Authors: Gianluca Morozzi
Per cui si sforza di sorridere a quella penosa battuta delle urine.
Ed è uno sbaglio.
Perché Ferro interpreta quel lieve sorriso come un tacito incoraggiamento. Incalza, gasato: «Al massimo ognuno beve le urine dell’altro, però vi avviso: io in vita mia, ho fatto di tutto e provato di tutto. Mi capite? Di tutto. Non garantisco sulla purezza di quel che sgorga dal mio corpo».
Tomas contorce la faccia disgustato, Claudia commenta, paziente: «Non credo ci sarà bisogno di sperimentare. Ci tireranno fuori molto prima di dover bere le nostre urine».
«Certo, certo» ride Ferro. «Molto prima di pisciarci in bocca l’un con l’altro, scusate il linguaggio, ah, ragazzi, nel caso invece dovessimo mangiarci a vicenda... sapete, come in quel film dell’aereo nelle Ande, siate buoni con me. Ho la pelle dura e piena di sostanze tossiche, mi sa che sono indigeribile e fibroso, non mangiatemi, dai. Anche se te, giovane virgulto, sei un po’ troppo magrino per riempirci lo stomaco. E la galanteria ci vieta categoricamente di mangiare una ragazza cosı̀ carina.»
«Grazie» fa lei, distogliendo lo sguardo. «Ora mi sento rinfrancata. Veramente, veramente rinfrancata.»
Ferro ha gli occhi che brillano. Ha preso il comando delle operazioni, e per quanto la situazione sia assurda, be’, è comunque sotto il suo controllo. Li ha tutti in pugno come se fosse al Pink Cadillac in una normale serata di danze nella schiuma, col fanclub abbarbicato al bancone del bar a bersi ogni sua parola. E allora si comporta come al bancone del bar. Racconta aneddoti. Tiene desta la platea.
«A proposito di mangiarsi a vicenda, l’avete letta la storia del cannibale di Berlino? Quello che aveva messo l’annuncio su internet?»
«Mi pare» dice Claudia.
«Be’, se non la sapete ve la racconto io. Questo cannibale ha messo un annuncio su internet. Cercava qualcuno disposto a farsi mangiare da lui, qualcuno pienamente consenziente, capite? E un demente gli ha risposto, è incredibile ma gli ha risposto. Ha detto ’Sı̀, va bene, mi interessa, sono disposto a farmi mangiare da te’ oh, il cannibale non è stato mica contento. Ha voluto una foto del demente completamente nudo, voleva essere sicuro che gli piacesse quello che stava per mangiare, capite? E poi gli ha fatto firmare una dichiarazione di pieno consenso, tipo ’Io sottoscritto sono disposto a farmi mangiare, eccetera, eccetera’. Alla fine si sono incontrati. Si sono dati appuntamento a casa del cannibale.»
Tomas spalanca gli occhi. «Lo ha mangiato?»
Ferro tira rumorosamente su col naso. «Prima si sono ubriacati. Poi hanno preso delle droghe. Non mi ricordo se hanno anche scopato, credo di sı̀. Insomma, alla fine il cannibale ha castrato il demente con un coltello da cucina. E il demente, faccio notare, era sveglio, cosciente e consenziente.»
«Vabbè, basta cosı̀, direi» protesta Claudia. Ferro la ignora, continua.
«Non è mica finita. Dopo la castrazione il cannibale ha messo il pisello tagliato in una padella. Lo ha bollito. E lo hanno mangiato. Insieme. Giuro.»
«È impossibile» osserva Claudia. «Un uomo che è stato appena castrato, dopo non rimane mica cosciente.»
«Eh, infatti» fa eco Tomas. «C’è il dolore, e la perdita di sangue. Impossibile.»
