Quando il giorno prima Yoshi l'aveva mandato a chiamare, Misamoto si era prostrato tremando di paura.
“Alzati e siediti là.” Yoshi indicò con il ventaglio l'estremità del tatami su cui sedeva.
Misamoto obbedì senza indugi. Era un uomo minuto con gli occhi molto stretti e allungati, i capelli e la barba brizzolati, il volto madido di sudore, gli abiti ridotti in cenci, le mani callose e la pelle color miele scuro.
“Mi dirai la verità: chi ti ha interrogato dice che parli l'inglese.”
“Sì, signore.”
“Sei nato ad Anjiro di Izu e sei stato in una terra chiamata America?”
“Sì, signore.”
“Quanto vi sei rimasto?”
“Quasi quattro anni, signore.”
“Dove precisamente?”
“San Francisco, signore.
“Cos'è San Francisco?”
“Una grande città, signore.”
“Proprio in America?” Yoshi lo studiava, ansioso di ottenerne informazioni. Vedeva che l'uomo era disperatamente determinato a compiacerlo e al tempo stesso spaventato a morte, spaventato da lui e dalle guardie che l'avevano spinto nella stanza costringendolo a prostrarsi con il volto a terra. Perciò Yoshi decise di tentare un approccio diverso. Licenziò le guardie e si diresse verso la finestra affacciata sulla città. “Dimmi in fretta e con parole tue che cosa ti è successo.”
“Ero un pescatore nel villaggio di Anjiro, signore, quando sono nato trentatré anni fa, signore” cominciò Misamoto raccontando una versione ripetuta già centinaia di volte.
“Nove anni fa stavo pescando con sei compagni sulla mia barca a pochi ri al largo quando fummo catturati da una tempesta improvvisa che diventò subito più grande e ci mandò alla deriva per trenta giorni o più verso est nel mare aperto, a centinaia di ri dalla costa, forse migliaia, sire. Tre dei miei compagni caddero in mare.
Poi il mare si calmò ma le nostre vele erano a brandelli e non avevamo né cibo né acqua. Noi tre sopravvissuti cercavamo di pescare ma niente, non prendevamo niente... non c'era acqua da bere... Uno di noi impazzì e saltò in acqua cominciando a nuotare diretto verso un'isola che pensava di aver visto e annegò. Non c'era terra in vista né navi, soltanto acqua.
Molti giorni dopo l'altro compagno, il mio amico Ishii, morì, e io restai solo. Poi un giorno pensai d'essere morto anch'io perchè vidi una strana nave senza vele che sembrava in fiamme, invece era soltanto un piroscafo a ruote americano diretto a San Francisco da Hong Kong. Mi portarono a bordo, mi fecero mangiare e mi trattarono come uno di loro... ero impietrito dall'orrore, signore, ma divisero il loro cibo con me, mi diedero da bere e mi vestirono...”
“Questa nave americana ti portò a quel San qualcosa?
Che cosa successe poi?”
Misamoto raccontò com'era stato affidato a un fratello del capitano della nave, un commerciante, perchè imparasse la lingua e svolgesse qualche lavoretto utile fino a quando le autorità non avessero deciso che cosa fare di lui. Visse con la famiglia di quest'uomo per circa tre anni e lavorò nel loro negozio e al porto.
Un giorno venne portato al cospetto di un importante ufficiale di nome Natow che dopo averlo a lungo interrogato gli comunicò che l'avrebbe mandato con la nave da guerra Missouri a Shimoda come interprete del console Townsend Harris che si trovava in Giappone per negoziare un trattato.
A quell'epoca Misamoto vestiva abitualmente all'occidentale e aveva imparato molti atteggiamenti americani.
“Fui felice di accettare, sire, perchè ero certo che qui avrei potuto essere d'aiuto, soprattutto alla Bakufu. Il nono giorno dell'ottavo mese dell'anno 1857 secondo il loro calendario, cinque anni fa, sire, accostammo al largo di Shimoda in Izu, poco a sud del mio villaggio natale, sire.
Appena sbarcato chiesi e ottenni un giorno libero di permesso e partii immediatamente, signore, per andare a fare rapporto al corpo di guardia più vicino convinto che sarei stato accolto a braccia aperte per via di tutto quello che sapevo... ma le sentinelle non vollero... “
Il volto di Misamoto era contratto dall'angoscia.
“Non mi ascoltarono, sire, né capirono... mi legarono e mi trascinarono a Edo... questo accadeva circa cinque anni fa, sire, e da allora sono stato sempre isolato e trattato come un criminale, anche se non sono in prigione, e continuo a spiegare e rispiegare che non sono una spia ma un fedele suddito di Izu e che quello che mi è successo...”
L'uomo cominciò a piangere. Disgustato, Yoshi pose bruscamente fine a quel piagnisteo.
“Smettila! Lo sai o non lo sai che la legge proibisce a chiunque di uscire dal Giappone senza uno speciale permesso?”
“Sì, signore, ma io...”
“E non sai che in base alla stessa legge chiunque lasci il Giappone senza ragione non potrà più tornarvi sotto pena di morte?”
