Blackout (12 page)

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Authors: Gianluca Morozzi

BOOK: Blackout
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18:49

Tomas è di nuovo tra le porte, le tiene aperte con le gambe e con la schiena. Ha gli occhi fissi sull’inviolabile cielino.

Fammi uscire in tempo. Non chiedo altro.

Il treno parte tra un’ora e dieci. Se usciamo adesso posso correre in casa, prendere la sacca da viaggio, volare in stazione in vespa.

E se usciamo ed è troppo tardi?

Prendiamo in considerazione l’ipotesi di perdere il treno. Prendiamola in considerazione.

Devo telefonare a Francesca. Devo avvisarla.

Lei capirà. Certo. Non succederà niente. Al massimo prenderemo il treno successivo. Male che vada. Prendiamo il treno dopo. Il successivo. Quello dopo. Non cambia niente. Non succede niente.

Ho caldo e ho freddo. Ho la febbre. Devo avere la febbre. Sto male. Brucio. E ho freddo.

Dell’acqua. Vorrei tanto dell’acqua.

Se fossi arrivato a casa cinque minuti prima. O un minuto prima. O un minuto dopo.

Se non avessi aperto il portone alla tipa dai capelli verdi. Stupida. Potevi arrivare un minuto prima. O un minuto dopo. Con quella faccina aguzza, quella bocca minuscola, quegli occhioni da cartone animato giapponese.

Stupida.

Ho sete.

Tomas è piccolo e sottile tra le porte.

E le porte sembrano schiacciarlo in una morsa.

18:53

Ferro fissa la monetina che lascia le sue dita, vola nel verde, bellissima e rotonda come il sole, ricade sul palmo. Testa. Come sempre.

Sorride.

Non ci crede nemmeno lui, alle sue storie di estremisti islamici e invasioni aliene. Non fino in fondo, quantomeno.

Perché se davvero ne fosse convinto, se davvero sapesse che non c’è più niente fuori dal vano dell’ascensore, niente, se non montagne di cadaveri sterminati nell’attacco batteriologico, o alieni che stanano la gente nelle cantine, tirano fuori esseri umani urlanti per succhiarne il midollo come un’aragosta, be’, se sapesse che tutti questi scenari di morte sono reali, non avrebbe più remore né esitazioni. Cadute le esigenze di rispettabilità, riporrebbe la monetina nella tasca e stringerebbe le dita intorno al coltello a serramanico. Supererebbe in un attimo i quaranta centimetri di spazio tra lui e Tomas. E gli taglierebbe la gola come a un capretto.

Godendosi l’espressione incredula e soddisfatta su quel visino del cazzo.

Poi strapperebbe a Claudia quell’uniforme da puttana. Che bisogna proprio essere delle gran puttane per andare in giro con un’uniforme come quella, proprio delle gran puttane che hanno una gran voglia di essere scopate in tutti i buchi come cagne in calore. Glielo sbatterebbe dentro fino a farla urlare a quella gran puttana dai capelli verdi, glielo svuoterebbe tutto nella figa e nel culo e in quella minuscola bocca e tra le sue piccole tette, a quella gran puttana.

E dopo averlo svuotato tutto fino all’ultima goccia, be’. La prospettiva di restare nell’ascensore con la ragazza, il coltello e il cadavere sgozzato, da soli, con un sacco di tempo da far passare e un’immaginazione illimitata, aprirebbe un sacco di scenari interessanti e creativi.

Ma, per il momento, è Aldo Ferro ad avere il controllo. Quel corpo da sosia quarantenne di Elvis è ancora amministrato dal proprietario di tre locali chiamati Pink Cadillac, Graceland e Memphis, con un fedelissimo fanclub, marito infedele, padre severo ma giusto, l’Aldo Ferro che si preoccupa di tenere gli occhi indiscreti fuori dall’appartamento del ventesimo piano. Deciso a uscire da quell’ascensore perfettamente anonimo e pulito. È questo Aldo Ferro ad avere il controllo.

