Moll Flanders (Collins Classics) (67 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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Venne a trovarmi il cappellano di Newgate, e mi parlò per un po’ alla sua maniera, ma tutta la sua religione, aveva soltanto lo scopo di indurmi a confessare il mio delitto, come lui diceva (anche se non sapeva nemmeno di che delitto si trattava), e a rivelare ogni cosa, senza di che mi disse che Dio non mi avrebbe mai dato il suo perdono; e per la verità osservare quel poveretto che al mattino predicava a me di confessarmi e di pentirmi, e a mezzogiorno era già ubriaco di brandy e d’altri liquori, aveva in sé qualcosa di così indecente che io incominciai a provar nausea di quell’uomo prima che del suo mestiere, e poi, a poco a poco, anche del suo mestiere, per colpa dell’uomo; e così volli che non m’infastidisse più.

Non so come fu, ma, per l’infaticabile insistenza della mia governante, non mi venne fatta nessuna citazione di comparizione alla prima sessione, voglio dire di fronte al tribunale, al Guildhall; così ebbi davanti a me ancora un mese, o cinque settimane, e non v’è dubbio che avrei dovuto accogliere ciò come un tempo in più concessomi per riflettere su quel che era passato e per prepararmi a quel che doveva venire; in poche parole, avrei dovuto considerarlo un periodo di tempo da riservare al pentimento, e così impiegarlo, ma non era cosa da me. Mi dispiaceva, come già prima, di trovarmi a Newgate, ma avevo in me ben pochi sintomi di pentimento.

Al contrario, come l’acqua nel cavo e negli anfratti dei monti, che pietrifica e fa diventar sasso tutto quello su cui riesce a gocciolare, così la continua dimestichezza con quella banda di cani infernali della mia stessa razza, fece a me lo stesso effetto che agli altri. Mi tramutai in sasso; prima divenni stupida e incosciente, poi abbrutita e indifferente, e alla fine pazza da legare come tutte quelle altre; insomma, alla fine, mi venne spontaneo trovarmi bene e a mio agio in quel luogo, proprio come se ci fossi nata.

Non avrei immaginato mai che la nostra natura è capace di degenerare a tal punto da tramutare in piacere e gradimento ciò che è di per sé sventura assoluta. Mi trovavo in una situazione della quale credo impossibile citarne una peggiore: ero caduta nel baratro della miseria, il colmo che potesse capitare, parlando di cose normali, a una persona ricca di vita, buona salute, e denaro per cavarsela, come ero io.

Avevo addosso un tal peso di colpe da far sprofondare qualunque creatura avesse ancora la minima capacità di riflettere, e fosse ancora capace di dare un significato alla felicità in questa vita e alla sciagura nell’altra; così, sulle prime, provai rimorso, non pentimento; poi non provai più né rimorso né pentimento. Ero accusata di un delitto per il quale la punizione secondo la nostra legge era la morte; le prove erano così sicure, che non avevo nemmeno la possibilità di protestarmi innocente. Ero conosciuta come vecchia delinquente, e non potevo aspettarmi altro che di andare a morte entro poche settimane, né avevo per conto mio la minima idea che sarei scampata; e tuttavia uno strano letargo spirituale s’impadronì dell’animo mio. Non provavo turbamento, timore, dispiacere, il primo momento dello stupore era passato; potrei dire che non mi rendevo conto di nulla; la mia intelligenza, la mia ragione, addirittura la mia coscienza, erano come addormentate; l’itinerario della mia vita per quarant’anni era stato uno spaventevole miscuglio di delinquenza, puttaneria, adulterio, incesto, menzogna, furto; e, in poche parole, meno l’assassinio e il tradimento, tutto era stato mestiere mio, dall’età di diciotto anni, o giù di lì, fino a quella di sessanta; e adesso ero piombata nella sciagura del castigo, ero a un passo da una morte ignobile, e tuttavia non mi rendevo conto della mia situazione, non avevo né per il cielo né per l’inferno il minimo pensiero che andasse oltre un accenno fuggevole, come la puntura o il male che, appena avvertiti, svaniscono. Non mi venne mai nemmeno l’impulso di chiedere perdono a Dio, né di pensarci. E con ciò, credo d’aver dato una breve descrizione della più completa sventura possibile su questa terra.

