Authors: Gianluca Morozzi
«Quando capita è buffo e sorprendente» recita una vocina tra le tempie di Claudia. «Quando si straccia la pellicola e di colpo il pubblico fa Oh!, e non ci sono più trame e sottotrame né intreccio o personaggi ma solo uno schermo nero, di punto in bianco, in mezzo a un dialogo.
«Quando capita è buffo e sorprendente» recita la vocina tra le tempie di Claudia. «Quando un paio di forbici affilate taglia il corso di una vita, quando un Oh! di puro stupore segna il punto di non ritorno di un flusso logico e coerente di termometri sotto le ascelle, vaccinazioni, apparecchi ai denti, feste con le tapparelle abbassate, ginecologi, appendiciti, e quando è il tempo delle forbici non ti è servito a niente guardare a destra e sinistra prima di attraversare, fare il bagno due ore dopo aver mangiato, evitare le stradine buie, che tanto le forbici tagliano lo stesso, quando è l’ora delle forbici.
«Ricordi la vigilia di Natale?» sussurra la vocina in mezzo alle sue tempie. «Eri seduta accanto a Bea, sul sedile del passeggero, ed eravate appena uscite dalla pizzeria allegre per il vino, sotto una pioggerella fredda e dura? E la macchina ci aveva messo un po’ a ripartire ma alla fine era ripartita, sbuffando e crepitando nel gelo di fine dicembre? E avevate imboccato la tangenziale, tu con i tuoi guanti freak, la sciarpa di lana grezza, il berretto con lo stemma di Superman, e per strada non c’era nessuno, proprio nessuno, te lo ricordi, no?
«E avevate acceso la radio, c’era un vecchio pezzo degli Skiantos, e avevate iniziato a doppiare la voce di Freak Antoni in sincrono perfetto, avevate imboccato la tangenziale cantando ’Sono un ribelle mamma, vai a letto, non star sveglia nella stanza’, avevate superato la semicurva a metà rampa, una striscia d’asfalto in mezzo ai campi e alle sterpaglie, in un quartiere periferico. Avevate scorto il fumo appena uscite dalla semicurva. Due colonne di fumo in mezzo alla pioggia mista a neve. Due colonne che salivano su, nel buio.
«Ti ricordi cos’avevi pensato nel vedere quelle colonne di fumo, Claudia? ’Sterpaglie in fiamme’ avevi pensato, ’erbacce che bruciano nei campi’, questo, avevi pensato.
«Poi avevi distinto due sagome, nel buio e nella pioggia.
«E il fumo, avevi capito in una frazione di secondo, non usciva dai campi o dall’asfalto. Il fumo usciva da quelle due cose nere in mezzo alla rampa deserta. Due masse scure davanti a voi.
«Un’altra frazione di secondo, e avevi distinto chiaramente quelle cose nere. Erano due automobili tranciate a metà, senza più fari, senza più cofano, le luci sbriciolate. Invisibili, nel buio.
«Allora avevate realizzato, tu e Bea.
«Le due carcasse fumanti vi sbarravano la strada, occludevano entrambe le corsie.
«Stavate piombando agli ottanta all’ora, sull’asfalto bagnato, contro una barriera di lamiere annerite dal fuoco. Senza spazio per passare in mezzo. Ai lati, un guardrail e un salto di dieci metri giù nei campi.
«Allora avevi esalato un ’Oh!’ di puro stupore, quando avevi capito che non c’era un pertugio in cui infilarsi per evitare l’impatto. Quando il normale fluire di una giornata scandita da eventi logici e consequenziali era stato tagliato da un paio di forbici, come due carcasse invisibili sulla rampa di una tangenziale. O un ascensore che si blocca tra l’undicesimo e il dodicesimo piano.
«Bea aveva schiacciato il freno con tutte le sue forze, ricordi? Le braccia rigide sul volante.
«Non avevi chiuso gli occhi, non ancora. Eri assordata dal lamento straziante delle gomme sopra l’inferno di lamiere, cristalli e specchietti.
