bei complimenti ci salutammo, tornai a Londra piuttosto allegra, e trovai la mia governante soddisfatta anche lei. E mi disse allora che non mi avrebbe più dato compari, perché s’era ormai accorta, disse, che io avevo più fortuna quando andavo fuori da sola. Ed era vero, perché di rado correvo rischi quand’ero sola, o, se li correvo, me ne tiravo fuori con maggiore bravura di quando ero impacciata dalle stupide mosse di altri, che forse erano meno previdenti di me, più rozzi e impazienti; infatti, anche se io avevo abbastanza coraggio per rischiare come tutti loro, tuttavia usavo maggiori cautele quando mi mettevo in una cosa, e avevo più presenza di spirito quando veniva il momento di uscirne fuori.
Mi sono spesso meravigliata della mia durezza per un altro verso, e cioè per il fatto che, mentre tanti miei compari si facevano beccare e cadevano all’improvviso nelle mani della giustizia, e io me la scapolavo di così stretta misura, tuttavia non riuscivo mai a prendere l’unica decisione seria che sarebbe stata quella di smettere il mestiere, specialmente considerando che ero ormai tutt’altro che povera; la tentazione della necessità, che in genere è l’origine di tali cattive azioni, era ormai remota; possedevo infatti circa cinquecento sterline in contanti, con le quali avrei potuto vivere molto bene se mi fosse parso il caso di ritirarmi; ma, ripeto, non avevo la minima intenzione di smettere; meno ancora che al tempo in cui possedevo soltanto duecento sterline e non avevo davanti agli occhi un tal numero di così spaventevoli esempi. Dalla qual cosa risulta evidente, secondo me, che chi diventa un duro del delitto, non c’è più niente che gli fa effetto, non c’è esempio che serva a metterlo in guardia.
Ebbi per la verità un’altra collega il cui destino per un certo tempo fu vicino al mio, benché anche quella volta io riuscissi a tirarmene fuori in tempo. Quello fu un caso veramente molto triste. Io avevo fatto il colpo d’una pezza di damasco molto bello, nel negozio di un merciaio, e ce l’avevo fatta molto bene, ma avevo passato la pezza a quella mia collega appena eravamo uscite dalla bottega, e andammo via, una in una direzione, una nell’altra. Eravamo da poco uscite dal negozio quando il merciaio si accorse che gli mancava quella pezza di roba, e spedì subito gente, in tutte le direzioni e beccarono quella che aveva la pezza, la trovarono col damasco addosso. Quanto a me, fortunatamente, ero entrata in una casa dove c’era, in cima a una rampa di scale, un laboratorio di merletti, ed ebbi la soddisfazione, o meglio lo spavento, di affacciarmi alla finestra per il chiasso che facevano nella via e scorgere la poveretta trascinata trionfalmente dal giudice, che subito la spedì a Newgate.
Mi guardai bene dal tentar qualcosa nel laboratorio, ma mi misi a frugare un po’ tra quelle cose per passare il tempo; alla fine comprai poche iarde d’orlo ricamato, pagai, e me ne venni via con una gran pena in cuore per la poveretta, che si trovava nei guai per quello che ero stata io sola a rubare.
E ancora una volta la mia prudenza antica fu il miglior punto d’appoggio; vale a dire che, se anche spesso andavo a rubare con quelle persone, loro però non sapevano affatto chi ero, né dove abitavo, né erano in grado di scoprire casa mia, anche se molte volte facevano di tutto per spiarmi. Mi conoscevano tutti col nome di Moll Flanders, anche se alcuni non erano nemmeno sicuri che Moll Flanders fossi io, lo sospettavano solo. Il mio nome era notissimo fra quella gente, ma non sapevano come rintracciarmi, non erano in grado nemmeno di immaginare quale era la mia zona, se all’estremità est della città o a quella ovest; e quelle cautele furono per me la salvezza in tutti quei casi.
Me ne stetti rinchiusa per un bel po’ quando ci fu la disgrazia di quella donna. Sapevo che, se facevo qualcosa che mi andava male, e mi mettevano in prigione, lì ci avrei trovato quella, pronta a testimoniare contro di me, e magari a salvarsi la vita a prezzo della mia. Riflettei che cominciavo a esser conosciutissima di nome all’Old Bailey, anche se non conoscevano la mia faccia, e se cadevo in mano loro potevo aspettarmi d’esser trattata da vecchia delinquente; per questo motivo ero decisa a non compiere nessuna mossa prima d’aver saputo quale sorte toccava a quella poveretta, anche se più di una volta nella sua sciagura le feci pervenire del denaro per aiutarla.
Infine lei si presentò al processo. Disse che non aveva rubato lei quella roba, ma che era stata una certa Flanders, come lei l’aveva sentita chiamare (perché lei non la conosceva), a darle il pacco quando erano uscite dal negozio e a dirle di portarselo a casa. Le domandarono dove si trovava questa Flanders, ma lei non seppe indicarlo, né poté dare alcuna notizia su di me; e poiché gli uomini del merciaio giuravano per certo che l’avevano vista nel negozio quand’era stata rubata la roba, e che appena s’erano accorti della sparizione l’avevano inseguita e le avevan trovato la roba addosso, di conseguenza la giuria la dichiarò colpevole; ma la Corte, considerato che non era stata lei, aiutante secondaria, a rubar la roba, e che era possibilissimo che non fosse in grado di far prendere la Flanders, cioè io, benché questo significasse per lei aver salva la vita, cosa verissima ripeto, considerato tutto ciò, l’ammise alla deportazione, che era il maggior beneficio che lei potesse ottenere; la Corte promise, però, se lei nel frattempo riusciva a far trovare la detta Flanders, di intercedere per la grazia; vale a dire che le davan la possibilità di scansare la deportazione se riusciva a trovare me e mettermi sulla forca. Mi detti da fare io perché non ci riuscisse, e così poco tempo dopo fu imbarcata, com’era stabilito dalla sentenza.