Tutte le mie terribili paure erano passate, gli orrori di quel luogo m’erano divenuti familiari, e io non mi sentivo a disagio, per il chiasso e il clamore del carcere, più di coloro che quel chiasso facevano; in poche parole, ero diventata il tipico animale di Newgate, cattiva e imbestiata quanto gli altri; anzi, quasi non conservavo più nemmeno l’abitudine alla buona educazione e alle belle maniere, che fino a quel momento avevano sempre contraddistinto il mio comportamento; tanto completamente la degenerazione s’era impadronita di me, che io non ero più quella che ero stata un tempo, come se fossi stata sempre quel che ero adesso, proprio nel pieno di quel momento così duro della mia vita, un’altra sorpresa, che mi fece riprovare un po’ quella cosa che si chiama dolore, e della quale per la verità stavo incominciando a smarrire la nozione. Una notte mi dissero che avevano portato in carcere, la sera prima sul tardi, tre banditi di strada, che avevano commesso una rapina in un punto della strada per Windsor, credo che fosse Hounslow Heath, ed erano stati inseguiti per le campagne fino a Uxbridge, e catturati dopo una valorosa resistenza, nella quale non so quante persone del posto erano rimaste ferite, e alcune uccise.

Non c’è da stupirsi che noi carcerate avessimo tutte una gran voglia di vedere quei tali così importanti e coraggiosi, dei quali si diceva che nessuno aveva mai conosciuto chi potesse star loro a pari, visto specialmente che si era saputo che al mattino li avrebbero messi nell’altro cortile, perché avevano dato del denaro al direttore della prigione per avere il permesso di alloggiare in quel settore migliore del carcere. Così tutte noi donne ci spostammo da quella parte, per esser sicure di vederli; ma non si può raccontare quali furono la mia meraviglia e il mio turbamento quando nel primo uomo che venne fuori riconobbi il mio marito del Lancashire, quello con il quale ero vissuta tanto bene a Dunstable, la stessa persona che avevo in seguito visto a Brickhill, il giorno del matrimonio con il mio ultimo marito, come ho già raccontato.

Rimasi ammutolita a quella vista, e non sapevo né che dire né che fare. Lui non mi riconobbe, e quello fu l’unico sollievo che ebbi per il momento. Lasciai la gente con la quale ero, mi isolai per quanto è possibile isolarsi in quel tremendo luogo, e per un bel pezzo me ne stetti a piangere dirottamente. “Sciagurata creatura che sono,” dissi, “quanti poveretti ho gettato nella sventura, quanti infelici ho mandato in rovina?” Delle sventure di quel gentiluomo mi davo tutta la colpa io. A Chester mi aveva detto che s’era rovinato con quel matrimonio, e che la sua sorte era ormai per causa mia senza più speranza; infatti, credendomi ricca, aveva fatto più debiti di quanti ne poteva pagare, e non aveva più una strada da prendere; sarebbe andato ad arruolarsi nell’esercito a fare il moschettiere, o si sarebbe comprato un cavallo per andare in giro, come diceva; e anche se non ero mai stata io a dirgli che ero ricca, e cioè non ero stata direttamente io a imbrogliarlo, tuttavia l’avevo incoraggiato a crederlo, ed ero stata in tal modo la causa prima della sua rovina.

La stranezza di quel fatto mi colpì profondamente nell’animo, e mi fece fare riflessioni più serie di quanto non mi fosse accaduto fino a quel momento. Stavo notte e giorno in pena per lui, tanto più che mi avevano detto che era lui il capo della banda, e che aveva commesso tante rapine che Hind o Whitney o Golden Farmer erano niente al suo confronto; che l’avrebbero impiccato di sicuro, anche se non fosse rimasto un uomo solo nel paese dov’era nato; e contro di lui sarebbero venuti in molti a deporre.

