Moll Flanders (Collins Classics) (75 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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Avevo calcolato che, ricevendo la lettera, l’avrebbe subito data da leggere al figlio, perché avevo saputo che la vista gli si era offuscata e che non poteva leggere; ma andò anche meglio, perché, a motivo della vista offuscata, lui usava permettere al figlio di aprire tutte le lettere, e, trovandosi il vecchio fuori casa, o comunque altrove, quando il mio messo arrivò, la lettera capitò direttamente nelle mani di mio figlio, che la aprì e la lesse.

Fece entrare il messo, dopo averlo fatto aspettare un momento, e gli domandò dov’era la persona che gli aveva dato la lettera. Il messo gli disse il posto, che era a sette miglia di distanza, e lui gli disse allora di aspettare, e ordinò di preparare un cavallo, chiamò due servi e venne da me col messo. Lascio immaginare la mia costernazione quando arrivò il messo e mi disse di non aver trovato a casa il vecchio, ma che il figlio era venuto con lui e stava arrivando. Ero assolutamente sconvolta, perché non sapevo se si trattava di pace o di guerra, né capivo come era meglio comportarmi; ebbi comunque pochissimi istanti per riflettere, perché mio figlio era alle calcagna del messo e, entrato in casa, domandò qualcosa all’uomo sulla soglia. Credo che chiese, perché non sentii abbastanza da capire bene, chi era la signora che lo aveva mandato; il messo disse: “Eccola, signore.” Al che lui viene diretto verso di me, mi bacia, mi stringe fra le braccia, e mi abbraccia con tanto trasporto da non poter parlare, ma io sentii che gli batteva il cuore in petto come a un bambino che piange e singhiozza senza riuscire a gridare.

Non so esprimere né descrivere la gioia che mi invase l’animo quando mi accorsi, poiché non era difficile rendersene conto, che non veniva da me come estraneo, ma come un figlio dalla madre, e come un figlio, perdipiù, che non aveva mai saputo cosa significasse avere una madre; insomma, piangemmo l’uno sull’altro per un bel pezzo, finché fu lui a parlare per primo. “Mia cara madre,” dice, “sei ancora viva? Non avrei mai creduto di vedere la tua faccia.” Quanto a me, per un bel po’ non riuscii a dir nulla.

Quando ci fummo entrambi ripresi un poco, e fummo in grado di parlare, lui mi raccontò come stavano le cose. Per quel che avevo scritto io a suo padre, mi disse che non aveva fatto vedere la lettera al padre, e che non gli aveva detto niente; quello che sua nonna aveva lasciato a me, l’aveva lui in mani sue, e lui m’avrebbe dato tutto quello che mi spettava; il padre era vecchio e ammalato sia di corpo che di mente; era agitato e irascibile, quasi cieco, incapace di fare niente; lui si domandava se sarebbe stato capace, il padre, di regolarsi bene in una faccenda tanto speciale come quella; e per questo era venuto lui, sia per avere il piacere di vedermi, piacere al quale non aveva voluto rinunciare, sia per darmi modo di decidere, dopo aver saputo come stavano le cose, se rivelarmi o no a suo padre.

Ciò era stato fatto in modo prudente e saggio, sicché compresi che mio figlio era un uomo intelligente, e non aveva bisogno di consigli da me. Gli dissi che non mi meravigliava il fatto che suo padre fosse nello stato da lui descritto, perché già gli aveva dato un po’ di volta il cervello prima che io partissi; e, principalmente, la sua malattia era originata dal fatto che io non mi lasciai persuadere a nascondere la nostra parentela e a vivere con lui da moglie, dopo aver saputo di essere sua sorella; e, come lui sapeva meglio di me in che stato si trovava adesso suo padre, così io ero pronta a seguirlo in ogni azione che mi avrebbe suggerito lui; mi era indifferente vedere suo padre, dato che avevo già visto lui, e lui non avrebbe potuto darmi una notizia migliore di quella che quanto sua nonna aveva lasciato a me era affidato in mani sue, poiché, ora che lo conoscevo, non avevo il minimo dubbio che mi avrebbe dato, come aveva detto, tutto quel che mi spettava. Volli sapere poi da quanto tempo era morta mia madre, e dove era morta, e gli raccontai tanti particolari di famiglia che lo misi in condizione di non avere il minimo dubbio sul fatto che ero veramente sua madre.