Ferro glissa sullo scetticismo di Claudia. Irride solo Tomas per la sua blanda protesta, lo sferza: «Che ne sai, te? Ci sono delle tecniche precise, sai? I medici di Atlantide riuscivano a tenere in vita un uomo per giorni e giorni, anche dopo averlo svuotato degli intestini, anche dopo averlo ridotto a un tronco. Ci sono dei libri antichi sulla Santa Inquisizione, su quel che succedeva nella Torre di Londra, illustrano un soggetto senza più gli occhi, senza la lingua, senza più braccia né gambe, con un buco al posto della pancia, eppure ancora vivo e lucido. Ci sono mille modi per tenere cosciente una persona anche dopo averla ridotta a frattaglie» e si ferma, prima di lasciarsi trascinare dall’entusiasmo e mostrarsi un po’ troppo esperto sull’argomento.
Claudia lo guarda perplessa, sconcertata da quella tirata sulla tortura.
Merda. Sarebbe perfetto in un film horror di serie Z, nella parte del caposcout che racconta storie di fantasmi in mezzo al bosco. Con la torcia elettrica puntata in faccia, e i ragazzini terrorizzati intorno al falò.
Un attimo prima che il mostro esca dal buio e li divori tutti, uno dopo l’altro
.
«Ma è vera questa storia?» domanda scettica, alla fine.
«È vera sı̀. Il cannibale ha ripreso tutto, gli agenti che hanno visionato il filmato hanno vomitato per un giorno intero, comunque: alla fine il cannibale ha sgozzato il tizio, lo ha tagliato a pezzi, ha buttato via le parti fibrose e immangiabili, e ha iniziato a banchettare con il resto. Poco per volta. Ha conservato i pezzi nel congelatore, e...»
«Si può parlare d’altro?» lo stoppa Claudia. «Del fatto che qui non si respira più, che manca l’aria, per esempio?»
«Tutto qua?» minimizza Ferro. «Passami la chiave, giovane fanciullo. Quella grossa, quella che hai usato prima.»
Tomas gli consegna meccanicamente la chiave della cantina. Ferro la incunea tra le porte, riapre il varco aiutandosi con la punta dello stivale.
«Vuole una mano?» si offre Tomas.
«Noo, bimbo, stai comodo e goditi lo spettacolo. Figurati se non riesco ad aprire due porte.»
Ferro sta dissimulando uno sforzo tremendo, in realtà. Le maledette porte d’acciaio sembrano non volersi separare, premono come due presse contro i suoi muscoli, cercano di ricongiungersi con forza disumana. Ma Ferro non può apparire debole agli occhi di Claudia. Proprio non può.
E allora respira a fondo, come in palestra sotto un pesante bilanciere, e con l’ultimo strappo apre trionfalmente le porte.
«Ecco qua» ansima, impercettibilmente. «Adesso si respira. Mica aria di montagna, ma è già qualcosa.» Tiene aperte le porte con le braccia e con la schiena. Claudia e Tomas si avvicinano più possibile, respirano un po’ di quell’ossigeno vergine filtrato negli otto centimetri tra la cabina e la parete del vano.
«Proviamo a gridare di nuovo?» propone il ragazzo.
Ferro approva con un cenno del capo. Comincia a contare. «Uno. Due. Tre.»
Al tre gridano.
Poi gridano di nuovo.
Poi riprovano a suonare l’allarme.
Poi controllano i cellulari, ancora e sempre morti e inutilizzabili.
Ferro sforza allo spasimo i muscoli delle braccia, in piedi, la testa piegata in avanti, un pannello a schiacciargli la spina dorsale, l’altro a mordere sui palmi delle mani. Lotta per un po’ con la pressione dell’acciaio sulla carne, e alla fine cede. Lascia che le porte si richiudano rumorosamente, e che la cabina sia di nuovo sigillata come una tomba.
Si appoggia a una parete, sforzandosi di non apparire affaticato, di non far vedere che sta ansimando.
Queste porte. Queste maledette porte.
Come cazzo funzionano, queste maledette porte?
Tutti e tre si godono l’aria nuova penetrata dall’esterno.