Io ero sopraffatta dalla pena per lui; il caso mio non m’importava nulla a paragone del suo, e mi facevo un mucchio di rimproveri per lui. Piangevo la sua sciagura, e la rovina nella quale era precipitato, al punto che ora non la vedevo più allo stesso modo di prima, e i primi pensieri che m’erano venuti alla mente sulla maniera tremenda e deprecabile nella quale ero vissuta mi incominciarono a ritornare, e fui ripresa anche dal senso di orrore per il luogo dove mi trovavo e per la vita che vi si conduceva; in poche parole, ero completamente mutata, ero diventata un’altra persona.

Mentre ero così afflitta dalla pena per lui, mi giunse notizia che, avvicinandosi l’epoca della nuova sessione, sarebbe stata presentata l’accusa contro di me davanti alla grande giuria, e che io sarei stata processata all’Old Bailey con la probabilità d’essere condannata a morte. La mia tempra era già scossa, la sciagurata e ostinata forza d’animo che avevo acquistato mi abbandonò, e, rendendomi conto d’essere in carcere, mi sentii lo spirito occupato interamente dal senso di colpa. In breve, incominciai a pensare, e quello di pensare è l’unico vero progresso che si possa compiere dall’inferno verso il cielo. Tutta quella infernale, dura condizione di spirito di cui prima ho detto non è che un’assenza di pensiero; chi torna a essere capace di pensare, torna in se stesso.

Appena incominciai, come dico, a pensare, la prima cosa che mi venne in mente fu: “Signore! che sarà di me? Certamente morirò! Mi condanneranno di certo, e poi non c’è altro che la morte! Non ho amici: che farò? Sarò certamente condannata! Dio, abbi pietà di me! Che sarà di me?” Erano pensieri da poco, voi direte, per essere i primi di quel genere che, dopo tanto tempo, mi venissero in mente, eppure anche quella era solo paura per quel che stava per toccarmi; non c’era una sola parola di pentimento sincero. Comunque, ero veramente molto avvilita, e disperata in sommo grado; e poiché non avevo amici al mondo da mettere a parte dei miei dolorosi pensieri, ne ero tanto oppressa che parecchie volte al giorno cadevo in preda a convulsioni e svenimenti. Mandai a chiamare la mia vecchia governante, che, va detto a suo merito, si comportò come una vera amica. Non trascurò nessuna possibile strada, nel tentativo di ottenere che la gran giuria non desse corso all’accusa. Scovò un paio di giurati, parlò con loro, si sforzò di disporli favorevolmente, perché niente era stato portato via, non c’era stato nessuno scasso, eccetera; ma non servì a nulla, quelli erano sopraffatti dal resto; le due ragazze prestarono giuramento sul fatto, e la giuria formulò contro di me le accuse di furto e violazione di domicilio, vale a dire di rapina aggravata con scasso.

Io mi sentii mancare quando me ne dettero notizia, e, tornata in me, mi parve di morire sotto il peso della sventura. La mia governante si comportò con me come una vera mamma; mi commiserò, pianse insieme a me e per causa mia, ma non riuscì ad essermi di nessun aiuto; e ad accrescere lo spavento stava il fatto che in quel luogo non si parlava d’altro, tutti dicendo che io andavo a morte sicura. Le sentivo spesso parlarne fra loro e le vedevo scuotere il capo e dire che erano dispiaciute, e cose simili, come accade di solito in quel luogo. Nessuno però venne a dirmi quel che pensava, finché alla fine uno dei carcerieri mi prese in disparte e mi disse con un sospiro: “Così, signora Flanders, sarete processata venerdì (era ancora mercoledì): che cosa avete intenzione di fare?”

Io divenni bianca come uno straccio, e dissi: “Dio solo lo sa; per parte mia, io proprio non lo so.”

