Blackout (5 page)

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Authors: Gianluca Morozzi

BOOK: Blackout
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Poi, dopo un lento ma implacabile calo degli ascolti, il programma aveva chiuso.

Per un po’ il padre di Francesca aveva vissuto di rendita. Aveva riciclato Giampi Supermaxieroe nelle trasmissioni per famiglie della domenica pomeriggio, aveva provato a rilanciare il camionista narcolettico, il vigile urbano cleptomane, qualche nuovo personaggio.

Ma poi, poco a poco, le comparsate in TV si erano diradate. Le serate nei locali, i suoi spettacolini in costume viola e arancione basati sulle battute di
Fastfùd
, ridotte a zero.

Il supermaxieroe aveva cominciato a diventare nervoso e insofferente, a lamentarsi. «Come faccio a scrivere dei testi divertenti con la bambina sempre intorno» urlava in faccia alla moglie, «io sono qua che cerco di scrivere cose che facciano ridere, cazzo, come faccio a scrivere cose che facciano ridere con la bambina sempre in mezzo ai coglioni, papà di qua e papà di là, cazzo, lo vuoi capire che io devo lavorare, che un altro anno di magra come questo e la mia carriera è rovinata per sempre e sono cazzi acidissimi per me, per te, per la bambina, per la nostra bella casa, cazzo, me la vuoi portare fuori dalle palle, la bambina, me la vuoi portare fuori dalle palle, per favore, PER FAVORE, CAZZO?»

E poi c’erano stati il bere, il bere e il poker. Spesso, drammaticamente, le due cose insieme.

Fino a quella volta terribile, la fine di tutto. Al pokerino con quei tre noti comici, quelli abbonati ai film natalizi da risata grassa e senza pretese. Amici ancor prima che colleghi, li definiva il supermaxieroe.

Era tornato a casa nel cuore della notte, bianco in faccia, ubriaco. Piagnucolando «Tutto, tutto, ho perso tutto».

E i tre volti noti del cinema natalizio, a quel punto, si erano trasformati in riscossori da criminalità organizzata. Avevano iniziato a pressare il supermaxieroe, a pretendere i loro soldi, a tempestarlo di chiamate minacciose. Lui si era appellato all’antica amicizia, al momento difficile, aveva cercato di far accettare una dilazione, un pagamento a rate, ma quelli volevano i soldi, subito, tutti.

Francesca e la sua famiglia avevano dovuto trasferirsi in un condominio nel quartiere più popolare della città. E avevano dovuto trasferirsi, semplicemente, perché la loro bella casa se l’erano spartita i tre attori in parti uguali.

Francesca aveva visto un film in cassetta, una sera, in una festicciola di compleanno alla fine delle medie. I suoi compagni di scuola avevano riso a crepapelle su quel film campione d’incassi, di fronte al campionario di doppi sensi, cadute, smorfie, tormentoni dei tre noti attori.

Lei li aveva guardati, quei tre, aveva ricordato certe telefonate senza pietà, certe frasi ringhiate, «Ti facciamo spezzare i pollici», «Facciamo la festa a tua figlia». Cose cosı̀.

E i suoi amici che ridevano rossi in faccia, piegati in due, con le mani sulla pancia.

Francesca aveva raccontato che come conseguenza di quel trasloco forzato sua madre aveva avuto un esaurimento nervoso. Il primo.

La sua famiglia era diventata una bomba a orologeria. Sua madre era capace di svegliarsi nel cuore della notte per urlare insulti al supermaxieroe, di piombare in camera di Francesca alle quattro del mattino, accendere tutte le luci e strillare: «È colpa tua! è tutta colpa tua! Dovevo cagarti fuori! dovevo cagarti fuori!»

I momenti di tregua, Francesca lo sapeva, potevano essere spezzati da qualunque minimo pretesto. La lavatrice che perdeva acqua. Il microonde guasto.

Un niente, bastava. A far scattare il timer che ticchettava nascosto in quella casa.

E dopo era stato il turno di Tomas, nella gara di confidenze di quel primo incontro.

Le aveva raccontato dei suoi genitori impiegati di banca, di quella loro tirannia morbida e sorridente, del modo in cui accettavano e tolleravano tutto, i capelli lunghi, il tatuaggio, il piercing, senza il minimo problema.

