Authors: Gianluca Morozzi
«Croce» sceglie Tomas. Anche lui si è arreso al caldo; si è sfilato la maglietta di Springsteen e la sta usando per asciugarsi il sudore sul collo e sul torso nudo.
Claudia sta bruciando, si scioglie, ma non è arrivata al punto di togliersi la divisa del bar. Già sente addosso il peso viscido degli sguardi di Ferro, le manca solo di restare in mutandine e reggiseno e offrirgli terreno fertile ulteriore. Per quanto il reggiseno nero e le mutandine sbrindellate bianche - lei non perde mai tempo a coordinare l’intimo quando ha solo la prospettiva di una schifosa giornata al bar da far passare in fretta -, l’uno e le altre provenienti dalle ceste dei grandi magazzini, siano quanto di meno eccitante Claudia possa concepire. Anche per la testa malata di uno come Ferro. Quindi sopporta il caldo e maledice la divisa da pornobarista, mentre la carta vetrata continua a grattugiarle i nervi. Dietro la nuca, e giù per il collo.
Quando Tomas fa la sua scelta, Ferro sorride come Jack Nicholson nei panni del Joker. Strizza l’occhio a Claudia, lancia la moneta. La segue con gli occhi mentre rotea nell’aria, sfiora il cielino d’acciaio bianco, ricade nel palmo. Ferro la stringe nel pugno. Apre le dita. Ghigna.
«Testa» declama. «Tredici a zero. Per me.»
«Sta barando» lo accusa Claudia.
«Non sto barando. Io lancio la moneta, lei ricade. Abbiamo stabilito che nelle monete da un euro
questa
è la testa e
questa
è la croce, anche se con le vecchie e care cento lire si giocava molto meglio, secondo me, comunque, abbiamo deciso arbitrariamente che questa faccia qui è la testa e quest’altra con l’omino di Michelangelo o di Leonardo da Vinci o di chi cazzo è, la faccia con l’omino a quattro braccia è la croce. Stabilite queste regole essenziali, ho vinto tredici volte su tredici. Nessun trucco. Può uscire testa, o può uscire croce.»
«Ma non
sempre
testa» obietta Tomas. «È statistico.»
«Vuoi provare a lanciare tu, giovane fanciullo? Eccoti qua il mio euro. Non farlo scivolare da quelle manine sudate.»
«Non ho le mani sudate. Testa o croce?»
«Testa. Mi porta fortuna.»
Tomas lancia la moneta. La guarda librarsi più in alto della targhetta, fermarsi all’apice della sua parabola, richiamata dalla forza di gravità, ricadere nel palmo della mano. Spalanca gli occhi incredulo.
«Testa» mormora. «Non è possibile. Davvero. Non è possibile. »
Ferro sghignazza. «Quattordici a zero. Dovremmo cominciare a giocarci dei soldi.»
«Non è veramente possibile» dice Tomas restituendo la moneta al suo proprietario. «È statistica. La statistica non è un’opinione.»
«Senti, senti, giovane fanciullo, io di statistica non ne so un granché, ma ho idea che le leggi della statistica siano andate un po’ a mungere. Guardate noi tre.»
Claudia aggrotta la fronte. «Non la seguo.»
«Be’, non siamo un’aberrazione statistica, noi tre? Siete stati in giro per la città oggi pomeriggio? Non c’è
nessuno
, nessuno, proprio. Oggi pomeriggio avrei potuto lasciare la macchina in mezzo alla strada, sdraiarmi sull’asfalto bollente, fare un sonnellino sotto il sole, e non sarebbe passato nessuno perché, semplicemente, non c’era
nessuno
.» Abbassa il tono, diventa calmo, suadente. «E poi, improvvisamente, in questo deserto spuntiamo noi tre. Nello stesso palazzo. E nello stesso momento. Quante volte in vita vostra vi è capitato di trovarvi in ascensore con
due
sconosciuti? Con
uno
sconosciuto è normale, okay, ma
due
? Ed è successo proprio oggi, con la città vuota, dai, sarà mica normale. Qui ci sono all’opera delle forze primordiali.» Accarezza convinto la sua monetina. «Per questo dico che potrei lanciare il mio euro altre quattrocento volte, e uscirebbe testa per quattrocento volte. I flussi probabilistici oggi sono tutti aggrovigliati.»
