Authors: Gianluca Morozzi
Alla fine, Claudia si riscuote. Si pulisce la bocca con la camicia di Ferro, raccoglie da terra la maglietta di Bruce Springsteen, la strappa in tre parti con la mano libera e con i denti. Cerca di restare lucida, di non pensare che a ogni movimento sta sfiorando un cadavere dalla testa fracassata, che non può fare a meno di toccarlo con le gambe nude. Si sforza di non pensarci, s’inginocchia davanti a Tomas, e fascia in qualche modo la sua ferita con quelle bende improvvisate. La stoffa nera, sottile, si impregna subito di sangue.
Prova a strappare dei lembi della camicia di Ferro a mani nude, senza riuscirci. E allora raccoglie da terra il coltello e comincia a tagliare, in silenzio. Mentre Tomas la osserva con un sorriso triste.
Claudia si sforza di ignorare l’odore di tutte quelle cose che dovrebbero stare
dentro
e invece sono
fuori
, sangue, succhi gastrici, escrementi. Tutte le cose che dovrebbero stare
dentro
e invece sono
fuori
, e lei che vorrebbe essere fuori invece è chiusa dentro, ancora e inevitabilmente dentro, chissà per quanto, ancora.
«Devi rimanere cosciente» sta dicendo la voce di Claudia da qualche angolo dell’universo. «Devi rimanere cosciente, rimanere cosciente, cosciente,
cosciente
.» La sua voce è morbido miele, scorre giù per i canali uditivi e rimbalza nel cranio e scende in vibrazione fino alla gola, ma la spalla è ferita e brucia e fa male, e allora Tomas indirizza la vibrazione in territori più sicuri, la guida e la pilota come un’astronave che galleggia negli spazi vuoti tra i margini, bisogna stare molto attenti agli spazi vuoti tra i margini, si dice Tomas, bisogna stare molto attenti perché negli spazi vuoti tra i margini vivono le api senza forma, e le api senza forma nella configurazione conosciuta come Mark V hanno una potenza sonora impressionante, una compattezza metallica capace di tagliare il collo a un uomo come un coltello, bisogna stare attenti, molto attenti, alle api senza forma.
«Non svenire di nuovo» ripete Claudia, «resta aggrappato alla realtà, devi restare aggrappato alla realtà, dimmi qualcosa, parlami, come si chiama tuo padre?»
Nel buio al centro della testa di Tomas si apre una nuova piccola bocca che ride, parla masticando chiodi e cocci di bottiglia, «Potrò mica ricordarmi come si chiama mio padre» sghignazza la piccola bocca al centro della testa, «potrò mica ricordarmi tutte queste cose, io, io ho avuto altro da fare, ho combattuto il mostro e il mostro è morto, ma quando la sua testa si è staccata dal corpo il suo sangue avvelenato mi ha coperto nero e denso, e ora sto morendo anch’io, che non mi sembra mica giusto, io a quest’ora dovevo essere ad Amsterdam, e se vi concedo di essere qua ancora per qualche ora in questo ascensore potreste avere la compiacenza di non farmi sanguinare cosı̀ tanto, quantomeno».
«Come si chiama tuo padre?» ripete Claudia. «Tomas, Tomas, rimani aggrappato alla realtà, rimani cosciente, non lasciarmi sola, Tomas, come si chiama tuo padre? Dimmi come si chiama tuo padre.»
La piccola bocca nella testa di Tomas risponde: «Non me lo ricordo come si chiama mio padre», e lo dice fortissimo, perché il suono passa dalla bocca più grande che sta sulla faccia di Tomas sopra il taglio di coltello e Claudia sente, perché dice: «Cosa vuol dire non te lo ricordi?»
E la piccola bocca ribadisce «non me lo ricordo, non me lo ricordo».
E Claudia: «E tua madre, come si chiama tua madre?»
E la piccola bocca risponde: «Non me lo ricordo, non me lo ricordo, non me lo ricordo, lasciami in pace, io sto bene qua».
Anche a Wilmo Chiodi piaceva catturare le lucertole, da bambino. Le prendeva per la coda, le chiudeva in un barattolo di maionese, e con una cinepresa giocattolo ne filmava la lotta per la vita. L’ultima lucertola che restava viva, aveva in premio la libertà.