«Solo quando Bea aveva tentato un’ultima sterzata, quando si era messa di traverso per evitare l’impatto frontale, solo lı̀ avevi chiuso gli occhi. Un istante prima di quel sordo
Thudd!
contro la carcassa.
«Poi - rammenti? - avevi aperto gli occhi.
«La vostra auto aveva esaurito la sua spinta ma era viva, ferma ma col motore ancora acceso. Intatta, davanti alle due mezze auto nere e silenziose. Tra spirali di fumo, sotto la pioggia mista a neve, tra i campi e le sterpaglie.
«Freak Antoni che ancora cantava ’Sono un ribelle mamma’, nel silenzio più assoluto.»
Quando lo Skylark 2000 si ferma, Claudia si fa sfuggire un «Oh!» che sembra uscito dalla scatola nera di un aereo ripescato dal fondo melmoso dell’oceano.
La cabina di colpo diventa buia. Claudia barcolla per l’arresto improvviso, agita le mani nel buio, artiglia d’istinto la spalla del ragazzo con la maglietta di Bruce Springsteen. Si aggrappa, chiede scusa in un soffio.
Poi c’è una luce. Verde.
«Cazzo!» smozzica Ferro appena scoppia il buio in ascensore. D’istinto porta la mano alla tasca, dove c’è il coltello.
Lo Skylark 2000 si arresta di botto. C’è una scossa d’assestamento, una singola scossa, quasi un singulto. Ferro barcolla, allarga le braccia a cercare un appiglio che non c’è. Preme i palmi contro le pareti d’acciaio liscio.
La luce verde spazza via il buio.
Tomas ha appena ricordato dove sua madre tiene la roba invernale. Ha visualizzato il maglione in cima a un’ordinata pila di indumenti pesanti, nell’armadio della cantina. Accanto allo scatolone, quello grande, dove i suoi vecchi Dylan Dog convivono con i Tex di suo padre.
Poi c’è il sussulto della cabina. La cabina che, da un momento all’altro, si riempie di nerissimo inchiostro.
Tomas si irrigidisce. Spalanca gli occhi, nell’oscurità totale.
Un attimo dopo, la luce smeraldo dissolve l’inchiostro.
Tomas è inchiodato tra l’undicesimo e il dodicesimo piano. Con la ragazza dai capelli verdi. E il sosia di Elvis dagli stivali di serpente.
E nel momento in cui il buio lascia il posto al verde cupo, tutto inizia a muoversi velocissimo. Si assottigliano le sovrastrutture, vecchi dischi della Sun Records, Nembo Kid degli anni Cinquanta, ritornelli scarabocchiati sui diari di scuola, l’istinto corre con l’adrenalina
(
la paura di essere sepolto vivo la paura dei luoghi chiusi la paura delle cantine la paura degli sconosciuti invadono il tuo spazio respirano la tua aria il sogno del tunnel nella montagna il sogno del tunnel nella montagna la paura di essere sepolto vivo la paura di essere sepolto vivo
)
e tre persone razionali, di colpo, diventano nient’altro che vespe in un bicchiere rovesciato.
La cabina dell’ascensore smette di tremare. Tomas guarda Ferro, Ferro guarda Claudia. Claudia guarda la luce verde che esce dal diffusore in plexyglas.
Tomas si schiaccia contro una parete, come faceva da bambino. Quando dovevano fargli l’iniezione, e lui si appiattiva negli armadi o sotto i tavoli finché suo padre non lo tirava fuori urlante e scalciante. Ora, d’istinto, si sposta qualche centimetro all’indietro. Incolla la schiena alla parete d’acciaio, proprio sotto la targhetta del Pronto intervento.
«Siamo fermi» mormora incredulo.
Ferro sibila: «Nooo, ma porca di quella grandissima troia. Ma porca di quella grandissima troia porca».