“Oh sì, sire, sì, sì, lo sapevo ma, ma non pensavo che quella legge si riferisse a me, sire, io pensavo che sarei stato benvenuto perchè sapevo tante cose e avevo fatto naufragio, era stata la tempesta a...”
“La legge è legge. E in questo caso si tratta di una buona legge. Previene la contaminazione. Ritieni di essere stato trattato in modo ingiusto?”
“Oh no, signore” si affrettò a rispondere Misamoto asciugandosi le lacrime, e ancora più spaventato piegò la testa sul tatami. “Vi prego di scusarmi, imploro il vostro perdono, per favore scusate.”
“Limitati a rispondere alle domande. Il tuo inglese è buono?” Io... io capisco e parlo un pò l'americano, sire.
“E' la stessa lingua che parlano i gai-jin qui?”
“Sì, sire, sì, più o meno...”
“Quando sei venuto per incontrare l'americano Harris eri rasato o no?”
“Non rasato, sire, avevo una barbetta corta come quasi tutti i marinai, sire, e mi ero fatto crescere i capelli per legarli in un codino e incatramarli come loro.”
“Chi hai incontrato con questo gai-jin Harris?”
“Solo lui, sire, per circa un'ora con uno dei suoi aiutanti di cui non ricordo il nome.” Yoshi valutò un'altra volta i pericoli insiti nel suo piano: presentarsi all'incontro sotto mentite spoglie, senza l'approvazione del Consiglio, e usare quest'uomo come spia per origliare segretamente il nemico. Forse Misamoto è già una spia dei gai-jin, pensò gravemente, o perlomeno questo è quanto sembrano credere tutti quelli che l'hanno interrogato.
Certo è un bugiardo ed è chiaro che la sua storia è fasulla, i suoi occhi sono troppo furbi e quando ha la guardia abbassata assomiglia a una volpe.
“Molto bene. Più tardi vorrò sapere tutto quello che hai imparato, tutto e... sai leggere e scrivere?”
“Sì, signore, ma in inglese poco.”
“Bene. Intendo impiegarti. Se mi obbedisci alla lettera e mi fai contento, rivedrò il tuo caso. Ma se mi deludi ti augurerai di non avermi mai incontrato.”
Yoshi spiegò a Misamoto quello che voleva da lui e lo affidò a degli insegnanti. Quando ventiquattro ore dopo le guardie glielo ebbero riportato con i capelli acconciati nello stile dei samurai e con indosso gli abiti di un ufficiale completi di spade prive di lama, non lo riconobbe.
“Bene. Cammina su e giù.”
Misamoto obbedì e Yoshi fu impressionato dalla velocità con cui aveva imparato a camminare eretto anziché curvo e servile come un pescatore.
Troppo in fretta, pensò Yoshi, ormai convinto che Misamoto fosse ben di più, o molto meno, di quello che voleva far credere agli altri.
“Hai capito bene cosa dovrai fare?”
“Si, sire, giuro che non vi deluderò, sire.”
“Lo so, le mie guardie hanno l'ordine di ucciderti se ti allontani di un solo passo o diventi sgarbato o... indiscreto.”
“Faremo una pausa di dieci minuti” comunicò stancamente sir William.
“Diglielo Johann.”
“Vogliono sapere perchè.” Johann Favrod, l'interprete svizzero, sbadigliò. “Scusate. Sembra che pensino d'aver discusso tutti i punti eccetera e che porteranno il vostro messaggio al castello eccetera e s'incontreranno ancora con voi a Kanagawa con una risposta dall'alto eccetera eccetera tra circa sessanta giorni come suggerito ieri eccetera.”
“Date a me la flotta per un giorno e vi sistemerò questi matyryebitz e l'intera faccenda” intervenne il conte Zergeyev.
“Magari” disse sir William aggiungendo in perfetto russo:
“Desolato, mio caro conte, ma siamo qui per trovare una soluzione diplomatica, se possibile”.
Poi in inglese precisò: “Accompagnateli nella sala d'attesa, Johann. Andiamo, signori?”.
Si alzò e dopo un rigido inchino condusse il suo gruppo in un'altra sala. Passando davanti a Phillip Tyrer gli disse: “Restate con loro, tenete occhi e orecchi aperti”.
Tutti i ministri si diressero verso il capiente vaso da notte nell'angolo della loro anticamera.
“Mio Dio!” esclamò Sir William colmo di gratitudine.
“Pensavo che mi sarebbe scoppiata la vescica.”
Entrò Lun seguito da alcuni servi carichi di vassoi.
“Ecco padrone, tè-cha, panini!” Indicò sprezzante con il pollice l'altra stanza.
“Niente di buono da scimmie, heya?”
“Cerca di non farti sentire, per Dio. Forse qualcuno di loro parla pidgin.” Lun lo fissò facendo finta di non capire.
“Come dice padrone?”
“Oh, non importa.” Lun uscì ridacchiando tra sé.
“Bene, signori, come previsto progressi zero.”
Seratard si stava accendendo la pipa e parlava con André Poncin molto compiaciuto della sconfitta di sir William.
“Cosa proponete di fare, sir William?”
“Voi che cosa consigliate?”