L’esperto cesellatore di facce inchiodate alla rovescia, l’autore di stupendi snuff movies nella baracca in mezzo ai boschi, il mostro dietro la maschera rossa di Darth Maul, ancora non è che una flebile voce in fondo alla testa. Una voce come lo stridore di una sega arrugginita, una sega arrugginita che affonda nella corteccia di una sequoia in una pioggia di scintille.

Una voce che dice: «Non c’è più niente là fuori, il mondo è morto, io, questa puttana, adesso me la scopo».

Ma la voce della Maschera Rossa è confinata sul fondo della testa, per il momento. Mentre Aldo Ferro, marito infedele, padre severo ma giusto, proprietario di tre locali di successo, lancia la moneta nell’aria color smeraldo.

Ancora.

E ancora.

TERZA ORA
19:13

Claudia è seduta con la testa tra le ginocchia. Sta cercando di non esistere per un po’.

Magari sarà un sussulto a svegliarmi, il sussulto dell’ascensore che si muove, di cavi e contrappesi che tornano in vita. Nell’attesa cerco di dormire, che cosı̀ esco da questo schifo di luce verde, da quest’aria che sembra fango bagnato, dalla puzza di sudore. Vado via per un po’, vi lascio soli, addio.

Quand’era bambina, nella casa di campagna delle vacanze, Claudia andava a caccia di lucertole con suo fratello. Lui era un cacciatore bravissimo: si appiattiva nell’erba, aspettava nel silenzio più assoluto, e in breve tempo si rialzava trionfante. Tenendo una preda per la coda, le corte zampette che si agitavano nell’aria.

Chiudeva la lucertola in un grosso barattolo di vetro, quello in cui il nonno teneva le olive, avvitava il coperchio, e poi correva di nuovo ad appiattirsi nell’erba. Claudia provava a imitarlo, ma era troppo piccola e lenta; le code di quegli schifosi eredi dei dinosauri le sgusciavano sempre tra le dita.

Suo fratello, al contrario, era implacabile. La sua furia cacciatrice si placava solo quando nel barattolo c’erano tre lucertole, il numero perfetto per i loro esperimenti.

A questo punto sigillavano il barattolo, stringendo per bene il coperchio. E iniziavano a osservare.

Le tre lucertole si muovevano a scatti da un angolo all’altro, s’incollavano al vetro, guardando fuori con gli occhietti stolidi e crudeli. Alternavano momenti di improvvisa frenesia ad altri di assoluta immobilità, l’istante prima erano appiattite contro le pareti del barattolo come dei Garfield a ventosa sul finestrino di una macchina, l’istante dopo si agitavano come mercurio impazzito, intrecciando le code, sfiorandosi con i musi triangolari.

Quando la nonna li richiamava in casa per la cena, Claudia e suo fratello rispondevano a malincuore e nascondevano il barattolo nella legnaia. Mangiavano in fretta, impazienti di tornare a seguire l’esperimento, tornavano di corsa nella legnaia, a guardare il barattolo con gli occhi sbarrati e il ghigno cattivo.

Speravano sempre di vedere le lucertole divorarsi a vicenda. Non succedeva mai.

Suo nonno entrava sempre nella legnaia troppo presto, scuoteva la testa, li sgridava, e l’esperimento si interrompeva.

Una volta o l’altra sarebbe accaduto, si dicevano Claudia e suo fratello. Il nonno sarebbe entrato nella legnaia troppo tardi, l’esperimento sarebbe andato avanti fino in fondo, le lucertole si sarebbero fatte a pezzi a vicenda. Completamente impazzite.

Claudia chiude gli occhi, abbracciandosi gli stinchi. Cerca di dormire.