Claudia si gira come una molla verso la bottoniera, cerca il tasto dell’allarme, lo schiaccia due volte. Torna a girarsi verso le due figure verdi e nere, dice: «Ho premuto il pulsante dell’allarme», Ferro commenta torvo: «Ho visto, porca di quella grandissima troia, troia porca», e tre persone in grado di snocciolare a memoria ogni singola canzone di Elvis Presley, uno dei tre, ogni serie mai esistita di Superman, un’altra dei tre, ogni parola di
Thunder Road
, il terzo dei tre, in un attimo sono diventate tre cuori che pulsano impazziti, all’erta come lupi.
Per qualche secondo aspettano in silenzio, respirando pesantemente uno sull’altro. Ognuno ha gli occhi fissi su un punto nell’aria, un punto diverso della cabina. Aspettano che l’ascensore riparta. O che qualcuno senta l’allarme e li tiri fuori da lı̀. Sono tre vespe in un bicchiere rovesciato, e il bicchiere rovesciato misura un metro e trenta per novantacinque centimetri. Si stanno mangiando l’aria l’un con l’altro, nel bicchiere rovesciato.
Ferro sputa una bestemmia. Sfila il cellulare dalla tasca, scosta brutalmente Tomas, legge la targhetta alle spalle del ragazzo, sulla targhetta c’è scritto
Questo ascensore utilizza il servizio di Pronto intervento 24 ore su 24
. Sotto, c’è un numero verde.
Ferro sta per comporre il numero. Abbassa gli occhi sul cellulare. Si blocca.
Ricerca rete
, dice il display.
Ricerca rete.
«Puttana troia» latra Ferro. «Ma porca di quella grandissima puttana.» Schiaccia pulsanti a caso sulla tastiera del cellulare, lo spegne, lo riaccende. Il display è inchiodato su
Ricerca rete
. «Funzionano i vostri?» abbaia alzando gli occhi, «i vostri cellulari?»
Claudia fruga nello zaino peruviano, cerca il Nokia arancione. Serra le labbra.
«Non c’è campo» dice, lentissimamente. «Il mio non ha campo.»
«Neanche il mio» fa eco Tomas sconsolato, davanti al suo inutilizzabile Ericcson rosso e blu. Tre cellulari su tre sono ridotti a pezzi di plastica e ferro, per qualche inspiegabile motivo, e il numero di Pronto intervento ventiquattr’ore su ventiquattro è lontano e irraggiungibile quanto la luna.
Allora Ferro si avventa come una furia sulla bottoniera. Schiaccia sei volte consecutive il pulsante di allarme, attende qualche istante, lo schiaccia per la settima volta, ruggisce: «Non si sente niente, cazzo, ma voi sentite l’allarme che suona? Non dovrebbe trillare per tutto il palazzo, non si dovrebbe sentire in tutto il palazzo, porca troia?»
«Forse siamo noi che non lo sentiamo» azzarda Tomas «noi chiusi qua dentro non lo sentiamo, ma fuori si sente benissimo.»
«È fatto apposta, cazzo» mastica amaro Ferro. «È fatto apposta per essere udibile, puttana troia. A cosa cazzo serve un allarme che non si sente, cazzo?»
Claudia ha gli occhi fissi sul display del Nokia, su quell’inspiegabile
Ricerca rete.
«Pensare che quest’ascensore l’hanno riparato la settimana scorsa, miseria boia» borbotta. «C’erano gli operai della manutenzione. Erano qua la settimana scorsa. Bel lavoro che hanno fatto.»
Ferro serra le dita intorno al cellulare. Si sente un lupo preso alla tagliola, un lupo ben deciso a liberarsi, tirando, graffiando, staccandosi la zampa a morsi, se c’è bisogno. Bestemmia sottovoce, poi ha un’intuizione.
Ricorda una cosa vista in TV, uno di quei programmi che tanto piacciono a sua moglie,
Ultimo minuto
o qualcosa del genere. Ricorda la puntata sull’ascensore, sulla coppia di sposi rimasta chiusa in ascensore.