Claudia borbotta un «Bah!» quasi inudibile, fa un gesto con la mano come per scacciare una zanzara. È Tomas a cambiare discorso, domanda: «Da quanto tempo siamo qua dentro?»
Ferro guarda l’orologio. «Un’ora e mezzo.»
Tomas geme, impercettibilmente.
Le sei e mezzo.
Mi tocca andare in stazione in vespa, cazzo. Devo lasciare la vespa fuori dalla stazione, sotto il sole, vittima potenziale di qualunque ladro. Mi piange il cuore solo all’idea.
A meno che non si esca di qua subito, adesso. Se l’ascensore riparte subito ce la posso fare, lascio perdere il maglione, schizzo fuori come la pallina di una cerbottana, arrivo in stazione anche a piedi. Al massimo confido in un autobus superstite. In tempo per saltare sul treno delle otto.
Se l’ascensore riparte
adesso
. Ora, in questo istante.
Se usciamo subito di qui.
Cazzo.
Cazzo.
Nessuno aggiusta quelle cazzo di centraline?
Quanto cazzo ci vuole a riparare un guasto?
Nessuno aggiusta quelle cazzo di centraline?
Claudia di colpo si riscuote, scatta in piedi, le ginocchia che scricchiolano dolorosamente. È stata folgorata da un’idea assolutamente logica, assolutamente ovvia. «E se tentassimo di uscire da
sopra
?»
Tomas la guarda speranzoso. «Dici che si può? Ci possiamo riuscire?»
«Come no» lo stronca Ferro, giocando con la monetina da un euro. «Hai un trapano elettrico per sfondare il tettuccio? Un martello pneumatico? Oppure pensi di trasformarti nell’Incredibile Hulk davanti ai nostri occhi sconcertati?»
«No, no, ha ragione Claudia, l’ho visto fare in un film con Bruce Willis! Possiamo uscire da lı̀ e poi arrampicarci nel vano, lungo i cavi, fino alle porte di piano. Possiamo aprirle dall’interno.»
Ferro sghignazza, lancia di nuovo la monetina. «Giovane fanciullo, stai calmo. Io non son mica più giovane, che mi arrampico su per dei cavi come Spiderman.»
«Non importa arrampicarsi lungo i cavi!» insiste Claudia. «Le porte di piano devono essere vicinissime, devono essere proprio qui sopra! Basterebbe uscire dall’alto, mettersi in piedi sopra la cabina. Possiamo aprirle dall’interno.»
«Ascolta, l’hai guardata bene la cabina? È un corpo unico, il tettuccio, o come cacchio si chiama, è saldato alle pareti. Come pensi di sfondarlo, il tettuccio? A mani nude?»
Claudia gli conficca gli occhi negli occhi. «Be’, non provarci nemmeno, sinceramente, mi pare proprio stupido», e Tomas annuisce freneticamente per darle ragione. «Visto che i soccorsi mi pare tardino parecchio ad arrivare, dobbiamo aiutarci da noi.»
Ferro sospira. Rimette in tasca la moneta che tintinna lieve sul coltello a serramanico, sbuffa poco convinto: «E proviamoci, allora».
Tomas si alza in punta di piedi, protende le braccia verso l’alto, tese al massimo. Le sue dita non sfiorano il cielino bianco nemmeno remotamente.
«Un punto d’appoggio» mormora. «Non ci arrivo. Mi serve un punto d’appoggio.»
Ferro scuote la testa ma collabora, si curva un po’ in avanti e congiunge le mani, offrendole come appoggio alle scarpe da basket del ragazzo. Tomas monta su quell’improvvisato scalino, cerca un equilibrio, barcolla. Si mette in piedi. Claudia lo aiuta, lo sostiene tenendolo per i fianchi.
Tomas tocca l’acciaio sopra di loro, incolla i palmi su quella superficie liscia e incomincia a spingere. Ferro ansima, da sotto: «Forza, cazzo, forza, non ho più vent’anni, cazzo. Non posso mica tenerti su tutto il giorno».
Tomas lo ignora. È concentrato. Muove le mani come un ragno sull’acciaio.
Preme, lascia, soppesa, valuta. Cerca un punto più cedevole di altri, con sensibilità da scassinatore. Colpisce il cielino con un pugno, studia il suono prodotto, le vibrazioni. Sferra un altro pugno, qualche centimetro più in là.