Solo, in quella posizione, con le ginocchia sotto il mento, la stramaledetta uniforme tende a risalire inesorabilmente lungo i fianchi. Se non vuole mostrare le mutandine dei grandi magazzini al viscido sosia di Elvis, deve afferrare i lembi con le mani e tirare verso il basso, sulle cosce.

E adesso?

Come cazzo faccio a dormire se devo preoccuparmi di non restare mezza nuda? Se devo tenere tesa sulle gambe questa maledetta, cortissima divisa?

Sospira. Odia ferocemente il Porco del bar, odia altrettanto ferocemente il porco che respira pesante a pochi centimetri da lei.

Dormire non se ne parla, non c’è via d’uscita «Siamo chiusi in trappola» gridano i suoi nervi grattugiati. Chiusi in trappola come le lucertole.

Come la bambina che graffiava i mattoni.

Te la ricordi, la bambina che graffiava i mattoni?

Ti ridurrai cosı̀? A graffiare i mattoni con le unghie?

Ti ridurrai cosı̀? Come la bambina?

Un brivido si arrampica sulla sua spina dorsale. Cerca di pensare ad altro. Bea. Qualcosa che le ricordi Bea. Uno dei film preferiti di Bea.

Bea che adora Woody Allen, specie nei film con Diane Keaton. Bea, che reputa Mia Farrow nient’altro che una pazza nevrotica.

Pensa a uno dei film preferiti di Bea,
Misterioso omicidio a Manhattan
.

Quella scena con Woody Allen e Diane Keaton nell’ascensore fermo tra due piani, lui che ha un attacco di claustrofobia e cerca di autoconvincersi di essere in uno spazio aperto, gemendo «Sono uno stallone e corro libero nei prati». Bea rideva come una pazza su quella scena, rideva cosı̀ forte che sembrava grufolare.

Claudia prova a fare come Woody Allen, a immaginarsi in uno scenario gentile. In spazi aperti. Cerca di visualizzare nei dettagli il primo incontro con Bea. La grande piazza, l’aria pura, il cielo, le gambe distese. Potersi muovere senza sfiorare corpi sudati, o pannelli d’acciaio. Senza uniformi che risalgono sui fianchi a ogni movimento.

Visualizza tutti i dettagli, gli odori, le luci.

Solo, si accorge subito, se avvia quello scenario di realtà virtuale, non riesce a bloccarlo a metà. Lo scenario arriva sempre fino in fondo.

Fino alla bambina che graffiava i mattoni.

(Ti ridurrai come la bambina? a graffiare i mattoni con le unghie?)

Stringe i denti. È entrata in un loop mentale da cui è impossibile uscire, un circolo vizioso che la riporta sempre, inevitabilmente alla bambina. E allora cerca di uscire dal circolo vizioso con uno strappo violento, uno
Snap!
dentro la testa, come un cavo di metallo che si spezza.

Rinuncia all’idea di proiettarsi in grandi spazi aperti, torna all’idea originaria. Prova a dormire, a uscire dall’ascensore almeno in sogno.

Cambia posizione un paio di volte. Appoggia la tempia sinistra al ginocchio sinistro, la tempia destra al ginocchio destro, le gote tra le ginocchia.

«Cazzo» bisbiglia inudibile.

Non ce la fa, non riesce a dormire e a tenere tirata la divisa nello stesso tempo. O si rassegna a restare mezza nuda o rinuncia al sonno, che spazio per stendere le gambe proprio non ce n’è.

Allora si limita a chiudere gli occhi. Finge di dormire, galleggia nell’universo dei colori dietro le palpebre chiuse.

E ripensa alla bambina che graffiava i mattoni.

INTERLUDIO: LA BAMBINA CHE GRAFFIAVA I MATTONI

C’era il sole a illuminare il primo incontro tra Claudia e Bea, ma era un sole finto. Il freddo pungeva a tradimento giù per le collottole, in quell’autunno che già da un po’ sembrava inverno.