Aspetta, concentrati, cerca di ricordare. Perché quei due sfigati erano rimasti chiusi in ascensore? Qual era la causa del guasto?
L’ossidazione?
Un pulsante poco utilizzato, giusto? Era un pulsante poco utilizzato, si era ossidato, aveva creato un falso contatto, no? I due tizi chiusi nell’ascensore avevano schiacciato proprio quel pulsante, giusto? Avevano schiacciato proprio quel tasto e l’ascensore era subito ripartito, no?
Un pulsante poco usato, un pulsante poco usato, qual è un pulsante poco usato, lo
Stop
! Lo
Stop
, cazzo!
Trionfante, preme il pulsante di Stop una, due, dieci, quindici volte. Poi altre quindici, sotto gli occhi di Tomas e Claudia. L’ascensore non si muove.
Ferro respira profondamente. Fissa la bottoniera come se volesse incendiarla con la vista calorifica.
Aspetta
,
stai calmo, ripensa a quel programma, aspetta, cerca di ricordare. C’era l’esperto in studio, Gloria aveva fatto un commento sulla sua ridicola barba, cerca di ricordare. L’esperto dava consigli sulle cose da fare in caso di intrappolamento in ascensore, diceva di premere un pulsante di piano, un pulsante estremo, il piano terra o l’ultimo piano. C’era un motivo tecnico. Non ricordo quale. Chissenefrega
.
E allora schiaccia dieci volte il pulsante del piano terra.
Poi dieci volte quello del ventesimo.
L’ascensore non si muove.
Ferro perde la pazienza. Sferra un pugno contro la parete d’acciaio, urla: «Puttana troia! Cazzo! Cazzo!», e la sua voce rimbomba in quella bara di metallo morto come sul fondo di una cripta. I suoi occhi si muovono a scatti, cercano un varco, un pertugio, una via d’uscita. Dardeggiano su quegli altri due, inutili corpi che consumano aria e occupano spazio, prima di focalizzarsi sulle porte automatiche chiuse.
Cosa c’è che non va in quei due pannelli scorrevoli
,
in quelle due mezze porte d’acciaio? Cosa c’è che non va?
Usa la testa, vecchio, usa la testa. È ovvio.
Va che dovrebbero essere
aperte
.
Ci sono delle fotocellule. Se manca la corrente, le fotocellule smettono di funzionare. Non c’è più niente a tenere unite quelle due mezze porte.
Magari, chi può dirlo, magari abbiamo avuto un colpo di fortuna e ci siamo fermati in corrispondenza con il piano. Magari ci sono le porte di piano, là dietro, magari possiamo aprirle dall’interno e sgusciare fuori.
Unisce i dorsi delle mani e affonda le dita nell’intersezione tra le porte. Prova ad aprirle, facendo forza nelle due direzioni opposte. I due pannelli scorrevoli non si muovono di un millimetro.
Stringe i denti. Si gira verso Tomas.
«Tu! Aiutami!» ordina. Tomas obbedisce meccanicamente, scatta in avanti strusciandosi involontariamente su Claudia. Sono come vermi rinchiusi in un vaso, non possono fare a meno di sfiorarsi a ogni movimento e di rubarsi l’aria l’uno con l’altro.
Ferro e Tomas si schierano uno di fronte all’altro, il ragazzo impegnato sulla porta di sinistra, l’uomo su quella di destra. Cercano di far presa sull’acciaio, di far aderire le dita, ma le dita scivolano sul metallo. Sono viscide, sudate. Cercano di penetrare nell’intersezione con le unghie, di ficcare i polpastrelli più a fondo che possono. Claudia si sporge in avanti per aiutarli, ma non c’è spazio per muoversi nei novantacinque centimetri di larghezza della cabina. La schiena larga e massiccia di Ferro e quella magra e ossuta di Tomas non lasciano un millimetro di spazio per inserirsi, per far prevalere la carne sul metallo.
Ferro e Tomas lottano ancora un po’, poi il ragazzo ha un’idea.