“Ecco,” dice lui, “non voglio illudervi, sarebbe il caso che vi preparaste a morire, perché io penso che vi condanneranno; e, siccome dicono che siete una vecchia delinquente, penso che non sarete trattata con troppa indulgenza. Si dice,” aggiunse, “che il caso vostro è molto semplice, e che siccome i testimoni hanno prestato giuramento sul fatto, il processo durerà ben poco.”

Fu quella una vera pugnalata al cuore per una che già si sentiva oppressa sotto quel peso, e per un certo tempo io non riuscii a rivolgere a colui una parola, né in bene né in male; ma alla fine scoppiai in lacrime e gli dissi: “Dio mio, signor…, che cosa posso fare?”

“Fare?” dice lui, “mandate a chiamare il cappellano; chiamate un prete, e vedetevela con lui; perché la verità, signora Flanders, a meno che abbiate amici molto importanti, è che siete una donna che non è più di questo mondo.”

Questo sì, che si chiamava parlar chiaro, ma era molto duro per me, o almeno così mi sembrò. Quello mi lasciò in preda alla più grande agitazione pensabile, e restai sveglia per tutta la notte. E incominciavo adesso a dire le mie preghiere, cosa che avevo raramente fatto da quando era morto il mio ultimo marito, o da poco tempo dopo. E posso ben dire che quelle che dicevo erano proprio le preghiere mie, perché, in quello stato d’agitazione, con l’animo terrorizzato, pur se piangevo e ripetevo più volte la solita frase “Signore, abbi pietà di me!”, non giungevo però mai a convincermi d’essere la miserabile peccatrice che ero, né a confessare i miei peccati davanti a Dio, né a chiedere perdono in nome di Gesù Cristo. Ero sopraffatta dalla situazione in cui mi trovavo, prossima a rischiare la vita in un processo, sicura di essere condannata, e tanto sicura anche di finire giustiziata, che per quella ragione piansi tutta la notte gridando: “Signore! Che sarà, di me? Signore! Che farò? Signore! Mi impiccheranno! Signore, abbi pietà di me!” e così via.

La mia povera afflitta governante era adesso preoccupata quanto me, e faceva, anche più di me, vera penitenza, anche se per lei non c’era la prospettiva d’essere processata e condannata. Non che non lo meritasse quanto me, e lo diceva anche lei; erano anni che non faceva altro che prendere quel che rubavamo io e le altre, e spingerci a rubare. Ma piangeva, e pareva diventata matta, si torceva le mani, strillava che era finita, che incombeva su di lei la maledizione celeste, che la dannazione era certa per lei, era stata lei la rovina di tante amiche sue, e aveva fatto finire sulla forca la tale, la talaltra e la talaltra ancora. Ed elencava così dieci o undici persone, di alcune delle quali ho raccontato come giunsero ad immatura fine; e adesso diceva che era lei la causa della rovina mia, perché era stata lei che mi aveva persuasa a continuare, quando io volevo smettere. Io la interruppi. “No, mamma, no,” dissi, “non dire questo, perché tu volevi che smettessi quando presi i soldi del merciaio, e poi quando tornai a casa da Harwich, e io non ti stetti a sentire; perciò non è tua la colpa; sono stata io a rovinarmi; sono stata io a ridurmi tanto male.” E così trascorremmo insieme molte ore.

Non c’era, insomma, rimedio, e il giovedì mi portarono in tribunale, dove fui, come si dice, imputata e per il giorno dopo fu fissato il processo. All’imputazione io mi dichiarai “non colpevole”, e avevo ragione, perché ero accusata di rapina aggravata con scasso: di avere, cioè, fraudolentemente sottratto due pezze di broccato del valore di sterline quarantasei dalla proprietà di Anthony Johnson, e aver aperto con scasso la porta del di lui domicilio, quando io sapevo benissimo che mica potevano pretendere di provare che avevo scassinato la porta, nemmeno un saliscendi avevo alzato.

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