Authors: Gianluca Morozzi
Non lo vedo ma è qua, proprio qua, davanti a me.
Ferro potrebbe liberarsi dalla debole stretta di Tomas in mille modi, anche con tutto il peso del corpo spostato su una caviglia sola e l’uragano che soffia nel timpano rotto. Sceglie il suo preferito.
Localizza il respiro del ragazzo nel buio. Tende i muscoli del collo, gli spacca il naso con una testata. Aggiungendo dolore su dolore, per le vibrazioni dell’impatto sul timpano ferito.
Meglio.
Il dolore porta rabbia.
La rabbia porta odio.
E l’odio è il combustibile che brucia, nel cuore oscuro della Maschera Rossa.
Quando sente l’osso che si frantuma al centro del suo viso, Tomas caccia un urlo spaventoso. Le sue dita lasciano la presa sui polsi di Ferro, le sue mani si congiungono a proteggere il naso spezzato.
Barcolla all’indietro, nel buio.
Ora è indifeso.
Un colpo solo
, pregusta la Maschera Rossa,
un colpo solo alla giugulare, secco, preciso. Da un orecchio all’altro orecchio.
Carica il corpo per colpire, non c’è spazio per muoversi, cazzo, non c’è spazio in quello stupido ascensore. D’istinto, sposta il peso del corpo sul piede destro.
Una fitta di dolore.
Dal piede.
Dal piede destro.
Lancinante. Dolore su dolore.
«Aaaaaargh!» mugola la cosa che era entrata in quell’ascensore come Aldo Ferro. Sferra un fendente alla cieca, sbilanciato.
Troppo vicino, comunque, per mancare il bersaglio.
Tomas urla nel buio.
La lama ha trovato la carne.
Il primo sangue è del vecchio capobranco, dai denti robusti e affilati. Il giovane maschio barcolla e cade all’indietro, sul fondo della tana. La femmina assiste nervosa alla lotta.
La Maschera Rossa accoglie il dolore. Il dolore porta all’odio, e l’odio alimenta il fuoco.
Il prossimo colpo, il prossimo colpo è dritto nel cuore.
Tomas scompare.
Non c’è più alcun residuo del sedicenne timido ed educato, del ragazzo innamorato in fuga per il Nordeuropa. Quando la lama taglia la carne tra il collo e la spalla, Tomas scappa terrorizzato in qualche posto soffice e sicuro dietro al suo cervello. Si lascia cadere, lascia il posto al puro istinto.
Cosa sta succedendo? È buio. Non vedo niente.
Di chi sono queste urla? Chi ha colpito chi?
Devo togliermi dalle porte.
Devo togliermi dalle porte.
Perché non rispondono?
I miei muscoli?
I miei nervi?
Poi, una fioca luce illumina la scena.
E mostra a Claudia quello che mai al mondo avrebbe voluto vedere.
Aldo Ferro cerca lo Zippo nella tasca. Calmo, trionfante.
In equilibrio sul piede sinistro e sulla punta del destro.
Rischiara l’interno dell’ascensore con la fiammella. Si gode lo scenario di vittoria.
E gli schizzi di sangue sulle pareti d’acciaio.
Claudia guarda Ferro in piedi davanti a lei, ghignante nella fiamma.
Come i dannati nel libro di suo nonno, l’Inferno, quello con le illustrazioni. Le tombe arrossate dalle fiamme eterne, le tinte ocra, le luci baluginanti come il riflesso di un camino.
Davanti a Ferro, Tomas è a terra come una marionetta dai fili spezzati. Ha sangue sulla faccia, sulla spalla e sul petto. Gli occhi sbarrati. Il respiro convulso.
È all’Inferno, Claudia. All’Inferno.
Ferro si piega in avanti. Appoggia il ginocchio destro sul pavimento per far riposare la caviglia, sorveglia Claudia con la coda dell’occhio. Che non tenti colpi strani.
Si avvicina a Tomas, al ragazzo che lo ha ferito con la sua ridicola chiave.