Mio figlio volle sapere allora dove stavo e che cosa facevo. Gli dissi che abitavo sulla costa del Maryland della baia, alla piantagione di un certo amico che era giunto dall’Inghilterra con la mia stessa nave; da questa parte della baia dove stava lui, non avevo casa. Lui mi disse che potevo andare a casa con lui, e fermarmi da lui, se volevo, finché sarei vissuta; quanto a suo padre, non riconosceva nessuno e non si sarebbe nemmeno occupato di me. Io ci pensai un poco, e gli dissi che per quanto non mi facesse piacere vivere lontano da lui, non potevo tuttavia dire che sarebbe stata per me la cosa più piacevole del mondo vivere in casa sua, e aver sempre davanti agli occhi quel poveretto che era stato in passato un colpo così duro per la mia pace; sarei stata felice di godere della sua compagnia (di mio figlio) e di essergli più vicina possibile finché mi fermavo, ma non tolleravo l’idea di stare in una casa dove avrei dovuto continuamente controllarmi per paura di tradirmi parlando, e non pensavo di essere capace di evitare, conversando con lui come figlio, certe frasi, che avrebbero fatto scoprire tutta la faccenda, il che non sarebbe stato assolutamente opportuno.

Lui riconobbe che in tutto ciò avevo ragione. “Ma allora, mamma cara,” dice, “mi starai vicina il più possibile.” Così, a dorso di cavallo con sé mi condusse a una piantagione vicina alla sua, dove fui trattata altrettanto bene che se fossi stata nella sua. Lasciatami lì, se ne tornò a casa, dicendomi che della questione principale avremmo parlato il giorno dopo; non senza avermi chiamata zia, e avere dato ordine a quelle persone che a quanto pare erano suoi fittavoli, di trattarmi con ogni possibile riguardo. Due ore dopo essersene andato, mi mandò una cameriera e un ragazzo negro per il mio servizio, e provviste già preparate per la cena; e fu perciò come se mi trovassi in un mondo nuovo, e incominciai segretamente a desiderare di non aver condotto lì per nulla il mio marito del Lancashire.

Comunque non era nemmeno un desiderio troppo forte, perché amavo veramente il mio marito del Lancashire, come in verità lo avevo amato fin dal principio; e lui meritava da me tutto quel che può meritare un uomo; ma, insomma, era così.

La mattina dopo, venne di nuovo a trovarmi mio figlio che mi ero appena alzata. Dopo alcune frasi tirò fuori prima di tutto una borsa di pelle di daino, che conteneva cinquantacinque pistole spagnole e me la dette, e mi disse che quello era per rimborsarmi le spese di viaggio dall’Inghilterra, perché, sebbene non fosse affar suo saperlo, pensava tuttavia che io non avessi portato con me molto denaro, visto che non si usava arrivare con troppo denaro in quel paese. Poi tirò fuori il testamento della nonna e me lo lesse, dal quale risultò che quella mi aveva lasciato una piccola piantagione, così la chiamò, sul fiume York, e cioè quella dove aveva abitato mia madre, con la dotazione di servi e di bestiame, e l’aveva affidata a quel mio figliolo da consegnare a me, quando fosse venuto a sapere che ero viva, e ai miei eredi se avevo figli, o in mancanza di eredi a chiunque io avessi stabilito; assegnandone la rendita, finché non si avevano mie notizie o non mi si trovava, al mio detto figlio, e se io non ero viva, allora doveva andare a lui e ai suoi eredi.

Quella piantagione, benché lontana, lui mi disse di non averla data mai in affitto, ma di averla amministrata per mezzo di un intendente, come faceva per un’altra che era di suo padre, poco distante da quella, e tre o quattro volte l’anno andava di persona a dare un’occhiata. Io gli domandai quanto pensava che la piantagione potesse valere. Lui disse che, se volevo darla in affitto, poteva darmene sessanta sterline l’anno; ma, se volevo starci io, allora poteva valere molto di più, e, secondo lui, poteva rendere intorno alle centocinquanta sterline l’anno. Ma, siccome capiva che io volevo o stabilirmi sull’altro lato della baia, o magari ritornare in Inghilterra, se prendevo lui come intendente, me l’avrebbe amministrata come aveva già fatto per conto suo, ed era convinto di potermi spedire in Inghilterra tanto tabacco dal quale avrei potuto ricavare intorno alle cento sterline l’anno, e certe volte anche più.