«Spostatemi verso la parete» ordina, teso allo spasimo.
«Eh certo, cazzo» si lamenta Ferro «cosa siamo, un montacarichi? » ma obbedisce alla richiesta del ragazzo, improvvisamente diventato il punto focale della situazione, la speranza di libertà per tutti loro.
Si spostano di qualche centimetro verso il fondo della cabina, Ferro con le mani sotto le scarpe di Tomas, Claudia a far presa sui suoi fianchi sudati. Il torso nudo di Tomas aderisce alla parete, le sue dita s’insinuano nell’intersezione tra le facce del parallelepipedo che li imprigiona. Cerca un’imperfezione nella saldatura, un punto debole. Non lo trova.
La cabina è un corpo unico.
Inattaccabile.
Tomas freme di frustrazione. Tenta un’ultima ribellione contro la spietata concretezza della gabbia, una spinta brutale dal basso verso l’alto. Schiaccia le scarpe contro le mani di Ferro, spinge di pura forza, di pura rabbia, i denti stretti e gli occhi chiusi.
È come sfondare il tettuccio di un’auto dall’interno, con la sola forza delle braccia. Il metallo vince spietato sulla carne, inevitabilmente.
«Cazzo» sibila. «Niente. Niente di niente di niente.»
«Te l’avevo detto» sbotta Ferro. Fa scendere il ragazzo, poi si lascia cadere teatralmente accanto alla camicia nell’angolo.
Per un po’ c’è solo silenzio, spezzato dal respiro affaticato di Ferro e Tomas e dal borbottio rabbioso di Claudia, che fissa il cielino senza riuscire a rassegnarsi. Quella lastra di metallo, quella semplice lastra di metallo che li trattiene, li imprigiona, che congela le loro vite. Una semplice lastra di metallo.
Controllano ancora una volta i cellulari, fissi sull’interminabile ricerca di rete, e alla fine Ferro sentenzia: «Questo non è un semplice blackout».
Claudia lo guarda torva. «In che senso?»
«Che dura da troppo tempo. E poi l’allarme muto, e i cellulari inservibili, dai, affrontiamo la realtà. Qui siamo nel mezzo di un’invasione aliena.»
Claudia ridacchia. «Certo. Come no.»
«O un attacco degli estremisti islamici. Qualcosa di più raffinato di due aerei contro le torri, una bomba elettromagnetica, tipo. Una bomba elettromagnetica spiegherebbe il blackout, l’allarme muto, i cellulari che non funzionano.»
«Mi pare improbabile» sussurra Tomas, con un brivido. Ferro ripesca la monetina dalla tasca, la rigira tra i polpastrelli, la studia con attenzione.
«In verità, sono combattuto tra l’ipotesi degli estremisti islamici e quella dell’invasione aliena. Ognuna, se ci ragioniamo, ha indizi a favore e indizi contrari.»
«Basta» protesta Claudia. «Non è il caso di cominciare a terrorizzarci a vicenda.» Ferro la ignora.
«Analizziamo l’ipotesi degli estremisti islamici, allora. Immaginiamo un attacco combinato in due fasi distinte. Prima la bomba elettromagnetica, che alle 17:03 paralizza tutta la città, o tutta l’Italia, o l’intero mondo occidentale, noi questo non lo possiamo sapere. L’ascensore si ferma, i cellulari diventano pezzi di plastica e ferro, l’allarme un pulsante muto, giusto? Okay. E a questa prima fase dell’attacco segue la seconda, la bomba batteriologica. Là fuori, ragazzi, là sono crepati tutti quanti. Nessuno ci ha sentiti gridare, nemmeno la vecchia gattara, nemmeno gli sposini di Woodstock, per il semplice fatto che erano tutti impegnati a rantolare sul pavimento con le mani sulla gola, i telefoni inservibili e i cellulari neutralizzati. Noi ci siamo salvati perché siamo rinchiusi qua dentro, ma se uscissimo fuori creperemmo in pochi minuti. Questa ipotesi mi pare abbastanza plausibile.»
«Basta.» Claudia si raggomitola su se stessa. «Sono stupidaggini. Basta. Siamo già abbastanza nervosi senza bisogno di inventarci spiegazioni assurde.»