Ha mancato la giugulare di pochi centimetri. Colpa del buio e del dolore alla caviglia, non avrebbe mai e poi mai mancato il bersaglio, non fosse stato per il buio e per il dolore alla caviglia. Lo avrebbe sgozzato come un maiale, con una semplice rotazione del polso.
«Oh, be’» pensa. «C’è tutto il tempo di rimediare.»
Accarezza il pomo d’adamo di Tomas con la punta del coltello.
La pallina d’acciaio nello sterno di Claudia comincia a soffiar fuori un vento gelato. I suoi nervi sembrano ghiacciarsi, diventare tutt’uno con l’acciaio che la circonda.
È fredda come neve, adesso. Non si muove. Aspetta.
Ferro sta per affondare la lama nella carne, ma indugia.
Gli è venuta un’idea migliore.
Potrebbe lasciarlo vivo ancora un po’, il ragazzino col piercing.
E farlo giocare con la ragazza con i capelli verdi.
Dopo aver fatto ingoiare alla ragazza quelle arie da stronzetta, quegli atteggiamenti tipo
io sono una donna emancipata, non ho mica paura degli uomini
, potrebbe costringerla a fare dei giochini molto interessanti col suo amichetto. Divertendosi a guardarli.
Ha deciso.
Ritrae la lama dalla gola di Tomas, sogghigna e si gira verso Claudia.
Con lo Zippo in una mano, e il coltello nell’altra.
Umiliata dal Porco del bar.
Umiliata dal pazzo per strada.
Umiliata dall’uomo sul bus.
Quasi stuprata dal mostro sudato.
Ha respirato melma.
E ha bevuto da un cioccolatino.
Ha superato il limite della sopportazione umana, e ora Claudia non ne può più.
La pallina d’acciaio si espande con uno schiocco. Sfonda la sua cassa toracica, i suoi nervi, i suoi muscoli. Ogni sua cellula diventa d’acciaio, la schiena d’acciaio su porte d’acciaio, le gambe d’acciaio trattengono porte d’acciaio.
I suoi muscoli si contraggono, quando il mostro le si para davanti. Soffiandole addosso il suo fiato di acido fenico.
«Buongiorno, principessa» ansima Ferro, a pochi centimetri da lei. Si sorregge appoggiando un gomito alla semiporta di sinistra, il peso del corpo sul piede sinistro, il destro che tocca terra soltanto con la punta. Giocherella col coltello tra le dita della mano destra. «Non ho portato i fiori e i cioccolatini, scusami tanto. Poi è la domenica di ferragosto, i cinema son chiusi, e ci metteremmo un po’ a trovare un ristorantino a lume di candela. Spero mi perdonerai se salteremo qualche preliminare di corteggiamento.»
«Aspetta.»
«Se intanto vuoi levarti da quelle
cazzo
di porte, potrebbe essere più comodo per tutti e due. Se invece ti eccitano le robe d’acciaio, bah, nessun problema, ho visto di peggio, certe vacche che mi sono scopato si facevano appendere al soffitto come quarti di bue, per cui, se vuoi stare lı̀ in mezzo, io non ho proprio un cazzo di problema. C’è meno spazio. Ti farà più male. Tutto qua.»
«Aspetta.»
«O sei una di quelle che gode solo se lavoro un pochino di coltello? Nessunissimo problema. Dimmi da dove vuoi che si cominci, e io comincio.»
«No, voglio dire» e Claudia abbassa la voce «non c’è bisogno di farsi male. Se collaboro, magari, la cosa può essere molto più gradevole per tutti e due.»
E poggia la mano destra sulla fibbia della cintura di Ferro, proprio sotto il suo ventre nudo e sudato. Accarezza morbidamente la fibbia, trattenendo le porte con le spalle e le ginocchia.