Wilmo Chiodi viveva in un grumo di alberghi, sale giochi e ombrelloni gettati un po’ a caso sulla riviera romagnola. Uno sputo di paese che viveva solo e soltanto da maggio a settembre, per poi sprofondare nel sonno profondo della lunghissima stagione invernale. I suoi genitori erano i proprietari della pensione Miranda, popolata da maggio a settembre da turisti tedeschi, famiglie con bambini piccoli, coppie di pensionati in cerca di sole, mare e relax. Wilmo aiutava i genitori in sala, prendeva le ordinazioni delle bottiglie d’acqua e del vino.
A fine settembre, quando i lettini e gli ombrelloni venivano ripiegati e messi da parte fino a maggio, quando gli alberghi si svuotavano e il paese diventava un veliero fantasma, Wilmo dava spazio alla sua fantasia. Le signore tedesche erano gentili e generose con le mance, e a fine estate Wilmo metteva da parte tutti i soldi guadagnati durante la stagione. Un giorno, con tutte quelle mance, avrebbe comprato una cinepresa. E avrebbe fissato su pellicola tutti i piccoli e meravigliosi film che scorrevano nella sua testa, fotogramma dopo fotogramma, in quei lunghi giorni passati a guardare la pioggia sottile sulle onde gelate.
Quando si sentiva davvero morire in quell’orribile nulla ovattato, Wilmo saltava sul motorino e si spostava verso Rimini. Sfrecciava per dieci chilometri sull’asfalto fradicio del lungomare, costeggiando la macchia di grigio formata dall’acqua che si mischiava al cielo. Lasciava il motorino in una laterale di corso Augusto, e andava a scaldarsi le ossa e l’anima nel suo cineclub preferito.
Imparava.
Andava a vedere una copia restaurata di
King Kong
, magari, e rimaneva incantato dalle animazioni col fermo immagine di Willis O’Brien. Poteva passare un pomeriggio intero guardando quattro film di seguito, con la sua tessera sconto da studente, da solo nella sala deserta.
Imparava.
Wilmo Chiodi, in quei pomeriggi passati in uno scalcinato cineclub destinato a chiudere di lı̀ a poco, aveva già perfettamente in testa il suo destino.
Dopo il diploma, Wilmo si era trasferito a Bologna per iscriversi al DAMS. Era andato ad abitare da uno zio all’estrema periferia della città, al confine con la campagna, in un intrico di vie battezzate con i nomi dei vecchi presidenti della Repubblica.
In quei primi mesi universitari, Wilmo aveva imparato a convivere con il rumore delle ruspe e delle gru. Dall’altra parte della strada, stavano sorgendo due palazzi enormi.
Due palazzi gemelli.
Wilmo li aveva visti nascere e crescere, elevarsi maestosi sulle schiere di casette basse in cemento armato, con le ringhiere azzurre tutte uguali. Aveva preparato i primi esami col ruggire delle escavatrici, il brontolio delle betoniere, le urla dei muratori sulle impalcature.
E poi, a un esame, aveva conosciuto Walter.
Claudia sta in ginocchio nei pochi centimetri a sua disposizione. Ha strappato un’altra striscia di uniforme per usarla come benda, ma il sangue continua a uscire, cazzo, continua a uscire e lei non sa assolutamente cosa fare. Ha paura che Tomas muoia dissanguato, non sa come impedirlo. Ha il terrore di restare sola in quella tomba di plastica e ferro, sola tra due cadaveri. Ha paura di impazzire, lı̀ nell’ascensore.
Sfiora il cadavere di Ferro a ogni minimo movimento. Non può fare a meno di toccare quella carne morta.
L’odore nella cabina è insostenibile. L’aria è una palude, penetra il cervello in aghi sottili. Tanti piccoli aghi sottili.
Claudia chiude gli occhi, stringe le palpebre fortissimo.
Tomas alterna momenti di oblio ad altri di semicoscienza. Quando parla è rauco, strascicato e sofferente.
«Claudia?»
«Zitto. Sto cercando di dormire.»
«Non è un normale blackout. Un blackout non dura cosı̀ tanto.»
«Che vuoi dire?»
«Che aveva ragione Ferro. È successo qualcosa, là fuori. Sono morti tutti. Tutti. Non c’è più niente là fuori.»
«Aspetta!» urla Claudia. «Si sta muovendo!»
«Non si sta muovendo.»
«Certo che si sta muovendo! Non lo senti? L’ascensore. Sta scendendo. Non senti? Sta scendendo!»
«Non sta scendendo.»
«Certo che sta scendendo, idiota! Si muove! Siamo salvi! Siamo salvi!»
