Moll Flanders (Collins Classics) (74 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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Potrei fornire significativi esempi di ciò, tratti dalla mia pratica di delitti e delinquenti. Conoscevo un tale che, quando io ero in carcere a Newgate, era di quelli che si chiamavano allora falchi di notte. Non so che nome gli danno da allora, ma era uno che per connivenza aveva il permesso di uscire fuori ogni sera, e compiva le sue imprese, e riforniva quelle oneste persone che si chiamano acchiappaladri di materia per darsi da fare il giorno seguente e restituire dietro compenso quel che era stato rubato la sera prima. Quel tale era certo di raccontare durante il sonno tutto quel che aveva fatto, ogni passo che aveva compiuto, che cosa aveva rubato e dove, proprio come se lo avesse voluto raccontare apposta da sveglio, e perciò non era pericoloso e non faceva male a nessuno, e di conseguenza era costretto, dopo essere stato fuori, a chiudersi a chiave da sé, o a farsi chiudere da qualcuno dei custodi che lo avevano in consegna, in modo che nessuno lo udisse; ma d’altra parte, se aveva raccontato tutti i particolari, e fatto un resoconto completo dei suoi giri e dei suoi colpi a un collega, a un confratello ladro o ai suoi capi, come li posso ben chiamare, allora si sentiva completamente a posto, e dormiva tranquillo come chiunque altro.

Poiché la pubblicazione di questo racconto della mia vita è fatta in vista della sana morale di ciascuna sua parte, e per fornire insegnamento, monito, consiglio e occasioni di miglioramento ad ogni lettore, questa non sarà, spero, considerata un’inutile divagazione a proposito di coloro che son costretti a svelare i più grandi segreti sia degli affari loro che di quelli altrui.

Col peso di quell’oppressione sull’animo mi tormentavo per la questione di cui ho detto; e l’unica risorsa che riuscii a trovare fu di mettere mio marito al corrente per quel tanto che pensai potesse: persuaderlo della necessità per noi di andarci a stabilire in qualche altra parte del mondo; e, subito dopo, ci ponemmo a considerare in quale parte delle colonie inglesi ci convenisse andare. Mio marito era assolutamente forestiero in quel paese e non aveva di quei luoghi nemmeno una cognizione geografica; e io, prima di mettermi a scrivere questa storia, non sapevo nemmeno che cosa significasse la parola geografia, possedevo soltanto una conoscenza generica ottenuta da lunghe conversazioni con gente che andava e veniva da luoghi diversi; sapevo però una cosa e cioè che il Maryland, la Pennsylvania, il Jersey dell’est e dell’ovest, la Nuova York e la Nuova Inghilterra erano tutte a nord della Virginia, ed erano perciò tutti climi più freddi, per i quali, appunto per quel motivo, io non avevo simpatia. Infatti, come m’era sempre per natura piaciuto il clima caldo, così, avanzando negli anni, avevo una tendenza sempre più forte a scansare i climi freddi. Di conseguenza, pensai che potevamo andare in Carolina, che è l’unica colonia meridionale di inglesi del continente americano, e proposi perciò d’andarci; tanto più che di là potevo facilmente ritornare in qualunque momento, quando sarebbe stato opportuno svolgere indagini sui lasciti di mia madre, e farmi riconoscere per reclamarli.

Dopo tale decisione, proposi a mio marito di andarcene dal luogo, dove eravamo e di portare ogni nostro avere in Carolina dove decidevamo di stabilirci; infatti mio marito accettò prontamente il primo punto, vale a dire che non era opportuno per noi restare dove eravamo, poiché l’avevo convinto che saremmo stati riconosciuti, e gli avevo in pratica tenuto nascosto tutto il resto.

