Authors: Dante
Ed elli a me: “De l’etterno consiglio
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cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
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rimasa dietro, ond’ io sì m’assottiglio.
Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
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in fame e ’n sete qui si rifà santa.
Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
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che si distende su per sua verdura.
E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire
‘Elì,’
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quando ne liberò con la sua vena.”
E io a lui: “Forese, da quel dì
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nel qual mutasti mondo a miglior vita,
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cinqu’ anni non son vòlti infino a qui.
Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l’ora
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del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,
come se’ tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
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dove tempo per tempo si ristora.”
Ond’ elli a me: “Sì tosto m’ha condotto
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a ber lo dolce assenzo d’i martìri
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la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ha de la costa ove s’aspetta,
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e liberato m’ha de li altri giri.
Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
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quanto in bene operare è più soletta;
ché la Barbagia di Sardigna assai
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ne le femmine sue più è pudica
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che la Barbagia dov’ io la lasciai.
O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto,
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cui non sarà quest’ ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
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l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, par farle ir coperte,
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o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate fosser certe
di quel che ’l ciel veloce loro ammanna,
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già per urlare avrian le bocche aperte;
ché, se l’antiveder qui non m’inganna,
prima fien triste che le guance impeli
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colui che mo si consola con nanna.
Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
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tutta rimira là dove ’l sol veli.”
Per ch’io a lui: “Se tu riduci a mente
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qual fosti meco, e qual io teco fui,
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ancor fia grave il memorar presente.
Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l’altr’ ier, quando tonda
e ’l sol mostrai; “costui per la profonda
notte menato m’ha d’i veri morti
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con questa vera carne che ’l seconda.
Indi m’han tratto sù li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
Tanto dice di farmi sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice;
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quivi convien che sanza lui rimagna.
Virgilio è questi che così mi dice,”
e addita’lo; “e quest’ altro è quell’ ombra
per cuï scosse dianzi ogne pendice
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lo vostro regno, che da sé lo sgombra.”
Né ’l dir l’andar, né l’andar lui più lento
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facea, ma ragionando andavam forte,
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sì come nave pinta da buon vento;
e l’ombre, che parean cose rimorte,
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per le fosse de li occhi ammirazione
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traean di me, di mio vivere accorte.
E io, continüando al mio sermone,
dissi: “Ella sen va sù forse più tarda
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che non farebbe, per altrui cagione.
Ma dimmi, se tu sai, dov’ è Piccarda;
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dimmi s’io veggio da notar persona
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tra questa gente che sì mi riguarda.”
“La mia sorella, che tra bella e buona
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non so qual fosse più, trïunfa lieta
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ne l’alto Olimpo già di sua corona.”
Sì disse prima; e poi: “Qui non si vieta
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di nominar ciascun, da ch’è sì munta
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nostra sembianza via per la dïeta.
“Questi,” e mostrò col dito, “è Bonagiunta,
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Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
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l’anguille di Bolsena e la vernaccia.”
Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
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sì ch’io però non vidi un atto bruno.
Vidi per fame a vòto usar li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
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che pasturò col rocco molte genti.
Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio
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già di bere a Forlì con men secchezza,
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e sì fu tal, che non si sentì sazio.
Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza
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più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca,
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che più parea di me aver contezza.
El mormorava; e non so che “Gentucca”
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sentiv’ io là, ov’ el sentia la piaga
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de la giustizia che sì li pilucca.
“O anima,” diss’ io, “che par sì vaga
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di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
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e te e me col tuo parlare appaga.”
“Femmina è nata, e non porta ancor benda,”
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cominciò el, “che ti farà piacere
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la mia città, come ch’om la riprenda.
Tu te n’andrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
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dichiareranti ancor le cose vere.
Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
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trasse le nove rime, cominciando
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‘Donne ch’avete intelletto d’amore.’ ”
E io a lui: “I’ mi son un che, quando
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Amor mi spira, noto, e a quel modo
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ch’e’ ditta dentro vo significando.”
“O frate, issa vegg’ io,” diss’ elli, “il nodo
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che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
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di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
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che de le nostre certo non avvenne;
e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo”;
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e, quasi contentato, si tacette.
Come li augei che vernan lungo ’l Nilo,
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alcuna volta in aere fanno schiera,
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poi volan più a fretta e vanno in filo,
così tutta la gente che lì era,
volgendo ’l viso, raffrettò suo passo,
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e per magrezza e per voler leggera.
E come l’uom che di trottare è lasso,
lascia andar li compagni, e sì passeggia
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fin che si sfoghi l’affollar del casso,
sì lasciò trapassar la santa greggia
Forese, e dietro meco sen veniva,