Ferro guarda compiaciuto quelle dita sottili, improvvisamente accondiscendenti. Ridacchia: «Bene, bene, brava, bis. Sei un agnellino, sei. Perché non mi ripeti quello che hai detto prima, zoccoletta? Perché non ripeti quelle dolci parole, aspetta, vado a memoria,
imbecille
,
su e giù di mano vacci da solo
,
spruzza contro la parete
, eh? Perché non le ripeti, con quella tua piccola boccuccia? Dai. Fammele sentire. Che poi ce l’ho io, qualcosa da farti sentire».
(
Ecco ho rovinato tutto di nuovo. Il Dentista, questa frase scontata e volgare non l’avrebbe detta mai. Era lui quello bravo a parlare, io non ho imparato, cazzo.
)
Claudia lo fissa dritto negli occhi, sempre accarezzando la fibbia della cintura.
«Se vuoi che mi tolga dalle porte» dice, suadente, «allora mi tolgo dalle porte.»
Poi stringe le dita sulla fibbia.
E tira verso di sé.
Con tutta la forza che ha nel braccio.
«Sfrutta il peso del tuo avversario contro di lui» diceva il maestro di judo. Prima di intrufolarsi a sorpresa nella sua doccia per offrirsi di insaponarle la schiena.
La gamba destra di Claudia scatta come una molla, rigida e tesa.
Colpisce la caviglia sinistra di Ferro.
Disancora dal terreno il piede che sorregge il peso del suo corpo.
Mentre il braccio destro tira. Con tutta la forza che ha.
«Uh?» è il singulto che esce dalla gola di Ferro, quando sente la terra sparirgli sotto i piedi.
S’inclina in avanti come un albero tagliato, vittima dei meccanismi antichi di una leva perfetta.
Poi, Claudia rotola fuori dalle porte.
Appallottolandosi il più possibile.
Il tutto si svolge in una frazione di secondo.
Ferro agita le mani nell’aria, sbilanciato in avanti.
Claudia si raccoglie sotto la sua pancia, lontana dal binario di scorrimento.
Le porte d’acciaio, senza più il corpo della ragazza a fare da opposizione, si chiudono come una tagliola.
Ai due lati della testa di Aldo Ferro.
Un suono rimbomba nella cabina.
L’orribile
crac!
di un melone maturo, che si schianta sull’asfalto cadendo dal settimo piano di un palazzo.
Dilettante. Stupido dilettante.
Era il Dentista, quello bravo. Era lui, l’uomo d’azione. Tu sei sempre stato la copia, l’emulo. Lui non si sarebbe mai fatto fregare da una ragazza. Tu ti sei fatto fregare da una ragazza. Nemmeno in un film di serie Z ci si fa fregare da una ragazza.
Quella stupida caviglia. È tutta colpa di quella stupida caviglia.
E del timpano rotto.
Ti sei fatto fregare da una ragazza e da un bambinetto col piercing. Il Dentista non avrebbe mai fatto una figura del genere.
Rialzati, adesso. Rialzati, sposta il peso sul piede sinistro. Tu hai il coltello. Loro no. Rialzati. Basta giochini. Falli a pezzi, tutti e due.
Aspetta!
Cosa succede? L’ascensore? L’ascensore si muove? Scende?
Non capisco. È l’ascensore che sta scendendo, o sono io che mi sono liquefatto e sto colando giù per il vano come petrolio?
Guarda, guarda, siamo scesi al decimo piano, guarda chi c’è, al decimo piano, c’è Sonja, la barista leccese, abita qua, ma pensa. Ero convinto che abitasse in quell’appartamento con i poster di Ligabue e il letto a una piazza e mezzo, non mi ero mica accorto che l’appartamento stava proprio in questo palazzo, tu pensa.
Alex? Al nono piano c’è Alex?
Credevo di averlo lasciato nella baracca, Alex. Si è trascinato fin qua, legato alla sedia. Bravo. È stato proprio bravo. Mica facile, trascinarsi fin qua legato alla sedia. Con la faccia inchiodata al contrario. È stato bravo.
Il Dentista, ma tu guarda, c’è il Dentista, all’ottavo piano. Credevo fosse morto, il Dentista. Credevo fosse morto, e invece sta all’ottavo piano.