Furono, quelle, notizie straordinarie per me, cose alle quali non ero abituata; e, veramente, mi sentii allargare il cuore come mai mi era capitato prima, e presi a considerare con immensa gratitudine la mano della Provvidenza che aveva compiuto tali prodigi per me, che invece ero stata un prodigio di dissolutezza, forse il più grande che sia mai esistito su questa terra. E devo di nuovo osservare, che non solo in quella occasione, ma in ogni altra occasione di gratitudine, la mia vita passata di corruzione e abominio, non mi apparve mai tanto mostruosa, né mai ne provai tale orrore, rimproverandomene, come quando ebbi coscienza che la Provvidenza mi faceva del bene, mentre io da parte mia l’avevo contraccambiata in modo tanto indegno.

Ma lascio da approfondire queste riflessioni ai lettori, che senza dubbio ne vedranno motivo, e vado al fatto. L’affettuosa condotta di mio figlio, e le sue gentili proposte, mi fecero venire le lacrime agli occhi, per tutto il tempo che lui mi parlò. In verità quasi non riuscivo a rivolgergli la parola se non fra un’emozione e l’altra; tuttavia alla fine ci riuscii, e, esprimendo la mia meraviglia per il fatto d’essere così felice perché ritrovavo proprio nelle mani del mio ragazzo ciò che avevo lasciato, gli dissi che quanto all’eredità di ciò, io non avevo al mondo altri figli che lui, e avevo ormai passata l’età di averne anche se mi fossi dovuta sposare, e di conseguenza volevo che lui scrivesse un documento, che io ero pronta a firmare, con il quale, alla mia morte, avrei lasciato tutto a lui e ai suoi eredi. E al tempo stesso sorridendo, gli domandai come mai fosse rimasto scapolo tanto a lungo. La sua risposta fu pronta e affettuosa, che in Virginia non c’era abbondanza di mogli, e che visto che io parlavo di tornarmene in Inghilterra, gliene mandassi una da Londra.

Quella fu la sostanza della nostra conversazione il primo giorno, il giorno più piacevole che io mi ricordi in vita mia, e che mi dette la più autentica soddisfazione. Lui tornò poi tutti i giorni, e trascorse con me gran parte del suo tempo, e mi condusse a casa di parecchi suoi amici dove fui trattata col più grande riguardo. Fui parecchie volte a cena a casa sua, e lui si preoccupò sempre di badare che quel mezzo morto di suo padre non ci fosse, in modo che lui non mi vedesse e che io non vedessi lui. Gli feci un regalo, l’unica cosa che avevo di valore, e cioè uno degli orologi d’oro che ho già detto che portavo in petto, e siccome mi capitava di averne con me uno, glielo detti alla sua terza visita. Gli dissi che non avevo di valore da offrirgli altro che quello, e gli domandai di baciarlo, di quando in quando, per amor mio. Non gli dissi per la verità che l’avevo rubato dal fianco di una signora in un locale pubblico di Londra. Tanto per dire.

Lui rimase un po’ esitante, come in dubbio se accettare o no; ma io insistetti, e glielo feci prendere, e non valeva poi troppo meno della sua borsa di pelle piena di monete d’oro spagnole; no, nemmeno se lo si valutava come se si fosse stati a Londra, mentre, là dove glielo regalai, valeva almeno il doppio. Alla fine lui lo prese, lo baciò, disse che quell’orologio sarebbe stato un debito per lui verso di me finché io sarei stata viva.