Mi trovai allora di fronte ad una nuova difficoltà, per parte mia; la faccenda principale continuava a restarmi in mente, e non riuscivo ad accettare l’idea di andarmene dal paese senza, in un modo o nell’altro, indagare sulla grossa faccenda di quel che mia madre aveva fatto per me; né riuscivo a sopportare il pensiero di andarmene senza farmi riconoscere dal mio vecchio marito-fratello, né dal mio ragazzo, figlio suo; avrei voluto soltanto poterlo fare senza che il mio nuovo marito lo venisse a sapere, e senza che loro venissero a sapere di lui, o comunque sapessero che avevo marito.

Provai a escogitare innumerevoli modi di farlo. Avrei con piacere mandato in Carolina mio marito con tutta la nostra roba, andandoci io in un secondo tempo, ma era una cosa irrealizzabile; lui non si sarebbe mai mosso senza di me, visto che ignorava tutto di quel paese, e del mestiere di coltivatore, in quel luogo e in ogni altro. Pensai allora che potevamo prima partire tutti e due, con una parte della roba, e, dopo aver trovato una sistemazione, io potevo tornare in Virginia a prendere il resto; ma mi rendevo conto che lui nemmeno così avrebbe accettato di separarsi da me, e restarsene lì da solo a mandare avanti tutto. La situazione era chiara; era cresciuto da signore, e perciò non soltanto non era pratico, ma era anche indolente, e, quando trovavamo una sistemazione, lui preferiva piuttosto andarsene per i boschi con il fucile, cioè fare, come si dice, il cacciatore, mestiere che di solito spetta agli indiani, i quali lo fanno come servi; gli piaceva, ripeto, più andare a caccia che non dedicarsi alle occupazioni tipiche del piantatore.

Erano quelle, perciò, difficoltà insormontabili, e tali che io non sapevo che fare. Avevo in mente un così forte desiderio di rivelarmi a mio fratello, un tempo mio marito, da non riuscire a resistere; tanto più che mi veniva continuamente l’idea che se non lo facevo finché era vivo, inutilmente avrei cercato poi di convincere mio figlio che ero io la stessa persona, e avrei perduto così sia l’aiuto e il conforto dei parenti sia il beneficio di quel che mia madre poteva avermi lasciato; e tuttavia, d’altra parte, non riuscivo a trovare opportuno rivelarmi a loro nella situazione in cui ero, sia per il fatto che avevo con me un marito, sia perché ero giunta lì deportata come delinquente; entrambe ragioni per le quali mi era indispensabile trasferirmi dal luogo dove ero, e ritornarci poi, come se provenissi da un altro posto e fossi tutt’altro personaggio.

In seguito a queste riflessioni, continuai a spiegare a mio marito la necessità assoluta per noi di non stabilirci definitivamente sul fiume Potomac, se non volevamo essere ben presto conosciuti da tutti; laddove, se ce ne andavamo in un altro posto del mondo, potevamo arrivare con altrettanta buona reputazione di una qualunque altra famiglia venuta per coltivare; era sempre cosa gradita, per gli abitanti, l’arrivo di famiglie che venivano per coltivare, se avevano mezzi sia per acquistare piantagioni sia per iniziarne di nuove, e perciò noi saremmo stati certi di ricevere accoglienze buone e cordiali, senza che vi fosse alcuna possibilità di scoperta della nostra condizione.

Gli dissi anche genericamente che, siccome avevo diversi parenti nel luogo dove eravamo, e non osavo farmi riconoscere da loro, perché subito sarebbero venuti a sapere le circostanze e la ragione del mio arrivo, il che mi avrebbe messa veramente nei guai, avevo anche motivo di credere che mia madre, che era morta lì, mi avesse lasciato qualcosa, e forse qualcosa di notevole, per cui valeva ben la pena di svolgere una ricerca; ma nemmeno questo si poteva fare senza esporsi pubblicamente, a meno che ce ne andassimo di là; e poi, dal posto dove ci fossimo stabiliti, io sarei potuta tornare, come per venire a trovare mio fratello e i miei nipoti, farmi riconoscere, chiedere e sapere che cosa mi era dovuto, essere accolta con riguardo, e al tempo stesso farmi dare la mia parte cordialmente e di buona voglia; mentre, se lo facevo adesso, potevo aspettarmi solo guai, come farmi dare la mia parte per forza, riceverla insieme a maledizioni e riserve, e con ogni specie di offese, che magari non sarei stata capace di tollerare; se fossi stata obbligata a fornire le prove legali di essere veramente la figlia di mia madre, avrei potuto trovarmi in un guaio, vedermi costretta a ricorrere in Inghilterra e alla fine mi sarebbe potuta andare male, tanto da perder tutto quel che magari c’era. Con questi argomenti, dopo che ebbi così messo al corrente mio marito di tutto il segreto per la parte che occorreva per lui, decidemmo di andare a cercare una sistemazione in qualche altra colonia e, come prima idea, fu la Carolina il posto sul quale puntammo.