Rimangono in silenzio, concentrati su ogni vibrazione. Claudia resta tesa come un puma per venti interminabili minuti.
Poi crolla, si accascia sul pavimento senza forze.
Come la Terra trattiene la Luna e in cambio la Luna influenza spiriti e maree, Wilmo e Walter avevano iniziato a satellitarsi intorno.
Wilmo era il vulcano, il cervello in perenne ebollizione, l’uomo con più idee di quante fosse possibile realizzarne.
Walter, be’, Walter idee non ne aveva, non era brillante, non era intelligente. Ma era il figlio di Colui che tutto può. Tanto bastava.
Quando si erano conosciuti, Walter si era presentato con tanto di nome e cognome. E il suo cognome, inevitabilmente, richiamava quello di un volto televisivo ben noto a tutti gli italiani, l’eminenza che da trent’anni manipolava vicende catodiche e non solo catodiche, Colui che tutto può.
Nel sentire quel cognome, Wilmo non aveva potuto evitare la battuta. Ben conscio che Walter, probabilmente, sentiva quella battuta ogni santo giorno della sua vita.
Cosı̀ gli aveva domandato sorridente: «Sarai mica parente di...?»
Walter, con un candore insospettabile, aveva gioiosamente risposto: «Certo, è mio padre».
E Wilmo aveva spalancato gli occhi.
Nella sua testa si stavano aprendo cancelli su cancelli verso il futuro. Orizzonti sconfinati su scenari di gloria.
Aveva la possibilità di diventare amico - ma quale amico, un fratello, un simbionte - del figlio di Colui che tutto può. L’uomo che da trent’anni dava del tu ai politici che facevano a gara per un invito alla sua trasmissione. L’uomo che con una telefonata poteva stroncare senza appello una carriera o, al contrario, farla definitivamente decollare.
Aveva cercato di non esternare troppo la sua gioia, quando aveva stretto la mano di quel portale verso l’infinito dicendo calmissimo: «Piacere, Wilmo Chiodi».
Walter era un ragazzone rubizzo, con le guance rosse e una massa di capelli perennemente spettinati.
«Io voglio seguire la mia strada senza dover contare mai sul mio cognome!» ripeteva sempre. «Piuttosto che chiedere l’aiuto di mio padre vado a scaricare le casse della frutta! Io sono un creativo, io devo sfondare con le mie sole forze!» Wilmo ascoltava quei proclami roboanti e sorrideva, pensando: «Sı̀, sı̀, certo, come no».
Continuava a coinvolgere nei suoi progetti quel ragazzone buono, ma senza uno straccio di intuizione che non fosse la risciacquatura di cose sfruttate e risfruttate. Era bravo a trattarlo come un pari livello, a farlo sentire la metà di un duo. Quando gli esponeva le sue idee per un cortometraggio o per un filmino amatoriale, il contributo di Walter non andava quasi mai oltre un ammirato: «Sı̀, sı̀, bello, bello». Però, abilmente, Wilmo continuava a dire il
nostro
cortometraggio, il
nostro
progetto, a sollecitare continuamente il suo contributo, Walter sparava un paio di cazzate sconfortanti che Wilmo accoglieva soltanto a parole, senza nemmeno sognarsi di prenderle in considerazione. A progetto finito Wilmo gongolava, diceva: «Siamo stati bravi, eh, socio?, abbiamo fatto un bel lavoro, eh, socio?»
Ingenuo com’era, Walter nemmeno si accorgeva che di suo, in quel progetto, erano rimaste solo le briciole.
Per tutti gli anni di università erano stati gemelli siamesi, Wilmo e Walter. Si erano laureati brillantemente - la sciatta tesi di Walter aveva riscosso entusiasmi ingiustificati e molto sospetti, in sede di discussione - e appena laureati avevano deciso di avventurarsi nel mare in burrasca dello spettacolo.
Wilmo sognava di sfondare nel cinema, ma sapeva anche essere realista e pragmatico fino all’osso. Era troppo importante poter contare sull’amicizia di Walter, sull’appoggio del manipolatore che agiva nell’ombra, che apriva tutte le porte per il figlio. Non sfruttare quel canale preferenziale, be’ sarebbe stato autolesionismo.
Cosı̀ aveva deciso: si sarebbe fatto un nome come autore televisivo, piantando solide radici nell’ambiente. Una volta insediato, al momento giusto, avrebbe fatto il grande salto.