Con quel loro sorrisetto new age. Con quello sguardo che significava: «Ma sı̀, sei giovane e idealista, fatti tutti i piercing che vuoi, copriti di tatuaggi, fatti crescere i capelli fino ai piedi, tanto il tuo destino ce l’hai marchiato addosso dal giorno in cui sei nato, sei destinato a diventare come noi, guarda come siamo felici, non c’è bisogno di costringerti a fare niente, non c’è bisogno di urlarti in faccia, non siamo quel tipo di genitori, tanto lo sappiamo come funzionano le cose, finirai la scuola e ti iscriverai a economia e commercio, farai colpo sulle studentesse del primo anno grazie alla tua aria genericamente alternativa, prenderai la laurea con un buon voto, non necessariamente il massimo dei voti, comunque un buon voto, farai finta di intraprendere una qualche carriera creativa, chitarrista, disegnatore di fumetti, e per mantenerti comincerai ad accettare qualche lavoro temporaneo, ma per poco, dirai, giusto il tempo di pagarmi il distorsore nuovo, e senza accorgertene ti troverai a lagnarti della sveglia la mattina e degli sbadigli la sera, al pub con gli amici, ti scoprirai incapace di rinunciare allo stipendio a fine mese, e poi accetterai il posto nella nostra banca, quella banca che ci ha dato da mangiare per tutti questi anni, la banca che ci ha aiutati a estinguere il mutuo sulla casa, ancora due anni e poi lo abbiamo estinto, il mutuo sulla casa, accetterai il posto in banca, e un direttore del personale amichevole e giovanile ti farà un discorso amichevole e giovanile, ti dirà ’Sai, in confidenza, io ho sei tatuaggi sotto questa camicia da duecentocinquanta carte, quando esco dalla banca io sono un’altra persona, salto sulla moto in jeans e maglietta e vado a ubriacarmi nei pub, solo, ti insegno il trucco, qui dentro devi travestirti, cambiare la tua esteriorità, solo quella, ma ricordati, questa camicia e questa cravatta e questi pantaloni non spostano una virgola di quello che sono, io quando esco da qua salto sulla moto, mi metto in jeans e maglietta e vado in una discoteca di Brescia a pogare l’hardcore’, e dopo parlerete di musica, tu e il giovane direttore del personale, accetterai di tagliarti i capelli e togliere il piercing, i tatuaggi mica si vedono sotto la giacca e la camicia, e dopo cinque anni ti accorgerai che la banca è la tua vita, che hai una famiglia e un mutuo da estinguere e sei felice cosı̀, sarai come noi, esattamente come noi, non vedi come siamo felici, non vedi come sorridiamo, che vibrazioni positive abbiamo?

«Quindi fatti crescere i capelli quanto vuoi, copriti di tatuaggi, riempiti di piercing. Non ti diremo niente, non ci arrabbieremo. Diventerai come noi.

«Non vedi come siamo felici?

«Non vedi come sorridiamo?»

E dopo quelle confessioni sulle rispettive famiglie, sulla panchina, al freddo, Tomas aveva accompagnato Francesca fino a casa. Si erano salutati con tre baci sulle guance. Poi aveva camminato un’ora fino alla stazione, e lı̀ aveva scoperto di aver perso l’ultimo treno per Bologna, di dover aspettare fino alle quattro del mattino.

Non se n’era nemmeno accorto, non gli era pesato, aspettare il treno fino alle quattro. Non lo preoccupava la scuola, non aveva sonno, non aveva freddo.

Pensava a Francesca. Carico, euforico, una cometa che squarciava il cielo opaco sopra la stazione.

Tomas e Francesca, dopo quel primo incontro a Parma, avevano stretto le maglie della comunicazione a distanza. Telefonate, messaggini, squilli sul cellulare, posta elettronica, erano diventati ossessivi.

Si erano incontrati altre volte, a Bologna, a Parma, a metà strada. Parlavano spesso dell’incubo nevrotico che era la famiglia di Francesca, delle dorate sabbie mobili che erano i genitori di Tomas. Qualche volta lei lo aveva salutato con un sorriso tenue, dicendo: «Ci sentiamo domani, se stanotte mia madre non mi accoltella nel sonno perché il rubinetto del bagno perde». Scherzava. In parte.

«Un giorno scappiamo via» aveva detto lui una sera di primavera, mentre si godevano l’aria finalmente tiepida al parco Ducale. «Un giorno scappiamo, dai, ce ne andiamo a Londra, ti piace Londra?»

E lei, sorridendo: «Perché non Amsterdam?»

E lui: «Andiamo a Londra poi ad Amsterdam».

E lei: «E Parigi, ci fa schifo a noi, Parigi?»

E lui: «Andiamo ad Amsterdam, a Parigi, a Londra, poi da Londra partiamo per il Messico, cerchiamo il peyote in Messico, non torniamo più, non torniamo più, un giorno, un giorno scappiamo via».

Una volta si erano confessati le rispettive fobie, sdraiati sulla spiaggia a guardare il cielo, in un mattino di scuola agilmente saltato.

Tomas aveva iniziato a parlarle dei suoi attacchi di vertigini, di quell’estate che era andato in Irlanda a imparare l’inglese, e aveva fatto un’escursione alle Cliffs of Bunglass, e solo ad avvicinarsi al ciglio di quelle scogliere a picco sul mare aveva iniziato a tremare di terrore, bianco, le gambe molli, un attacco di panico come mai aveva avuto in vita sua.

