Il capitale che avevo con me era di duecentoquarantasei sterline, più qualche scellino; avevamo così fra tutti e due trecentocinquantaquattro sterline, e forse mai fu messa insieme, per ricominciare un’esistenza, una sostanza così mal guadagnata.
La nostra più grande sfortuna in fatto di soldi, era che erano tutti in contanti, e ognuno sa quale merce di scarso valore sia questa da portarsi in piantagione. Il suo, credo davvero che fosse tutto quanto gli era rimasto al mondo, come mi disse lui; ma io, che avevo da parte fra le settecento e le ottocento sterline, quando mi capitò la disgrazia, e che avevo la più amica delle persone possibili a occuparsene, tenuto conto che non era affatto una donna di principi religiosi, avevo ancora depositate in mano sua trecento sterline, che come ho detto tenevo di riserva; avevo, inoltre, diverse cose di notevole valore, e in particolare due orologi d’oro, alcuni pezzi di argenteria piccola, e alcuni anelli, tutta roba rubata. L’argenteria, gli anelli e gli orologi, li avevo messi nel forziere con i soldi, e con quel tesoro, nel sessantunesimo anno della mia vita, mi lanciai in un mondo nuovo, posso dire, nella condizione (almeno all’apparenza) di una povera galeotta priva di tutto, mandata in deportazione per risparmiarle la forca. I miei vestiti erano poveri e brutti, ma non stracciati né sporchi, e nessuno in tutta la nave sapeva che io avevo con me qualcosa di valore.
Tuttavia, siccome avevo una gran quantità di buoni vestiti, e biancheria in abbondanza, che avevo fatto mettere in due grandi casse, le avevo fatte imbarcare a bordo, non come roba mia, ma indirizzate in Virginia al mio nome vero; e avevo in tasca le bollette di spedizione firmate dal capitano; in quelle casse c’erano la mia argenteria, gli orologi, e tutto il resto di valore, meno il denaro, che tenevo separato in un cassetto segreto del mio forziere, dove nessuno poteva trovarlo, né, trovandolo, poteva prenderlo senza rompere il forziere.
In quello stato rimasi sulla nave per tre settimane, senza sapere se avrei avuto con me mio marito oppure no, e perciò senza saper decidere se dovevo, e in che modo, accettare l’offerta dell’onesto nostromo, cosa che lui sulle prime in verità trovò piuttosto strana. Passato quel tempo, ecco mio marito che arriva a bordo. Aveva un’aria avvilita e rabbiosa, il cuore gonfio di furore e sdegno; esser condotto da tre carcerieri di Newgate e imbarcato come un forzato, senza che nemmeno gli avessero fatto il processo! Se ne dolse moltissimo con i suoi amici, perché pare che avesse delle relazioni; ma i suoi amici fecero fiasco con il loro interessamento, si sentirono dire che lui aveva già avuto sufficienti benefici, e che di lui, dal momento in cui era stata data la garanzia per la deportazione, si eran sapute tali cose che poteva considerarsi molto ben trattato se non lo rimettevan sotto processo da capo. Quella risposta lo fece calmare subito, perché sapeva fin troppo bene che cosa poteva capitargli, che cosa si doveva aspettare; e comprese allora la bontà del consiglio avuto, che l’aveva convinto ad accogliere la proposta della deportazione volontaria. E quando il suo rancore verso quei cani dannati, come li chiamava, si fu un po’ placato, prese un’aria più tranquilla, cominciò a mostrarsi più allegro, e, poiché io gli dicevo quant’ero contenta di riaverlo di nuovo strappato a quelle mani, mi prese fra le sue braccia e ammise con grande affetto che gli avevo dato il migliore consiglio possibile.
“Mia cara,” dice, “mi hai salvato la vita due volte; da oggi in poi essa sarà completamente a tua disposizione, e io seguirò sempre i tuoi consigli.”