Wilmo era la mente. Walter, la chiave.
Subito dopo, coerente col meraviglioso mondo di elfi e fatine buone che abitava la testa di Walter, qualche pezzo grossissimo della TV li aveva contattati. Aveva detto di aver
casualmente
visionato i loro cortometraggi semiclandestini, di averne apprezzato
la forza visionaria
, e di voler proprio conoscere quei due giovani e sorprendenti autori. Tutto questo cumulo di cazzate Walter l’aveva riportato a Wilmo parola per parola, entusiasta, candido e convinto.
Senza pensare che, forse, suo padre poteva aver fatto un paio di telefonate.
Senza pensare al fatto che, casualmente, il pezzo grosso in questione lavorava per la rete di cui era direttore suo padre.
Senza sospettare niente.
Dietro il suo sorriso beato, Wilmo sapeva benissimo tutte queste cose. Non gli importava. Le sue idee stavano assumendo sembianze concrete, finalmente.
Erano partiti per Milano diretti a quel colloquio-farsa, Walter a ripetere come un disco rotto «Mio padre nemmeno lo sa, pensa che sorpresa se lo incontro nei corridoi, lui non sa niente». Wilmo a pensare «Ma sı̀, ma certo, figurarsi».
Durante quel viaggio in macchina, Wilmo aveva elaborato l’idea di un programma - il
loro
programma, ovviamente - da proporre alla rete. L’aveva esposto minuziosamente a Walter, e il contributo di Walter era stato il solito «Sı̀, sı̀, meraviglioso! », e il titolo del programma. Cacofonico. Orrendo.
Dal colloquio-farsa, Walter era uscito stolidamente entusiasta. «Hai visto com’è rimasto colpito dal nostro progetto?» squittiva.
Come se fosse stato normale, per due neolaureati del DAMS senza referenze, venir contattati solo sulla base di due corti clandestini, esporre un azzardatissimo progetto, e vederselo accettato cosı̀, su due piedi.
Normale.
Certo.
Se si è figli di Colui che tutto può.
Comunque, il progetto aveva preso il via. Con l’orribile titolo
Constatazione amichevole
, trentacinque puntate da venti minuti, le undici di sera come morbida collocazione oraria.
L’idea di Wilmo era semplice, geniale ed economica.
Walter e un paio di tecnici del suono si appostavano sul terrazzo di una palazzina alla periferia di Milano, un terrazzo proprio sopra a un semaforo. Wilmo stava in macchina col motore acceso, mezzo nascosto in una stradina laterale.
Appena arrivava un’auto solitaria, Wilmo usciva dalla stradina laterale e tamponava l’auto ferma al rosso. Quando il proprietario dell’auto scendeva, Wilmo lo affrontava con incredibile faccia tosta sostenendo di aver ragione. Quel che succedeva dopo, Walter lo riprendeva dal terrazzino.
Dal punto di vista sociologico, l’idea si era rivelata azzeccata e interessante. Le vittime inconsapevoli reagivano il più delle volte con urla e improperi, bestemmie, telefonate agitate ai vigili, prima della rivelazione finale. Con la telecamera che sbucava dal terrazzino, la stretta di mano di Wilmo, la garanzia di risarcimento dei danni.
Wilmo, dal canto suo, si era scoperto bravissimo. La sua espressione alla Buster Keaton in certe situazioni al limite dello scontro fisico si era rivelata un punto di forza del programma.
Aveva ingoiato impassibile carrettate di insulti, pianti di signore isteriche, perfino la testata in mezzo agli occhi di un energumeno esagitato, alla sesta puntata. Aveva mostrato la cicatrice a tutti, orgoglioso, come una medaglia ricevuta sul campo.
Poi, alla nona puntata, c’era stato il disastro.
La storia del giovane avvocato.
La mattina del disastro era iniziata come tutte le altre mattine. Walter e i tecnici si erano appostati come al solito sul terrazzino, mentre Wilmo era in macchina col motore acceso, aspettando la sua vittima.
Il semaforo era diventato rosso, proprio mentre spuntava quella Volvo nera dal fondo della strada. Wilmo aveva avuto il tempo di notare una ragazza dietro il finestrino, sul sedile del passeggero, aveva lasciato la frizione, era partito. Puntando la targa della Volvo ferma al semaforo.