Il pulmino delle comparse era arrivato sul set di piazza Santo Stefano poco dopo l’ora di pranzo. Claudia ne era scesa allegra e sorridente, con i suoi giganteschi occhiali da sole anni Settanta, la sua sciarpa freak, la giacchetta vintage comprata in Piazzola insieme ai jeans rossi dall’orlo sdrucito. Lei e Ricky facevano le comparse in tutti i film in cui riuscivano a infilarsi, in quel periodo. Cento carte per passare un pomeriggio a fingere di conversare sullo sfondo di una scena, be’, per pagare l’affitto dell’appartamento da fuorisede, cento carte, facevano comodo eccome.

Avevano passeggiato sulla scalinata di una discoteca, a marzo, in un film sulla vita di un famoso fumettista. Avevano finto di bere birra al bancone di un pub, a maggio, in un filmetto sgangherato e pretenzioso di ambientazione studentesca. Avevano ripetuto
piselli e carote
per una decina di ciak, a giugno, nella folla di comparse che affollava il ciak di un ricevimento nuziale.

In quel pomeriggio di gelido autunno, dovevano semplicemente stare tra il pubblico di una gara di Formula Uno anni Trenta. Cento carte guadagnate strillando e applaudendo al passaggio dei bolidi, parte dell’affitto pagata senza sforzo, in quell’appartamento di via Fondazza che Claudia e Ricky condividevano con tre individui alquanto disprezzabili.

Si erano messi in fila per il trucco e i costumi, lei scherzava e sorrideva, ignara di essere destinata a trasferirsi in un palazzone di venti piani, un giorno, e a restare chiusa in un ascensore tra l’undicesimo e il dodicesimo piano, più avanti. Non poteva presagire nessuno di quegli eventi, lı̀ sull’acciottolato di piazza Santo Stefano.

Mentre erano in fila per il trucco e i costumi, Ricky aveva strillato «Eccolo!» con una vocina strozzata dall’emozione. Claudia aveva finto di auscultargli il polso, l’aveva preso in giro, «Non morirmi qua» aveva detto ridendo.

Il protagonista della fiction era apparso al centro della piazza per discutere la scena col regista, già in costume da pilota. Ricky se lo mangiava con gli occhi, da lontano. Aveva fatto di tutto per infilarsi in quel set e poter incontrare quell’attore dal profilo aristocratico, «Mi basta vedermi nell’angolino più in basso dello schermo, in una scena in cui compare
lui
» aveva detto a Claudia, sul pulmino, con aria sognante.

Ricky era il compagno di appartamento di Claudia, il suo miglior amico. La prima persona che aveva conosciuto arrivata a Bologna, l’unico atollo di salvezza nel covo di studenti psicopatici incistato in via Fondazza. Si erano fatti da stampella a vicenda un numero incalcolabile di volte, in quei primi anni di esami e di amori tormentati. Ricky, col vizio di innamorarsi di certi pseudoartisti stronzi, inguaribilmente, inesorabilmente stronzi. Claudia, incapace di dare agli eventi il giusto peso, col vizio di ritrovarsi innamorata persa e disperata dopo un bacio, un solo bacio, magari alcolico, nel mezzo di una festa.

C’era stata una notte in cui si era sentita a un centimetro dal baratro, Claudia. Distrutta, svuotata dalle lacrime, umiliata fino all’osso. Ricky l’aveva consolata per ore e ore, poi l’aveva guardata dai piedi del letto, l’aveva fissata serissimamente negli occhi e si era fatto uscire una frase assurda come «Ascolta, lo so che ora ti senti inutile e violata, ma se può farti sentir meglio, ricordati che se mai vorrai dare un senso alla tua vita diventando madre, ecco, sappi che in quel caso sarò fiero di donarti il mio seme». E aveva fatto seguire a questa frase assurda un silenzio profondissimo e solenne.