“E' un problema soprattutto inglese che riguarda la Francia solo in parte. Se fosse un problema interamente mio l'avrei già sistemato con élan francese il giorno dell'accaduto.”
“Tuttavia, mein Herr, avreste bisogno d'una flotta di pari grandezza” ribatté in tono brusco von Heimrich.
“Naturalmente. In Europa ne disponiamo, come ben sapete. E se presenziare in forze come i nostri alleati britannici fosse la politica imperiale della Francia, schiereremmo anche noi un paio di flotte.”
“Sì, infatti ...”
Sir William era stanco.
“Mi sembra di capire che suggeriate una risposta dura.”
“Nuda e cruda” commentò il conte Zergeyev.
“Ja.”
“Naturalmente” convenne Seratard. “Pensavo che voi aveste già deciso in questo senso, sir William.” Il ministro addentò un panino e finì la sua tazza di tè. “D'accordo.
Sospenderò l'incontro e ne convocherò un altro per le dieci di domani mattina con un ultimatum: un appuntamento con lo shògun entro la settimana, gli assassini e l'indennizzo oppure la nostra rappresaglia con... ehm... l'approvazione di voi tutti naturalmente.”
“Sir William” disse Seratard, “poiché ritengo che per questi uomini possa essere effettivamente difficile organizzare un incontro con lo shògun vi suggerisco di rimandare la richiesta al momento in cui arriveranno i rinforzi. A quel punto i vostri argomenti saranno ancora più convincenti.
Dopotutto state soltanto mostrando i denti per stabilire un precedente, non per mettere in pratica la politica imperiale dei nostri paesi.”
“Ben detto” commentò il prussiano pur con riluttanza.
Sir William rifletté sulle motivazioni di quel suggerimento senza riuscire a trovarvi errori né vedervi insidie nascoste. “Molto bene. Domanderemo al più presto un incontro con lo shògun. D'accordo?” Tutti annuirono.
“Scusatemi sir William” intervenne André Poncin in tono affabile, “posso suggerirvi di affidare a me l'incarico di comunicare ai giapponesi la vostra decisione: sospendere all'improvviso l'incontro potrebbe farvi perdere la faccia con queste persone. Non credete?”
“Molto saggio, André” esclamò Seratard.
Per tutti i presenti Poncin non era che un mercante con qualche conoscenza delle tradizioni giapponesi, un pò di familiarità con la lingua, un amico e un interprete occasionale.
In realtà Poncin era un'importante spia mandata a scoprire e neutralizzare le iniziative degli inglesi, dei tedeschi e dei russi in Giappone. “Che cosa ne dite, sir William?”
“D'accordo” rispose l'inglese sovrappensiero. “D'accordo. Avete ragione, vi ringrazio. E' meglio che non sia io a farlo. Lun!” La porta si aprì immediatamente. “Si, padrone?”.
“Trova il signor Tyrer svelto svelto!” Poi si rivolse agli altri: “Trattandosi di un problema inglese sarà Tyrer a farlo al posto mio”.
Quando Phillip tornò nell'altra stanza, che s'affacciava sul cortile anteriore, si diresse verso Johann con tutta la dignità che riuscì a trovare. Gli ufficiali della Bakufu continuarono a chiacchierare senza prestarli attenzione. Yoshi era sempre un pò appartato con Misamoto e non parlava.
“Johann, presenta gli omaggi di sir William a questi signori e di' loro che l'insoddisfacente incontro di oggi è aggiornato ma che sono riconvocati per domattina alle dieci per ciò che egli si augura essere una conclusione soddisfacente di questa ingiustificabile faccenda: gli assassini, l'indennizzo e un incontro con lo shògun garantito al più presto.
In caso contrario ci sarà una rappresaglia.”
Johann impallidì.
“Glielo devo dire così?”
“Sì, esattamente così.”
Anche Tyrer era stanco di quel tira e molla e non poteva dimenticare la morte violenta di John Canterbury, la sofferenza di Malcolm Struan e il terrore di Angélique.
“Diglielo.”
Restò a osservare Johann che riferiva il breve ultimatum in un olandese gutturale. L'interprete giapponese arrossì e poi diede inizio a una laboriosa traduzione sotto gli occhi attenti di Tyrer che osservavano gli antagonisti con grande attenzione. Quattro di loro ascoltavano mentre l'ultimo, l'ometto con gli occhi piccoli e le mani callose, sembrava altrimenti indaffarato. Aveva già notato che era il solo a non avere le mani ben curate come gli altri. Sussurrava in continuazione qualcosa all'orecchio del più giovane degli ufficiali, il più nobile d'aspetto, Watanabe.
Come vorrei capire quello che si stanno dicendo, pensò irritato Tyrer.
Quell'incontro aveva rinnovato la sua determinazione a fare il possibile per imparare il giapponese al più presto.
Quando l'interprete sgomento e imbarazzato smise di parlare seguì un silenzio rotto soltanto dai respiri affannosi degli uomini della delegazione giapponese. I loro volti tuttavia erano rimasti impassibili.
Durante la traduzione Tyrer aveva notato che due degli ufficiali gettavano occhiate furtive a Watanabe.