A questo scopo cominciammo ad informarci delle navi che andavano in Carolina, e in poco tempo venimmo a sapere che dall’altra parte della baia, come la chiamano, e cioè nel Maryland, c’era una nave che veniva dalla Carolina carica di riso e di altre mercanzie, e che ritornava laggiù, donde proseguiva per la Giamaica, con provviste. A quella notizia prendemmo in affitto una scialuppa per portare la roba nostra, dando per così dire l’addio per sempre al fiume Potomac, e salpammo con tutto il nostro carico alla volta del Maryland.

Fu una traversata lunga e brutta, e mio marito disse che per lui era peggio che tutto il viaggio dall’Inghilterra, perché il tempo era tutt’altro che buono, le acque erano agitate, e la barca piccola e scomoda. Inoltre, eravamo cento miglia su nel Potomac, in una zona che si chiama Contea di Westmoreland, e siccome quel fiume è di gran lunga il maggiore della Virginia e ho sentito dire che sia il maggiore al mondo dei fiumi che si gettano in un altro fiume, anziché direttamente in mare, avemmo perciò cattivo tempo e spesso fummo in grande pericolo; infatti, anche se lo chiamano un fiume, è spesso così largo che, quando eravamo nel mezzo, non vedevamo la terra né da una parte né dall’altra per molte leghe. Poi dovemmo attraversare il grande fiume, o baia, di Chesapeake, che è dove si getta il fiume Potomac, larga quasi trenta miglia, ed entrammo in altre acque ancora più estese di cui non so il nome, e il nostro viaggio fu perciò di buone duecento miglia, in una povera barca sgangherata, con tutto il nostro tesoro, e se ci fosse capitata una disgrazia, saremmo finiti proprio male; avremmo infatti perduto ogni cosa e avuto salva la vita, restando miseri e derelitti in un luogo selvaggio e sconosciuto, senza un amico o una persona conosciuta in tutta quella parte di mondo. Il solo pensiero mi fa ancora spavento anche se il pericolo è ormai lontano.

Bene, giungemmo al posto in cinque giorni di vela; credo che si chiami Philip’s Point; ed ecco, quando arrivammo lì, che la nave diretta in Carolina aveva caricato e se ne era andata già da tre giorni. Fu una delusione; ma comunque io, che non mi lasciavo scoraggiare da niente, dissi a mio marito che siccome non eravamo riusciti a trovare il passaggio per la Carolina e il paese dove eravamo era buono e fertile, potevamo, se gli andava, cercare di trovare qualcosa per noi dove ci trovavamo, e se a lui piaceva, stabilirci lì. Scendemmo subito a terra, non trovammo comodità proprio in quel posto, né per fermarci a terra, né per conservare le nostre cose; ma fummo consigliati da un quacchero molto onesto, che incontrammo lì, a recarci a una sessantina di miglia da lì verso est; vale a dire più vicino alla bocca della baia, dove ci disse che stava lui e che potevamo trovare le occasioni migliori sia per coltivare, sia per cercare un altro posto più conveniente; e ci invitò con tanta gentilezza e tante buone maniere, che noi accettammo di andare, e anche il quacchero venne con noi