Nessuno parla.
Tomas ha gli occhi chiusi.
Adesso conto fino a cinque, e quando arrivo al cinque l’ascensore riparte.
Uno. Due. Tre. Quattro.
Cinque.
Al cinque apre gli occhi.
L’ascensore è ancora fermo.
Sospira.
Adesso conto fino a dieci, e quando arrivo a dieci l’ascensore riparte. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Otto. Nove.
Dieci.
Al dieci apre gli occhi. L’ascensore è ancora fermo.
Tomas si è seduto tra le porte, sul binario di scorrimento. Le tiene aperte con la schiena e col ginocchio destro.
Ha capito l’errore di Ferro, la posizione sbagliata, in piedi, con la sola forza delle braccia, e allora sta opponendo tutto il corpo alla pressione. Ha la testa otto centimetri fuori dalla cabina, la tempia appoggiata alla parete in cemento del vano. Respira quell’aria grigia e malata come l’alito di un moribondo.
«’Sta storia delle porte continuo a non capirla» insiste Ferro, ancora una volta. «Dovrebbero stare aperte, le porte», e nel sentirlo ripetere la solita litania sulle porte a molla e le porte che dovrebbero stare aperte, Claudia non ce la fa più a fingersi conciliante. Ferro la rende furiosa, veramente furiosa. A pelle. Di puro istinto. Sta respirando il suo odore da troppo vicino, e il suo odore le fa rizzare i peli sulla nuca, le conficca piccoli spilli striscianti sulla schiena. Si sta scoprendo a reagire come un animale che capta un odore nemico.
«Pensavo di avere una figlia e invece ho un cagnolino», la prendeva in giro sua madre quando Claudia si sedeva a tavola e annusava d’istinto quel che c’era nel piatto. Rideva: «Gesù, Claudia, cosa vuoi che sia, è una bistecca, mica cibo per gatti! »
L’odore di Ferro è una grattugia, una grattugia sui suoi nervi. Quel profumo dolciastro a coprire il sudore, e quell’altra cosa, quella che sta sotto. Fredda. Estranea. Aliena.
Cosı̀ sbotta, con voce tremante, rabbiosa: «Senta, mi scusi, sa, ma lei è un esperto di ascensori? Lei sa esattamente come funziona, una fotocellula? Perché mi sembra molto preparato sull’argomento». Cerca di mitigare l’ironia nella voce. Ci riesce solo in parte.
Ferro la scruta cupo, sulla difensiva. Si gratta il mento, risponde. «Guardi,
signorina
, io non so assolutamente niente di ascensori, non mi è mai fregato assolutamente niente di sapere qualcosa di ascensori, so che salgono, che scendono, basta. Seguo la logica, dico solo: se c’è corrente, le porte non si possono aprire a mano. Se non c’è corrente, be’, non dovrebbero richiudersi automaticamente come invece fanno. E comunque, giovane fanciullo» ridacchia, «prega che l’ascensore non riparta adesso, di colpo. Che altrimenti ti ritrovi metà dentro la cabina e metà nel vano.»
«Grazie della prospettiva. Qualcuno sa che ore sono?»
«Dieci minuti alle sei» risponde Claudia.
«Hai qualche impegno, giovane fanciullo? Fretta di uscire? »
«Sı̀. Devo incontrare una persona alla stazione di Parma. Il mio treno parte alle otto» e non dice altro, che non si sa mai. I suoi genitori abitano in quello stesso palazzo, e non conviene rivelare troppe cose ai vicini di casa. Non si sa mai. Meglio star vaghi.
«Saremo fuori di qui molto prima delle otto» lo rassicura Claudia. «Questo è scontato.»
Ferro ride, ammicca di nuovo al ragazzo tra le porte. «C’hai la fidanzatina, a Parma? Anch’io ne ho avute un paio a Parma, spiegaglielo alla tua fidanzatina, che le hai dato buca perché eri chiuso in ascensore. Certe mie ragazze si sono bevute scuse peggiori. Roba che John Belushi era un dilettante, giuro.»