La nave cominciò allora a riempirsi; vennero a bordo diversi passeggeri, che non si imbarcavano per motivi penali, e quelli avevano il posto assegnato nella grande cabina e in altre parti della nave, mentre noi, come forzati, eravamo cacciati di sotto, non so dove. Ma quando venne a bordo mio marito, io parlai col nostromo, che già mi aveva dimostrato il suo atteggiamento amichevole col portare la mia lettera. Gli dissi che già l’avevo visto amico mio in tante cose, e non lo avevo ancora opportunamente ricambiato, e con ciò gli misi in mano una ghinea. Gli dissi che adesso era venuto a bordo mio marito; anche se ci trovavamo nella sventura attuale, eravamo però stati tutti e due persone di natura diversa dalla banda sciagurata con la quale arrivavamo, e da lui volevo sapere se era possibile convincere il capitano a concederci qualche agio sulla nave, in cambio del quale noi gli avremmo dato ogni possibile soddisfazione, e ciò lo avrebbe ricompensato di ogni disturbo che si sarebbe preso per farcelo avere. Quello prese la ghinea, vidi, con grande piacere, e mi assicurò il suo aiuto.
Disse di essere certo che il capitano, che era uno dei più cortesi gentiluomini del mondo, si sarebbe facilmente convinto a darci la sistemazione che noi volevamo, e, per farmi stare tranquilla, disse che sarebbe andato a terra, alla prossima marea, apposta per parlarne al capitano. La mattina dopo, capitatomi di dormire un po’ più del solito, quando mi levai e mi guardai in giro, vidi il nostromo in mezzo agli uomini, intento al lavoro abituale. Mi dispiacque un po’ vederlo lì, e, quando mi feci avanti per rivolgergli la parola, lui mi vide e mi venne incontro, ma, senza dargli il tempo di parlare per primo, io sorridendo gli dissi: “Temo, signore, che ci abbiate dimenticati, perché vedo che avete molto da fare.”
Lui subito replicò: “Venite con me e vedrete.”
Mi condusse così nella grande cabina, e lì trovammo seduto un bel tipo d’uomo, dall’aria piuttosto signorile per essere un marinaio, che era intento a scrivere, e aveva molte carte davanti a sé.
“Ecco,” dice il nostromo a quello che stava scrivendo, “ecco la signora di cui vi ha parlato il capitano.” E, rivolto a me, disse: “Mi son tanto poco dimenticato degli affari vostri che sono andato a casa del capitano, e al capitano ho riferito fedelmente quel che mi avete detto sul fatto di avere una migliore sistemazione per voi e per vostro marito; e il capitano ha mandato questo signore, che è il secondo della nave, con me, apposta per mostrarvi tutto, e per farvi sistemare a vostro piacimento, ordinandomi di assicurarvi che sarete trattati non come in un primo tempo si poteva pensare che vi spettasse, ma con lo stesso riguardo col quale sono trattati gli stessi passeggeri.”
Mi rivolse allora la parola il secondo, e, senza darmi il tempo di ringraziare il nostromo per la sua cortesia, mi confermò quello che il nostromo aveva detto, e aggiunse che era un piacere per il capitano dimostrarsi gentile e caritatevole, specialmente nei confronti di coloro che si trovavano in qualche sventura, e con ciò mi mostrò alcune cabine allestite, certe nella cabina grande, e certe altre indipendenti, verso poppa, ma che comunicavano con la cabina grande, destinate all’alloggio per i passeggeri, e mi lasciò libera di scegliere quella che volevo. Io scelsi comunque una cabina che dava sulla poppa, nella quale c’era tutto il modo di sistemare il nostro forziere e le nostre casse, e c’era anche un tavolo per mangiare.