Comprammo lì due servi, una serva inglese appena sbarcata da una nave di Liverpool, e un servo negro, cosa assolutamente necessaria per chiunque voglia stabilirsi in quel paese. Quel bravo quacchero ci fu di grande aiuto, e quando noi giungemmo al luogo che lui ci aveva proposto, ci trovò un buon magazzino per la nostra roba e l’alloggio per noi e per i servi; e di lì a due mesi, o pressappoco, per suo consiglio, prendemmo un vasto pezzo di terra dal governatore del paese per costituire la nostra piantagione, e così mettemmo da parte per sempre l’idea di andare in Carolina, essendo stati qui molto bene accolti e forniti di un buon alloggio, mentre preparavamo il necessario facendo liberare abbastanza terreno e accumulare i tronchi e l’altro materiale per costruirci una casa, cose tutte che facemmo con il consiglio del quacchero, dimodochè in capo a un anno avemmo quasi cinquanta iugeri di terreno diboscato, in parte recintato, e in parte coltivato a tabacco, anche se non molto; e, inoltre, avevamo terreno per gli ortaggi e grano sufficiente per fornire radici, erbaggi e pane ai nostri servi.

Allora convinsi mio marito a lasciarmi attraversare di nuovo la baia e ad andare a cercare notizie dei miei amici. Ora dette più volentieri il suo consenso, perché aveva per le mani abbastanza cose di cui occuparsi, e per di più il fucile per divertirsi, che lì chiamano andare a caccia e che a lui piaceva moltissimo; e veramente ci capitava di guardarci in faccia, spesso, con grande soddisfazione, riflettendo quanto meglio stavamo adesso, non solo di Newgate, ma anche del periodo migliore del brutto mestiere che tutti e due avevamo fatto.

I nostri affari andavano molto bene; acquistammo dai proprietari della colonia terra per trentacinque sterline, pagandola per pronti contanti, quanta ne bastava per una piantagione capace di dar lavoro a cinquanta o sessanta servi, e che, ben condotta, sarebbe stata sufficiente per tutto il tempo che ciascuno di noi due fosse vissuto; e, quanto a figli, io ero ormai al di là di problemi di quel genere.

Ma la nostra buona sorte non si fermò lì. Io mi recai, come ho detto, di là della baia, nella località dove abitava mio fratello, il mio marito di un tempo; ma non andai allo stesso villaggio di prima, mi recai invece su un altro grande fiume, sulla riva est del fiume Potomac, chiamato Rappahannock, e per quella via giunsi alle spalle della piantagione, che era molto vasta, e servendomi di un canale navigabile, o fiumiciattolo, che affluiva nel Rappahannock, vi giunsi molto vicino.

Ero adesso decisissima a presentarmi di punto in bianco al mio fratello-marito e a dirgli chi ero; ma non sapendo di che umore l’avrei trovato, o meglio di che umore l’avrei messo col fargli una visita così brusca, decisi di scrivergli prima una lettera, per dirgli chi ero e che non venivo a far storie a proposito dell’antico nostro rapporto, che speravo fosse del tutto dimenticato, ma venivo da lui come una sorella dal fratello, a chiedere il suo aiuto al riguardo di quelle provvidenze che mia madre, alla sua morte, aveva disposto per me, e che io non dubitavo che lui mi avrebbe riconosciuto, specialmente tenendo conto che avevo fatto tanta strada per venirle a chiedere.

Aggiunsi nella lettera cose molto affettuose e gentili per suo figlio, che gli dissi di sapere che era anche figlio mio, e che non era stata colpa mia averlo sposato, come non era stata colpa sua sposare me, perché nessuno dei due sapeva di essere parente dell’altro, e speravo perciò che avrebbe acconsentito al mio più ardente desiderio, e cioè di vedere una volta il mio unico figlio, e rivelare le debolezze di cui una madre è capace quando conserva un tenace affetto per un figlio che non è mai stato in grado di avere per lei il minimo pensiero.

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