Devo ripetere di nuovo che la sorte di quella poveretta mi turbò straordinariamente, e ci pensai su parecchio, perché sapevo di essere io la causa della sua sventura. Ma la conservazione della mia vita, che era così palesemente in pericolo, mi fece passare ogni tenerezza; e, visto che mica la mandavano a morte, fui ben contenta della sua deportazione, perché così non sarebbe stata più in grado di far danno a me, comunque andassero le cose.
La disgrazia di quella poveretta capitò alcuni mesi prima dell’ultima storia che ho raccontato, e fu in realtà una delle ragioni per cui la mia governante mi fece vestire da uomo, per farmi passare inosservata, e così fu, ma io mi stancai presto di quel travestimento, come ho detto, perché mi metteva di fronte a troppe difficoltà.
Adesso non avevo più da temere testimonianze contro me, perché tutti quelli che avevano avuto a che fare con me, o mi avevano conosciuto sotto il nome di Moll Flanders, erano finiti o impiccati o deportati; e se avevo la sfortuna d’esser presa, potevo dire di chiamarmi in qualsiasi altro modo, o anche Moll Flanders, e non mi si potevano mettere in conto altri peccati; così ricominciai a battere con tutta libertà, e feci alcuni altri colpi, non però sul piano di quelli di prima.
Ci fu in quel periodo un altro incendio non lontano dal posto dove abitava la mia governante, e andai a fare un tentativo, come l’altra volta, ma non riuscii ad arrivare prima che si raccogliesse la folla, non potei entrare nella casa che mi interessava, e, invece di fare un colpo, passai un guaio che a momenti metteva il punto fermo a tutta la mia vita e a tutte le mie malefatte; infatti, siccome il fuoco divampava furioso, e quella gente aveva una fretta spaventosa di salvar la roba e la buttava perciò giù dalle finestre, ci fu una ragazza che da una finestra gettò un materasso imbottito proprio addosso a me. È vero che il materasso era morbido, e ossa non me ne ruppe; ma siccome aveva un bel peso, e cadendo dall’alto pesava anche di più, mi sbattè in terra, e mi stese secca, per un bel po’. Nessuno della folla si dette il minimo pensiero di aiutarmi, di togliermi di lì sotto; ma restai lì stesa secca per un pezzo, scordata da tutti, finché qualcuno, venuto a togliere il materasso dalla via, mi aiutò a rimettermi in piedi. E fu già un miracolo che la gente di quella casa non avesse buttato giù dietro al materasso altra roba che poteva caderci sopra, perché ci sarei di sicuro rimasta uccisa sotto; ma fui conservata in vita per le tribolazioni future.
Quell’incidente, però, mi rovinò per il momento la piazza, e io me ne tornai a casa della mia governante tutta indolenzita e bruciacchiata, e spaventata da morire, e passò parecchio tempo prima che lei riuscisse a rimettermi di nuovo in piedi.
Eravamo entrati nel periodo allegro dell’anno, era incominciata la fiera di San Bartolomeo. Io non m’ero spinta mai in quei paraggi, e la parte più popolare della fiera non mi serviva a gran che; ma quell’anno feci una puntata fino ai portici, e fra l’altro capitai davanti a una lotteria. Non era una cosa di grande importanza per me, né m’aspettavo grandi cose; ma arrivò un gentiluomo molto ben vestito e molto ricco, e siccome in quei posti capita di attaccar discorso con chiunque, lui si mise con me, e mi usò davvero molte attenzioni. Per prima cosa, disse che voleva tirare la riffa per me e lo fece, e, vinta qualche piccola cosa, la regalò a me (mi pare che fosse un manicotto di piume); poi continuò a parlare con me molto più a lungo di quanto comporta il normale riguardo, ma sempre in modo assai educato, sempre da signore.
Mi tenne tanto a parlare, finché mi portò infine fuori del posto della lotteria, davanti alla porta di una bottega, e poi a fare una passeggiata sotto i portici, sempre parlando allegramente di un milione di cose senza capo né coda. Alla fine mi disse, senza tanti complimenti, che era incantato dalla mia compagnia e mi domandò se me la sentivo di fare una passeggiata in carrozza con lui; mi disse che era un uomo d’onore, e che non m’avrebbe certo messo di fronte a nulla che non fosse decoroso per lui. Io feci per un po’ mostra di rifiutare, poi accettai di subire le sue insistenze, e cedetti.
Non fu facile da parte mia arrivar subito a capire quello che quel signore voleva; ma in seguito m’accorsi che aveva già un po’ di vino in corpo, e che non aveva niente in contrario a mettercene dell’altro. Mi portò in carrozza a Spring Garden, verso Knightsbridge, dove passeggiammo nei giardini, e lui fu tanto caro con me; ma mi resi conto che beveva senza freno. Invitò anche me a bere, ma io dissi di no.
Fin lì mantenne la parola, e non mi mise di fronte a niente di male. Risalimmo in carrozza, e lui mi portò in giro per le strade, poi fece fermare la carrozza davanti a una casa dove, a quanto pare, era conosciuto, e dove non si fecero scrupolo di farci salir di sopra in una camera dove c’era un letto. Sulle prime io feci mostra di non voler salire, ma poi cedetti anche su quello, perché soprattutto avevo voglia di vedere come andava a finire, e speravo alla fine di cavarci qualcosa. Quanto al letto, e al resto, non me ne preoccupavo gran che.