Il secondo mi disse poi che il nostromo aveva fatto un ritratto tanto buono di me e di mio marito, e delle nostre ottime maniere, che aveva ordine di chiedermi se gradivamo di consumare i pasti con lui, per l’intero viaggio, alle stesse condizioni degli altri passeggeri; potevamo farci portare delle provviste fresche, altrimenti lui si sarebbe servito delle sue scorte solite, e ne avremmo fatto parte con lui. Quelle parole mi fecero rivivere, dopo tante avversità e dolori che avevo passato ultimamente. Lo ringraziai, dissi che il capitano ci facesse pure le condizioni che voleva, e domandai licenza di andare a raccontarlo a mio marito, che non stava troppo bene, e che ancora non era uscito dalla cabina. Me ne andai perciò, e mio marito, il cui morale era ancora così basso per l’affronto (così lo considerava) che gli era stato fatto, al punto da non sembrar più lui, fu tanto sollevato da quel che gli riferii sul trattamento che ci avrebbero fatto sulla nave, da diventare un altro uomo, e in tutto il suo portamento riapparvero nuova forza e nuovo coraggio. È proprio vero che gli animi più grandi, quando sono sopraffatti dal dolore, son quelli che cadono nell’avvilimento più profondo e son pronti ad arrendersi.
Dopo una piccola pausa per riprendersi, mio marito venne con me a ringraziare il secondo per la cortesia che ci aveva dimostrato, e inviò gli opportuni ringraziamenti al capitano, offrendosi di pagare in anticipo qualsiasi somma gli venisse chiesta per il viaggio e per i vantaggi che ci si offrivano. Il secondo disse che il capitano sarebbe venuto a bordo nel pomeriggio, e che fino al suo arrivo lui avrebbe lasciato tutto così. Nel pomeriggio arrivò infatti il capitano, e potemmo renderci conto che era cortese e deferente proprio come avevano detto il secondo e il nostromo; gli piacque tanto il modo di parlare di mio marito che, a farla breve, non volle lasciarci conservare la cabina che già avevamo scelto, ma ce ne dette una di quelle che, come ho detto, davano nella cabina grande.
Né le sue condizioni furono esorbitanti, e nemmeno era ansioso di depredarci, ma, per quindici ghinee, avemmo viaggio, provviste e cabina, mangiammo a tavola col capitano, e fummo trattati benissimo.
Il capitano dormiva da un’altra parte della cabina grande perché aveva ceduto la sua rotonda, come la chiamano, a un ricco piantatore che faceva la traversata con la moglie e tre figli che mangiavano per conto loro. Aveva alcuni altri passeggeri comuni, che erano sistemati a poppa; e quanto a quelli della nostra vecchia confraternita, furon tenuti sotto coperta finché la nave rimase all’ancora, e poi salirono di rado in coperta,
Non potei fare a meno di informare la mia governante di quanto era accaduto; era ben giusto che lei, che tanto si preoccupava per me, fosse messa a parte della mia buona sorte. Avevo inoltre bisogno del suo aiuto per rifornirmi di alcune cose necessarie, che prima non avevo voluto far sapere a nessuno di avere, per non rivelarlo in pubblico. Ma adesso avevo una cabina, e il posto dove mettere la roba, e ordinai una quantità di cose buone per fare comodamente il viaggio, come brandy, zucchero, limoni, e così via, per fare il punch e usare una cortesia al nostro benefattore il capitano; e una quantità di cose da mangiare e da bere durante il viaggio; e anche un letto più grande, e il necessario per il letto nella misura giusta; sicché, in poche parole, ci mettemmo in condizione da non aver bisogno di nulla durante il viaggio.
Fino a quel momento non mi ero procurata nulla di quel che ci sarebbe servito quando saremmo arrivati laggiù, e ci saremmo messi a fare i piantatori; e a me non mancava l’idea di quel che ci occorreva; specialmente, ogni tipo di arnesi per il lavoro della coltivazione e per fabbricare; e tutto il mobilio per casa, che, comprato sul posto, sarebbe costato per forza il doppio. Parlai perciò di questo con la mia governante, e lei andò a trovare il capitano e gli disse che si augurava vi fosse il mezzo per i suoi sfortunati cugini, come ci chiamava, di ottenere di nuovo la libertà, una volta arrivati laggiù, e così intavolò con lui un discorso anche sul modo migliore di ottenerla, e di questo parlerò a suo luogo; e dopo aver così frastornato il capitano gli disse che noi, benché infelici per le circostanze che ci costringevano ad andarcene, non eravamo tuttavia privi di mezzi per metterci a lavorare laggiù, ed eravamo decisi a stabilirci e a vivere come piantatori, se se ne trovava il modo. Il capitano prontamente offrì il suo aiuto, le spiegò il modo per cominciare a occuparsi di quel lavoro, le disse quant’era facile, anzi quant’era sicuro per gente laboriosa rifarsi in tal modo una fortuna. “Signora,” dice, “a nessuno in quel paese si rimprovera d’esservi arrivato in condizioni peggiori di quelle nelle quali vedo trovarsi i vostri cugini, purché quando arriva si dedichi con diligenza e buon senso al mestiere locale.”