«Io invece» la ignora Ferro «io sono per la teoria dell’invasione aliena. E sapete perché appoggio la teoria dell’invasione aliena? Per l’aberrazione statistica. Quella, proprio, non saprei spiegarla in altro modo. L’assurda coincidenza di noi tre contemporaneamente nell’atrio ad aspettare l’ascensore, con il secondo ascensore improvvisamente fuori servizio, be’, questa cosa non è riconducibile né alla bomba elettromagnetica né all’attacco batteriologico. Gli alieni potrebbero aver usato un’onda telepatica per ammassare la popolazione terrestre, per radunarla in branchi, in piccoli gruppi. E ora stanno mangiando, negli appartamenti, per le strade, senza fretta, mentre noi siamo qua. Nell’ascensore. Al riparo.»
«BASTA» ripete Claudia. «Sono stupidaggini. Solo stupidaggini. Basta.»
«Chi può dirlo, cocca? È arrivata l’Apocalisse, e noi sprechiamo tempo giocando a testa o croce.» Il suo sguardo striscia di nuovo sulle cosce di Claudia, stavolta laido oltre ogni dire. Poi accarezza la moneta da un euro tra l’indice e il medio, sposta lo sguardo su Tomas. «Ehi, giovane fanciullo, giochiamo? Testa o croce?»
«No. Non ne ho più voglia.»
Ferro alza le spalle. «Come vuoi.»
Tomas ha gli occhi fissi sul cielino, alla ricerca di un cedimento strutturale, di un punto debole, come se volesse sfondarlo con la forza della mente. Ha sentito l’acciaio sotto le dita, solido e invincibile, una lastra di pietra di vulcano. Inamovibile, corpo unico con le pareti.
Si sta domandando cosa accadrebbe se colpisse sempre lo stesso punto, sempre lo stesso, un pugno dopo l’altro, fino a farsi sanguinare le mani. L’acciaio potrebbe cedere, si domanda?
Non ragiona, non respira. Quel poco d’aria che respira è fuoco liquido nei suoi poveri polmoni.
Si può diventare pazzi in questo modo. È una situazione inumana.
Si può diventare pazzi, pazzi, pazzi.
Cerca di recuperare le forze, sta aspettando di aver recuperato le forze. Una volta recuperate le forze tornerà tra le porte, a bersi l’aria benedetta che sale dal vano. Una volta recuperate le forze. Quando il caldo, la sete e la claustrofobia smetteranno di prosciugarlo come stanno facendo.
Per quasi mezz’ora nessuno parla, sprofondato nella propria personale forma di attesa. L’unico suono è il tintinnio della monetina che Ferro ha ripreso a lanciare in aria, ritmico, ossessivo.
Claudia è accucciata nel suo territorio di mezzo, scomodamente seduta con la testa tra le ginocchia.
Se non la smette di guardarmi le gambe, gli spacco la faccia.
Se non la finisce con quella monetina del cazzo, gli spacco la faccia.
Se non la pianta con le sue storielle horror, gli spacco la faccia.
Che cazzo combinano là fuori? Possibile che nessuno si sia accorto di niente?
Non sopporto più la loro puzza di sudore. La loro vicinanza. Doverli sfiorare a ogni movimento.
Non mi fido di quel porco con i basettoni. Non mi fido per niente. Il ragazzo sembra innocuo, ma del porco non mi fido per niente.
Vorrei una paglia. Ne fumo tre pacchetti, appena entro in casa. Scrivo a Bea con tre paglie in bocca. Giuro. Tre. Poi smetto di fumare, ci sono riuscita una volta, ci riuscirò anche la seconda.
Ma non adesso.
Adesso ho tutto il diritto di fumarmi tre pacchetti in fila. Devo averne ancora qualcuno in giro per casa, in fondo a un cassetto. I tabaccai sono chiusi, è domenica, è ferragosto, fuori è un deserto, solo serrande abbassate, marciapiedi asciugati dal sole, catrame che ribolle, niente negozi, niente persone.
Devo avere ancora qualche pacchetto, in fondo a qualche cassetto.
Cazzo. Vorrei poter distendere le gambe.
Cazzo. Cazzo.
Claudia sta accucciata nel suo territorio. La faccia in mezzo alle ginocchia.