Claudia l’aveva fissato con gli occhi gonfi. L’aveva squadrato incredula per qualche secondo, e poi aveva iniziato a ridere senza più riuscire a smettere, ripetendo in continuazione «Sarò fiero di donarti il mio seme, nooo! Da dove ti è uscita? Da dove ti è uscita?»

E in qualche modo, grazie a Ricky e a quella sua uscita strampalata da fanatico di
Will & Grace
, anche quella tempesta era passata.

Erano insieme anche quel pomeriggio, come sempre, in fila per il trucco e i costumi. Claudia era uscita dalla fila con un cappottino marrone, un paio di scarpe di cartone, un cappellino sopra l’assurda acconciatura da principessa Leila, Ricky con un panciotto, dei mustacchi posticci e un cappello di feltro. Per un po’ avevano evitato di guardarsi, per non scoppiare a ridere.

C’erano delle balle di fieno allineate per delimitare la pista, proprio davanti alle Sette chiese. Le comparse si erano schierate dietro le balle di fieno, pronte ad applaudire il passaggio delle auto. Avevano girato la scena, strillato e battuto le mani. Poi l’avevano girata di nuovo, e di nuovo, e dopo c’era stato un problema con il sole e le luci e le riprese si erano fermate per mezz’ora. Claudia si era accesa una sigaretta e aveva iniziato a lamentarsi del freddo, che sotto il cappottino s’intrufolava dell’aria ghiacciata e aveva le cosce come due blocchi di ghiaccio. E allora Ricky aveva detto con un larghissimo sorriso «Ci penso io». Aveva aperto il suo zainetto e le aveva lanciato un paio di scaldamuscoli, «Mettili» le aveva detto, «tanto le balle di fieno ti coprono dalla vita in giù, non li vede nessuno». Claudia si era portata le mani una sull’altra sopra il petto, aveva inclinato la testa e battuto esageratamente le ciglia, come a dire «Mio eroe, come potrò mai ringraziarti?»

Cosı̀, mentre la troupe risolveva il problema delle luci, in piazza Santo Stefano correvano voci sulla ragazza con gli scaldamuscoli sotto il cappottino. Erano volate battute e apprezzamenti, lei aveva risposto spiritosamente, mostrato finta seducente la coscia con gli scaldamuscoli. E poi, Ricky aveva visto Bea, impegnata al trucco.

«Aspetta che vado a salutare quella ragazza» aveva detto a Claudia. «L’ho conosciuta sul set di quel filmazzo atroce, quello sull’oste psicopatico.» Claudia si era tappata il naso disgustata, al ricordo del film sull’oste psicopatico.

Ricky era corso tutto contento da Bea. Lei l’aveva riconosciuto subito, l’aveva baciato sulle guance, gli aveva tirato per scherzo i mustacchi posticci.

Bea aveva un piccolo ruolo, in quella fiction sulla Formula Uno. Era l’ordinaria e noiosa moglie del protagonista, quasi subito accantonata, però, a favore di una misteriosa e bellissima ereditiera appassionata di motori.

Claudia li aveva studiati da lontano, sgranocchiando una barretta di cioccolato ripiena di crema alle nocciole per recuperare energie. Bea era una potenziale candidata a miss Irlanda, aveva pensato. I capelli rossi. Gli occhi verdi. Le lentiggini.

L’aveva osservata a distanza, miss Irlanda, persa nei suoi pensieri, e poi, di colpo, Ricky gliel’aveva portata davanti esclamando: «Ti presento Bea!»

Claudia aveva sbattuto gli occhi un paio di volte, ripulendosi la mano appicciosa di cioccolato sul costume di scena. Si era presentata alla potenziale miss Irlanda, e la potenziale miss Irlanda aveva trillato «La ragazza con gli scaldamuscoli!», Ricky aveva sghignazzato, con la sua risata da papero raffreddato.

Si erano conosciute cosı̀, in mezzo alla piazza colorata da un sole gelato. Bea truccata da moglie ordinaria e noiosa, Claudia con gli scaldamuscoli sotto il cappottino. Con una barretta di cioccolato ripiena in mano, all’ombra delle Sette chiese di Santo Stefano.