Lei si informò allora su quel che dovevamo portare con noi, e lui, da persona onesta e pratica, così le disse: “Signora, i vostri cugini devono in primo luogo trovare qualcuno che li comperi come servi secondo i termini della loro deportazione, e poi, nel nome di quella persona, possono andare in giro a fare quello che vogliono; possono acquistare delle piantagioni già iniziate, oppure acquistare la terra dal governo del paese, incominciare da dove preferiscono, e tutt’e due son cose che si possono fare in modo ragionevole.” Lei gli domandò il suo appoggio per la prima questione, della quale lui promise di occuparsi personalmente, come per la verità lealmente fece, e quanto al resto promise di raccomandarsi a chi poteva darci consigli migliori, senza approfittarsi di noi, il che era il massimo che si potesse desiderare.
Lei gli domandò allora se non era necessario che ci provvedessimo di un assortimento di arnesi e materiali adatti per il lavoro di coltivatori, e lui disse: “Sì, certamente.” E lei gli chiese di dargli la sua assistenza. Disse che ci avrebbe provveduto lei di tutto quel che era necessario, qualunque prezzo le costasse. Lui le dette di conseguenza un lungo elenco particolareggiato delle cose che occorrevano ai piantatori, che secondo i suoi conti erano una spesa fra le ottanta e le cento sterline. A farla breve, lei si destreggiò abilmente nell’acquistarle, come fosse stata un vecchio mercante della Virginia; senonchè, per volere mio, di tutto quel che era segnato nella lista comperò più del doppio.
Imbarcò la roba a nome suo, ritirò le bollette di spedizione, le intestò a mio marito, assicurando poi il carico a nome proprio, per conto nostro; sicché eravamo preparati per qualunque evenienza e per qualunque disastro.
Avrei dovuto dire che mio marito le dette tutto il suo capitale di centootto sterline che, come ho detto, aveva con sé in monete d’oro, perché provvedesse a quel modo, e io le detti in più una buona somma; così non intaccai quello che avevo lasciato in mani sue ma, dopo aver messo insieme il nostro carico, avevamo ancora circa duecento sterline in contanti che erano più che sufficienti per i nostri scopi.
In tale situazione, tutti allegri, felici addirittura per esserci messi così bene a posto, veleggiammo da Bugby’s Hole a Gravesend, dove la nave rimase altri dieci giorni, e dove il capitano si imbarcò definitivamente. Lì il capitano ci usò anche una gentilezza che in verità non avevamo ragione di attenderci, e cioè di consentirci di scendere a terra a ristorarci, dopo avergli dato solennemente la nostra parola che non ce ne saremmo andati, e che saremmo tranquillamente tornati a bordo. Fu quella una tal prova di fiducia verso di noi da sbalordire mio marito, il quale, a titolo di pura gratitudine, disse che, siccome non sarebbe mai stato in grado di ricambiare adeguatamente un tale favore, non si sentiva di accettarlo, e non era ammissibile che il capitano corresse un simile rischio. Dopo uno scambio di gentilezze, io detti a mio marito una borsa nella quale c’erano ottanta ghinee, e lui la mise in mano al capitano. “Capitano,” dice, “ecco un modesto pegno, per la nostra lealtà; se dovessimo comportarci disonestamente al riguardo, è vostro.” E con ciò scendemmo a terra.