Claudia serra le labbra in una smorfia contratta. Adesso le dà fastidio anche solo sentirlo parlare, Ferro. Ricaccia indietro reazioni violente, incontrollate, cosı̀ rabbiose e primordiali che le fanno paura. Non ha mai provato una cosı̀ forte ripugnanza per una persona.
È la situazione
,
è la vicinanza, senz’aria, senz’acqua, il caldo, la sete. Non è niente di più. Niente di più.
A parte quell’odore.
Lucido di scarpe su caffè tostato.
Quell’odore alieno.
«Certo che è strano» sibila, cercando di dominarsi. «Gli abitanti di questo palazzo li conosco tutti, quantomeno di vista. Li ho incrociati tutti, almeno una volta. Tutti, tranne lei.»
Ferro si irrigidisce. «Be’? Questo che vorrebbe dire?» «Niente. Solo, è bizzarro conoscersi in questo modo. È bizzarro, no?»
«Per forza non ci siamo mai visti. Io in casa non ci sto mai, qui c’è il mio appartamento» sta per dire
da scapolo
, ma si arresta per tempo, si corregge al volo, «c’è il mio appartamento al ventesimo piano, ma io non ci sto mai. Sono sempre in giro per locali o all’estero, non sono fatto per la vita stanziale. Mi piace girare il mondo, sapete, Londra, Amsterdam, Parigi...»
Tomas si illumina. «Ha delle conoscenze in quei posti? Amsterdam, voglio dire, Londra...?»
«Delle conoscenze? Io conosco tutti, a Londra, a Parigi, ad Amsterdam. Figurati se non ho delle conoscenze. Conosco tutti.»
«Tutti» ironizza Claudia, inascoltata. «Certo. Come no. A Londra, a Parigi. Proprio tutti. Naturale.»
«È per un viaggio» spiega Tomas. «Un viaggio in Europa. Se qualcuno potesse ospitare me e la mia amica...»
«Ah, la fidanzatina di Parma!» gongola Ferro. «Non sia mai detto che Aldo Ferro ostacola i giovani cuori, l’amore è una cosa meravigliosa! Appena usciamo di qua faccio un paio di telefonate, ti sistemo in giro per l’Europa, ti piazzo dove vuoi. Qualunque cosa per agevolare una giovane coppia, vero, signorina?» e strizza l’occhio a Claudia.
Signorina? Ancora? Come cazzo parli?
Stai nel tuo mezzo metro.
Viscido.
«Non è la mia fidanzata» balbetta Tomas, rosso in viso. «La ragazza di Parma, dico. È solo un’amica.» Non si fida, Tomas. Claudia non ha l’aria della vicina di casa impicciona, non se la vede a fare la spia con i suoi genitori: «So io dov’è vostro figlio! È in Olanda con una ragazza di Parma! Avevano appuntamento a Parma la domenica di ferragosto! Me lo ha confidato quando siamo rimasti chiusi in ascensore!»
No, Claudia non sembra tipo da tradirlo, d’accordo, e Ferro, be’, Ferro nel palazzo pare che non ci sia mai. Però, insomma, meno si sa della sua fuga, meglio è.
La pressione delle porte si sta facendo insostenibile. Tomas cerca di aiutarsi con la gamba sinistra, ma ormai ha le ginocchia schiacciate contro il mento, non riesce più a opporsi a quei mostri d’acciaio. Qualche secondo ancora, e rotola in cabina lasciando che le porte si richiudano di nuovo.
«Scusate» si giustifica. «Non ce la facevo più.»
«Non preoccuparti» lo consola Claudia. «Appena comincia a mancare l’aria, in mezzo alle porte mi ci metto io.»
«Non sia mai detto, signorina» interviene Ferro. «Non permetteremo mai che una ragazza cosı̀ carina debba subire la pressione di queste due volgari porte. Io e il giovane innamorato qui presente» strizza l’occhio a Tomas «ci divideremo equamente il compito.»