Al tramonto erano finite le riprese, ma non quella giornata. Si erano strette amicizie e conoscenze, quel pomeriggio, era un peccato lasciarle svanire com’era sparito il bell’attore protagonista dopo l’ultimo ciak.

Claudia e Ricky avevano trascinato Bea e un piccolo drappello di comparse e costumiste fino a una vecchia osteria, avevano mangiato, avevano bevuto, avevano riso, poi qualcuno era tornato a casa, ma un piccolo gruppo era saltato sulle macchine per continuare in qualche modo la serata. Avevano puntato verso la frazione di Primo Maggio, alle porte della città, dove pareva ci fosse un pub che offriva la lettura gratuita delle carte. E dopo la lettura gratuita delle carte, a notte fonda, il gruppo si era ulteriormente assottigliato.

Erano rimasti in sei a non voler proprio andare a dormire, in sei con una sola macchina. Claudia, Ricky, Bea, due comparse che sembravano Stanlio e Ollio, uno grosso con i baffi, l’altro magro dall’aria sciocca, e un altro tizio che era stato con loro tutta la sera senza dire una parola. Che fosse una comparsa, un truccatore, o un passante che non sapeva come tirar mattina, nessuno l’aveva capito. Certe cose non avevano importanza, in serate come quelle.

Erano rimasti per un po’ fuori dal pub a chiacchierare e a valutare possibili destinazioni, discoteche, birrerie, poi Bea aveva schioccato le dita.

«Vi porto alla casa stregata!» aveva esclamato. «Vi porto alla casa stregata!»

L’idea era stata accolta con un entusiasmo senza precedenti. Nessuno aveva chiesto dettagli, tutti già troppo ubriachi per fare domande. Erano saltati tutti e sei sulla macchina di Bea, Claudia in braccio a Ricky, sul sedile posteriore accanto a Stanlio e Ollio, l’intruso muto sul sedile del passeggero.

Bea aveva guidato fuori dalla zona industriale, aveva aggirato una piccola stazione di periferia, era sbucata in una stradina tortuosa di campagna. Avevano percorso qualche chilometro in mezzo ai campi, fino a quando, di colpo, non si erano trovati nella terra di nessuno.

L’illuminazione pubblica era scomparsa dopo una curva, sostituita da un muro di tenebra. La luce gialla, sostituita da una sottile nebbiolina che inghiottiva l’asfalto.

«Vi faccio vedere una cosa incredibile» aveva detto Bea, con gli occhi spiritati. Aveva proseguito per un centinaio di metri nella nebbiolina color crema, e dopo un’altra curva la macchina era riemersa nel mondo. C’erano di nuovo le luci gialle, l’aria limpida, la riga bianca dell’asfalto.

Era tornata indietro con una brusca inversione, le ruote posteriori a stridere sul ciglio di un campo. E si era rituffata nel buio e nella nebbia.

«Indovinate dov’è la casa stregata» aveva sogghignato.

Claudia e Ricky si erano scambiati una rapida occhiata, lui le aveva sussurrato all’orecchio «È carina ma è matta come un cavallo!», lei aveva approvato con un cenno del capo, d’accordo su entrambi i punti. Poi Bea aveva accostato, radente a un muretto ai due lati di un enorme cancello.

«È qui!» aveva detto, abbassando sapientemente la voce. Aveva puntato i fari contro il cancello.

Dietro, tra la nebbia e la campagna, in mezzo agli alberi, sorgeva una villa abbandonata.

Erano scesi dall’auto per guardare la villa, le facce infilate tra le sbarre del cancello. Bea aveva iniziato a parlare. La nebbiolina saliva in piccole gocce sotto la giacchetta di Claudia.

«Questa è la casa stregata» aveva sussurrato Bea. «È stata costruita sui resti di una villa precedente. Distrutta da un incendio.»

