Paradiso (67 page)

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Authors: Dante

BOOK: Paradiso
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L’aspetto del tuo nato, Iperïone,   

               
quivi sostenni, e vidi com’ si move

144
         
circa e vicino a lui Maia e Dïone.   

               
Quindi m’apparve il temperar di Giove   

               
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro   

147
         
il varïar che fanno di lor dove;

               
e tutti e sette mi si dimostraro   

               
quanto son grandi e quanto son veloci

150
         
e come sono in distante riparo.

               
L’aiuola che ci fa tanto feroci,   

               
volgendom’ io con li etterni Gemelli,   

               
tutta m’apparve da’ colli a le foci;

154
         
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.

PARADISO XXIII

               
Come l’augello, intra l’amate fronde,   

   

               
posato al nido de’ suoi dolci nati   

3
             
la notte che le cose ci nasconde,   

               
che, per veder li aspetti disïati   

               
e per trovar lo cibo onde li pasca,

6
             
in che gravi labor li sono aggrati,

               
previene il tempo in su aperta frasca,   

               
e con ardente affetto il sole aspetta,

9
             
fiso guardando pur che l’alba nasca;   

               
così la donna mïa stava eretta   

               
e attenta, rivolta inver’ la plaga   

12
           
sotto la quale il sol mostra men fretta:   

               
sì che, veggendola io sospesa e vaga,   

               
fecimi qual è quei che disïando

15
           
altro vorria, e sperando s’appaga.

               
Ma poco fu tra uno e altro quando,

               
del mio attender, dico, e del vedere

18
           
lo ciel venir più e più rischiarando;

               
e Bëatrice disse: “Ecco le schiere   

               
del trïunfo di Cristo e tutto ’l frutto   

21
           
ricolto del girar di queste spere!”

               
Pariemi che ’l suo viso ardesse tutto,   

               
e li occhi avea di letizia sì pieni,

24
           
che passarmen convien sanza costrutto.   

               
Quale ne’ plenilunïi sereni   

   

               
Trivïa ride tra le ninfe etterne

27
           
che dipingon lo ciel per tutti i seni,

               
vid’ i’ sopra migliaia di lucerne

               
un sol che tutte quante l’accendea,

30
           
come fa ’l nostro le viste superne;

               
e per la viva luce trasparea   

               
la lucente sustanza tanto chiara

33
           
nel viso mio, che non la sostenea.

               
Oh Bëatrice, dolce guida e cara!   

               
Ella mi disse: “Quel che ti sobranza   

36
           
è virtù da cui nulla si ripara.

               
Quivi è la sapïenza e la possanza   

               
ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra,

39
           
onde fu già sì lunga disïanza.”   

               
Come foco di nube si diserra   

               
per dilatarsi sì che non vi cape,

42
           
e fuor di sua natura in giù s’atterra,

               
la mente mia così, tra quelle dape   

               
fatta più grande, di sé stessa uscìo,

45
           
e che si fesse rimembrar non sape.   

               
“Apri li occhi e riguarda qual son io;   

               
tu hai vedute cose, che possente

48
           
se’ fatto a sostener lo riso mio.”

               
Io era come quei che si risente   

               
di visïone oblita e che s’ingegna   

51
           
indarno di ridurlasi a la mente,

               
quand’ io udi’ questa proferta, degna   

               
di tanto grato, che mai non si stingue

54
           
del libro che ’l preterito rassegna.   

               
Se mo sonasser tutte quelle lingue   

   

               
che Polimnïa con le suore fero   

57
           
del latte lor dolcissimo più pingue,

               
per aiutarmi, al millesmo del vero

               
non si verria, cantando il santo riso

60
           
e quanto il santo aspetto facea mero;

               
e così, figurando il paradiso,   

   

               
convien saltar lo sacrato poema,

63
           
come chi trova suo cammin riciso.

               
Ma chi pensasse il ponderoso tema   

               
e l’omero mortal che se ne carca,

66
           
nol biasmerebbe se sott’ esso trema:

               
non è pareggio da picciola barca   

   

               
quel che fendendo va l’ardita prora,

69
           
né da nocchier ch’a sé medesmo parca.

               
“Perché la faccia mia sì t’innamora,   

               
che tu non ti rivolgi al bel giardino   

72
           
che sotto i raggi di Cristo s’infiora?

               
Quivi è la rosa in che ’l verbo divino   

               
carne si fece; quivi son li gigli

75
           
al cui odor si prese il buon cammino.”

               
Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli

               
tutto era pronto, ancora mi rendei

78
           
a la battaglia de’ debili cigli.   

               
Come a raggio di sol, che puro mei   

               
per fratta nube, già prato di fiori

81
           
vider, coverti d’ombra, li occhi miei;

               
vid’ io così più turbe di splendori,   

               
folgorate di sù da raggi ardenti,

84
           
sanza veder principio di folgóri.

               
O benigna vertù che sì li ’mprenti,   

               
sù t’essaltasti per largirmi loco

87
           
a li occhi lì che non t’eran possenti.

               
Il nome del bel fior ch’io sempre invoco   

               
e mane e sera, tutto mi ristrinse

90
           
l’animo ad avvisar lo maggior foco;   

               
e come ambo le luci mi dipinse   

               
il quale e il quanto de la viva stella

93
           
che là sù vince come qua giù vinse,   

               
per entro il cielo scese una facella,

               
formata in cerchio a guisa di corona,   

96
           
e cinsela e girossi intorno ad ella.

               
Qualunque melodia più dolce suona   

               
qua giù e più a sé l’anima tira,

99
           
parrebbe nube che squarciata tona,

               
comparata al sonar di quella lira   

               
onde si coronava il bel zaffiro

102
         
del quale il ciel più chiaro s’inzaffira.

               
“Io sono amore angelico, che giro   

               
l’alta letizia che spira del ventre   

105
         
che fu albergo del nostro disiro;

               
e girerommi, donna del ciel, mentre

               
che seguirai tuo figlio, e farai dia   

108
         
più la spera supprema perché lì entre.”

               
Così la circulata melodia

               
si sigillava, e tutti li altri lumi   

111
         
facean sonare il nome di Maria.

               
Lo real manto di tutti i volumi   

   

               
del mondo, che più ferve e più s’avviva

114
         
ne l’alito di Dio e nei costumi,

               
avea sopra di noi l’interna riva   

               
tanto distante, che la sua parvenza,

117
         
là dov’ io era, ancor non appariva:

               
però non ebber li occhi miei potenza

               
di seguitar la coronata fiamma

120
         
che si levò appresso sua semenza.   

               
E come fantolin che ’nver’ la mamma   

               
tende le braccia, poi che ’l latte prese,

123
         
per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma;

               
ciascun di quei candori in sù si stese

               
con la sua cima, sì che l’alto affetto

126
         
ch’elli avieno a Maria mi fu palese.

               
Indi rimaser lì nel mio cospetto,

               
“Regina celi”
cantando sì dolce,   

129
         
che mai da me non si partì ’l diletto.

               
Oh quanta è l’ubertà che si soffolce   

   

               
in quelle arche ricchissime che fuoro

132
         
a seminar qua giù buone bobolce!   

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