Claudia alza appena un angolo della bocca.
Fa il galante, adesso, il porco. Cerca di farsi perdonare i commenti di prima.
Come se non l’avessi notata l’esitazione nella sua voce, quando ha parlato del suo appartamento. L’ho sentita l’esitazione nella sua voce, cosa crede?
Secondo me ci porta le ucraine che carica sui viali, in quell’appartamento. Ci fa le orge con i suoi amici, maiali quanto lui.
Magari ci tiene un set completo di fruste e manette.
Aspettano, respirando aria calda e verde.
Poi Ferro cede a quella temperatura da fonderia. Si toglie la camicia bianca sbuffando, la sbottona svelto. Claudia, investita da un’ondata di sudore acidulo, digrigna i denti e contrae le dita finché le nocche non diventano bianche. Guarda quell’uomo intento a ripiegare la camicia, a trasferire le sigarette e lo Zippo nella tasca dei pantaloni, guarda il suo torso nudo da palestrato, i ciuffi di peli sulle spalle e sulla schiena, lo osserva mentre ripone con cura la camicia in un angolo della cabina. Poi chiude gli occhi per non vederlo.
«È buffo» dice Ferro, terminata l’operazione. «Stanotte ho fatto un sogno profetico.»
Tomas alza la testa. «Cioè?»
«Ho sognato che strisciavo in un tunnel, strisciavo sulla schiena, in mezzo a una montagna. Be’, il tunnel sbucava in mezzo a una scogliera a picco sul mare, migliaia di metri sopra il mare in burrasca, ci siete? E mentre me ne stavo lı̀ a guardare in basso, a studiare quella parete di roccia liscia, sentivo qualcosa di molliccio e schifoso arrivarmi incontro dall’altro lato del tunnel, come un verme gigantesco. Cioè, c’era una scogliera di roccia liscia da una parte, un verme gigantesco dall’altra, sembrava proprio vero, quel sogno. Sentivo benissimo l’odore dell’aria salmastra.»
«E dopo si è svegliato?» s’interessa Tomas.
«Certamente» ghigna Ferro. «Io me la sfango sempre in qualche modo, non sono mica cosı̀ stupido da farmi mangiare da un verme disgustoso. Nemmeno in sogno mi faccio fregare, io.»
Claudia lo guarda come a dire: «Ma vola basso, cretino». Ma gli dice: «E cosa ci sarebbe di buffo, in questo sogno? Tanto per capire».
Ferro pensa: «Sta alzando un po’ troppo la cresta, la ragazzina, con quei toni sarcastici del cazzo», ma non si scompone. «La situazione claustrofobica. Dentro il tunnel, con tutti questi chilometri di montagna sulla faccia, la roccia a pochi centimetri dal naso. Il tunnel buio e stretto. Un po’ come noi qua dentro, no? Con la differenza che quella era una situazione senza uscita, mentre noi saremo presto fuori a ridere di tutto questo. Però, insomma, ci trovavo un parallelismo. »
Claudia sorride, scoprendo i denti. «È più buffo il mio di sogno, allora.»
«Sentiamo» la sfida Ferro.
«Ho sognato che ero nel deserto del Marocco, e tutt’intorno non c’erano che dune, sabbia e ancora sabbia. Nient’altro. Vagavo senza meta, sotto il sole a picco, senza sapere dove andare, senza una direzione.»
Ferro aggrotta la fronte. «Qual è la parte buffa?» «Che tutto quello spazio vuoto mi terrorizzava.» Comincia a ridere da sola, istericamente. «Buffo, no? Tutto quello spazio che mi terrorizzava. Lo spazio vuoto. E noi non riusciamo neanche a stendere le gambe perché siamo pressati come sardine in una scatola. A me sembra buffo. Molto.»
Nessun altro ride. Dopo un po’, smette di ridere anche lei.