«L’ho già sentita» aveva riso Claudia. «Sam Raimi, no?», ma Bea l’aveva ignorata: «Il proprietario della prima villa, sapete, una notte ha trovato sua moglie e suo fratello nel fienile, in atteggiamenti ben chiari, capite. Non si è fatto vedere né sentire. Ha preso un fucile, è tornato nel fienile, e ha sparato tra le gambe del fratello. Poi, mentre la moglie strillava bagnata dal sangue del suo amante, ha sparato tra le gambe pure a lei. Li ha trascinati nella villa, sanguinanti e mezzi morti, li ha legati insieme sul pavimento del salone, faccia contro faccia, ferita contro ferita. Dopo è salito al piano di sopra, ha chiuso a chiave la stanza in cui dormivano i bambini. Ha dato fuoco alla villa. E alla fine, è tornato nel salone, si è versato da bere e ha atteso la morte.»

Claudia stava per fare un’altra battuta, ma le si era smorzata in gola. C’era qualcosa di magnetico in quella casa. Di ipnotico e attraente come gli occhi del cobra.

Aveva guardato di nuovo tra le sbarre.

C’era un fascio di rose, ai piedi del cancello. Un fascio di rose, gettato tra le erbacce.

E la luce della luna, filtrata dalla nebbia, disegnava strane ombre sul portone della casa. Non semplici ombre di alberi.

Sembravano formare una grande croce nera.

Bea aveva continuato il suo racconto, come una guida turistica da gite horror. «La seconda villa è stata costruita sulle ceneri della precedente, da un ricco proprietario terriero. Sono venuti a vivere qua a inizio secolo, lui e sua moglie. E proprio in questa casa è nata la bambina.» Aveva fatto una pausa a effetto. In attesa che qualcuno, nella fattispecie Ricky, chiedesse: «Quale bambina?»

«La bambina che vedeva il futuro» aveva risposto, sorniona. Aveva guardato tutto il suo pubblico, a uno a uno, Claudia, Ricky, Stanlio e Ollio, lo sconosciuto. «Che prevedeva eventi che puntualmente accadevano, a pochi giorni di distanza. Che recitava poesie in greco e latino, senza aver mai studiato greco e latino. Che giurava e spergiurava sull’esistenza di un bambino sotto il suo letto, di averci parlato, di averci fatto amicizia, con quel bambino.»

«Già» aveva nuovamente scherzato Claudia. «Nicole Kidman, no?
The Others
.» Nessuno aveva riso. L’idea di
ridere
, il solo concetto sembrava totalmente alieno a quel luogo, a quella casa. Bea aveva proseguito il suo racconto, precisa e forbita come una guida turistica.

«Ora, voi capite: per una famiglia bigotta e superstiziosa di inizio secolo, certi fatti sovrannaturali non potevano essere altro che l’opera del demonio. E allora, il padre della bambina l’aveva murata viva. L’aveva murata nella sua stanza.»

«Cazzo!» aveva esclamato uno tra Stanlio e Ollio, uno dei due.

Bea aveva indicato una finestra, quella maggiormente rischiarata dalla luce della luna.

«Quella era la stanza della bambina» aveva detto. «Il padre ci aveva inchiodato delle assi di legno per impedirle di saltare giù, ma ora le assi non ci sono più. Lei è morta lı̀, dietro il muro, a pochi centimetri di distanza dai suoi genitori. Ma, dentro la casa, si può ancora sentirla piangere o chiedere aiuto. Qualcuno giura di averla vista giocare a palla nei corridoi bui. Entriamo?»

E aveva fissato tutti negli occhi, scrutando le reazioni a quella proposta a bruciapelo.

Claudia aveva sentito le ginocchia tramutarsi in latte. Non l’aveva dato a vedere. Finta pragmatica, aveva studiato il cancello e il muro intorno alla villa.

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