Francesca si era alzata di scatto, un gomito sulla sabbia, gli occhi spalancati.

«Oddio» aveva detto, «mi è successa la stessa cosa, la stessa identica cosa, mentre guardavo un documentario sulle scogliere.»

E allora Tomas aveva scodellato le sue teorie sulla reincarnazione. Si erano messi a fantasticare, a inventarsi una storia che giustificasse quella comune fobia per le scogliere. In un’altra vita, avevano ipotizzato sdraiati sulla spiaggia, Francesca era stata la moglie di un vecchio e ricco proprietario terriero, Tomas un affascinante pastore. Il vecchio li aveva sorpresi insieme, e li aveva fatti gettare da una scogliera.

«O meglio» aveva rilanciato Tomas, ormai preso dall’ingranaggio, «il vecchio ci ha fatti inseguire dai suoi sgherri, noi siamo scappati verso le scogliere, e con l’oceano davanti e i bastardi alle spalle abbiamo fatto come Thelma e Louise, ci siamo gettati giù, mano nella mano.»

Francesca aveva approvato, gli occhi fissi sulle nuvole. Poi si era girata a fissarlo, ironica.

«E chi ci dice che io ero la moglie del ricco proprietario terriero e tu un affascinante pastore?» aveva suggerito. «Magari in quell’altra vita
io
ero l’affascinante pastore, e
tu
la moglie del vecchio riccastro.»

«Niente in contrario» aveva accettato Tomas.

«Baldracca» aveva riso Francesca.

«Porco» aveva replicato lui.

Ormai ne era convinto, Tomas.

Nello stesso modo in cui aveva perso di vista Lisa Limone l’ultimo giorno di scuola e l’aveva ritrovata cinque anni dopo su un divanetto striato di luci stroboscopiche, cosı̀ aveva lasciato Francesca all’impatto con l’acqua, dopo un volo mano nella mano dalla scogliera, e l’aveva ritrovata dopo un imprecisato numero di cicli di vita, morte e rinascita, dietro il bancone di un pub di Parma. Con la maglietta di
Matrix
addosso, il giorno in cui suonava una cover band chiamata Red Mosquito. Non c’era altra spiegazione. Era cosı̀. Per forza.

Tomas sfreccia per le stradine che hanno nomi di presidenti, in sella alla sua mitica vespa arancione. Con in testa le parole di
Thunder Road
, che Francesca aveva trovato bellissime. Specie l’ultima frase, sottolineata ed evidenziata in giallo.

«È una città di perdenti» diceva l’ultima frase, quella che piaceva tanto a Francesca.

È una città di perdenti, e io me ne sto andando per vincere.

La vespa arancione svolta davanti al centro commerciale chiuso. Aggira un Transit blu parcheggiato mezzo sul marciapiede e mezzo in strada. Si incunea tra i due palazzi gemelli, le torri bianche che svettano sul quartiere deserto e silenzioso.

La vespetta arancione era stata un colpo di fulmine. Di quelli da primo giorno di primavera, quando Bologna si era scongelata dopo il lungo inverno e lui l’aveva vista, lı̀, abbandonata, sotto il portico di via del Borgo.

Quella mattina, anziché a scuola, si era rintanato in un negozio di strumenti usati. A rimirare certe Fender, certe Gibson, certe acustiche, tutte le chitarre bellissime che non aveva i soldi per comprare.

Tomas aveva in testa un sacco di idee, canzoni, abbozzi di testi, ritornelli scarabocchiati sui diari di scuola. Un giorno avrebbe avuto i soldi per comprarsi una Fender, una Gibson, un’acustica Takamine, avrebbe formato un gruppo di quelli seminali, devastante, leggendario.

Immaginandosi sul palco a incendiare il pubblico con i suoi riff taglienti, aveva attraversato via del Borgo. Alla jeanseria di fronte c’era un cappello a poco prezzo che aveva tutta l’aria di voler stare in testa a un aspirante prodigioso chitarrista.

E aveva visto la vespa arancione. Sotto il portico.

Due settimane dopo era tornato al negozio di strumenti usati, aveva rimirato le Fender e le Gibson, aveva attraversato la strada. La vespa arancione era sempre lı̀, nella stessa, precisa, identica posizione.

Non aveva resistito. Era entrato nella jeanseria.

Il commesso con la maglietta dei Carcass stava leggendo una rivista di grind metal, i piedi sopra la cassa, un leccalecca in bocca. «Scusa» gli aveva chiesto Tomas, «non sai mica di chi è la vespa arancione che sta qui fuori da due mesi, se il proprietario ha intenzione di venderla, per caso?»

Il commesso si era tolto dalla bocca il leccalecca mezzo consumato, aveva sghignazzato: «Due mesi? È lı̀ da un anno, quella vespa, i vigili bastardi non la cagano nemmeno più, quando vengono a multare i motorini sotto il portico fanno una strage, ma quella vespa nemmeno la guardano più, le merde umane».

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