La sua tecnica era ormai consolidata: una frenata improvvisa, un po’ di stridore di gomme per far scena, e poi il crash!, il metallo sul metallo, i fanalini frantumati. Era sceso con la solita faccia di creta, pronto a incolpare l’altro guidatore.
Solo, dalla Volvo nera nera, era sceso un pazzo.
Il pazzo era un trentenne distinto, ben vestito, i capelli corti, il pizzetto curato, la camicia nera di sartoria. Con le iridi dilatate, le vene del collo gonfie, la voce da psicolabile.
Aveva iniziato a strillare, a insultarlo, ad accusarlo di avergli rovinato la Volvo. Prima che Wilmo potesse parlare, l’aveva preso per la gola.
Wilmo non aveva ceduto alla tentazione di scoprire subito il gioco. Dopotutto, la puntata più vista di
Constatazione amichevole
era stata quella della testata in mezzo agli occhi, e se il suo pubblico voleva veder scorrere un po’ di sangue, be’, per il suo programma, per il suo sogno, Wilmo era pronto a sacrificarsi.
E allora aveva continuato a negare l’evidenza, con una faccia tosta inimmaginabile. Aveva rantolato - mentre il pazzo gli stringeva la gola - «Adesso lei si calma, mi firma la constatazione amichevole e si prende tutte le colpe dell’incidente».
Il pazzo non ci aveva visto più. Gli aveva rovesciato addosso una valanga di minacce, minacce in cui tirava in ballo certi amici potenti in grado di schiacciare Wilmo con una telefonata, amici potenti pronti a correre in suo aiuto. Aveva fatto anche il nome e il cognome di questi suoi amici, completamente folle di rabbia, fuori di testa.
Wilmo aveva avuto solo il tempo di realizzare che, forse, forse, le cose stavano prendendo una brutta piega. Che, forse, era meglio finirla lı̀.
Poi, una scarica di pugni allo stomaco gli aveva spezzato il fiato e i pensieri.
Il resto, Wilmo l’aveva appreso dopo. Walter e i tecnici si erano sbracciati dal terrazzino, urlando: «È una candid camera! È una candid camera!»
Imprevedibilmente, il pazzo si era infuriato ancora di più. Aveva urlato di consegnargli la cassetta, di smetterla di riprendere, intanto che la ragazza sulla Volvo si copriva la faccia, e Wilmo sputava grumi di sangue sull’asfalto.
In ospedale, Walter gli aveva spiegato - bianco in faccia - tutto quello che aveva saputo.
Il pazzo era un giovane avvocato rampante, figlio di un politico in ascesa. Con amicizie molto in alto, ma davvero molto, molto in alto. Cosı̀ in alto da poter
veramente
contare sui nomi che aveva urlato in faccia a Wilmo, ignaro di essere ripreso.
Chi fosse la ragazza sulla Volvo, nessuno aveva neppure osato immaginarlo.
La rete protettiva del padre di Walter, in questo caso, aveva funzionato solo in parte. Wilmo e Walter avevano rimestato in una palude troppo torbida per loro, nella stessa palude da cui da trent’anni traeva nutrimento Colui che tutto può.
Constatazione amichevole
era stato cancellato con l’ottava puntata, ufficialmente per ragioni di scarsa audience. Wilmo e Walter non avevano protestato. Non avevano obiettato niente.
Si erano resi conto di essere stati fortunati, in realtà.
Molto, molto fortunati.
Se la rete protettiva non aveva salvato il programma, comunque, quantomeno li aveva fatti atterrare sul morbido. Il padre di Walter aveva gettato la maschera col figlio - una maschera di carta sottilissima -, e gli aveva brutalmente dettato le condizioni per tornare a lavorare. Walter lo aveva ringraziato, poi era andato in ospedale a spiegare tutto a Wilmo.
«Mio padre dice che abbiamo una seconda possibilità» aveva detto, «ma che dobbiamo tornare in sella con qualcosa di fortissimo. Qualcosa di imbattibile. Che metta tutti a tacere con i numeri dell’audience, dobbiamo avere dei numeri inattaccabili da sbattere in faccia a tutti.» Aveva guardato implorante Wilmo con la sua solita espressione da ragazzo buono, assolutamente incapace di farsi venire un’idea brillante.
«Cosa facciamo, Wilmo? Cosa ci inventiamo?» aveva sussurrato in un modo che significava «
Sono nelle tue mani
».
E allora Wilmo aveva chiuso gli occhi.
Aveva iniziato a pensare.
A qualcosa di forte.
Di fortissimo.