Pochi giorni dopo, mi portò i documenti della donazione, conducendo con sé il notaio, e io firmai più che volentieri e glieli consegnai con mille baci; infatti mai vi fu, tra una madre e un figlio tenero e rispettoso, rapporto più affettuoso di quello. Il giorno dopo, mi porta una obbligazione con la sua firma e il suo sigillo, nella quale si impegnava a condurre e a migliorare la piantagione per mio conto, con la massima perizia, e a farmene avere il reddito a mia richiesta ovunque io mi trovassi; e, nel contempo, si obbligava a procurarmi un reddito di almeno cento sterline l’anno. Fatto questo, mi disse che, siccome ero venuta a fare la mia richiesta prima del raccolto, avevo diritto al reddito dell’anno scorso, e mi pagò perciò cento sterline in pezzi spagnoli da otto, e volle che gli dessi una ricevuta totale per quell’anno, con la scadenza al prossimo Natale; eravamo allora verso la fine d’agosto.

Mi fermai lì circa cinque settimane, e per la verità non mi fu facile venirmene via. Lui avrebbe voluto attraversare la baia con me, ma io non glielo permisi assolutamente. Mi fece comunque partire in una barca di sua proprietà, che era fatta come un panfilo, e gli serviva sia per diporto che per affari. Questo l’accettai, e così, dopo avermi espresso di nuovo tutto il suo rispetto e tutto il suo amore, mi lasciò andar via, e in due giorni arrivai sana e salva dal mio amico quacchero.

Portai con me per uso della piantagione tre cavalli, con finimenti e selle, alcuni maiali, due mucche, e mille altre cose, dono del figlio più tenero e affettuoso che donna abbia mai avuto. Raccontai a mio marito tutti i particolari del viaggio, salvo che mio figlio lo chiamai mio cugino; e dapprima gli dissi che avevo perduto il mio orologio, cosa che lui sembrò considerare una disgrazia; ma poi gli dissi quant’era stato gentile mio cugino, come mia madre mi avesse lasciato quella piantagione e lui me l’avesse conservata, sperando di avere prima o poi mie notizie, gli dissi allora che l’avevo data da amministrare a lui, e che lui mi avrebbe dato conto fedelmente del reddito; infine, tirai fuori le cento sterline in monete d’argento come reddito del primo anno; e, tirando fuori poi la borsa di pelle di daino con le pistole, “E questo, mio caro,” dico, “è l’orologio d’oro.” Mio marito — tanto è vero che la bontà celeste opera immancabilmente il medesimo effetto su ogni animo sensibile quando il cuore è toccato dalla grazia — alzò entrambe le mani e in un impeto di gioia, “Ma guarda che cosa fa Dio,” dice, “per un cane ingrato come me!” Allora gli dissi anche che cosa avevo portato con la barca oltre quello; voglio dire i cavalli, i maiali, le mucche, e tutta l’altra roba per la nostra piantagione; tuttociò accrebbe la sua meraviglia e gli riempì il cuore di gratitudine; e sono certa che da quel momento in poi diventò un penitente sincero, un uomo totalmente trasformato, quale mai la bontà di Dio riuscì a ricavare da uno sciagurato, bandito e rapinatore. Potrei riempire un racconto più lungo di questo con le prove di questa verità, e, se non fosse perché temo che sarebbe una storia molto meno divertente della parte cattiva, potrei farne un altro libro.

Quanto a me, visto che questa è la storia mia, non quella di mio marito, ritorno alla parte che mi riguarda. Continuammo con la nostra piantagione, e ci regolammo in base ai consigli e all’aiuto di certi amici che ci facemmo laggiù grazie al nostro corretto comportamento, e specialmente del bravo quacchero, che si dimostrò per noi un amico fedele, generoso e sicuro; e avemmo un buon successo, perché siccome avevamo un ricco capitale per cominciare come ho detto, e adesso l’avevamo accresciuto con l’aggiunta delle centocinquanta sterline in contanti, aumentammo il numero dei servi, ci costruimmo una gran bella casa, e ogni anno iniziammo la coltivazione di un nuovo pezzo di terreno. Nel secondo anno scrissi alla mia vecchia governante, mettendola a parte della gioia della nostra riuscita e la incaricai di disporre del denaro che io le avevo lasciato, che erano più di duecentocinquanta sterline, e di farcelo avere in mercanzie, cosa che lei fece con la solita gentilezza e lealtà; e ci arrivò tutto benissimo.

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