Authors: Dante
nuvole spesse non paion né rade,
né coruscar, né figlia di Taumante,
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che di là cangia sovente contrade;
secco vapor non surge più avante
ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai,
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dov’ ha ’l vicario di Pietro le piante.
Trema forse più giù poco o assai;
ma per vento che ’n terra si nasconda,
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non so come, qua sù non tremò mai.
Tremaci quando alcuna anima monda
sentesi, sì che surga o che si mova
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per salir sù; e tal grido seconda.
De la mondizia sol voler fa prova,
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che, tutto libero a mutar convento,
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l’alma sorprende, e di voler le giova.
Prima vuol ben, ma non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
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come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son giaciuto a questa doglia
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cinquecent’ anni e più, pur mo sentii
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libera volontà di miglior soglia:
però sentisti il tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
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a quel Segnor, che tosto sù li ’nvii.”
Così ne disse; e però ch’el si gode
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tanto del ber quant’ è grande la sete,
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non saprei dir quant’ el mi fece prode.
E ’l savio duca: “Omai veggio la rete
che qui vi ’mpiglia e come si scalappia,
Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
“Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto
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del sommo rege, vendicò le fóra
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ond’ uscì ’l sangue per Giuda venduto,
col nome che più dura e più onora
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era io di là,” rispuose quello spirto,
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“famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio vocale spirto,
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che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
Al mio ardor fuor seme le faville,
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che mi scaldar, de la divina fiamma
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onde sono allumati più di mille;
de l’Eneïda dico, la qual mamma
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fummi, e fummi nutrice, poetando:
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sanz’ essa non fermai peso di dramma.
E per esser vivuto di là quando
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visse Virgilio, assentirei un sole
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più che non deggio al mio uscir di bando.”
Volser Virgilio a me queste parole
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con viso che, tacendo, disse “Taci”;
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ma non può tutto la virtù che vuole;
ché riso e pianto son tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca,
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che men seguon voler ne’ più veraci.
Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca;
per che l’ombra si tacque, e riguardommi
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ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca;
e “Se tanto labore in bene assommi,”
disse, “perché la tua faccia testeso
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un lampeggiar di riso dimostrommi?”
Or son io d’una parte e d’altra preso:
l’una mi fa tacer, l’altra scongiura
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ch’io dica; ond’ io sospiro, e sono inteso
dal mio maestro, e “Non aver paura,”
mi dice, “di parlar; ma parla e digli
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quel ch’e’ dimanda con cotanta cura.”
Ond’ io: “Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch’io fei;
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ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
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forte a cantar de li uomini e d’i dèi.
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
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quelle parole che di lui dicesti.”
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
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al mio dottor, ma el li disse: “Frate,
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non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi.”
Ed ei surgendo: “Or puoi la quantitate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’ io dismento nostra vanitate,
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trattando l’ombre come cosa salda.”
Già era l’angel dietro a noi rimaso,
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l’angel che n’avea vòlti al sesto giro,
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avendomi dal viso un colpo raso;
e quei c’hanno a giustizia lor disiro
detto n’avea beati, le sue voci
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con
‘sitiunt,’
sanz’altro, ciò forniro.
E io più lieve che per l’altre foci
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m’andava, sì che sanz’alcun labore
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seguiva in sù li spiriti veloci;
quando Virgilio incominciò: “Amore,
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acceso di virtù, sempre altro accese,
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pur che la fiamma sua paresse fore;
onde da l’ora che tra noi discese
nel limbo de lo ’nferno Giovenale,
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che la tua affezion mi fé palese,
mia benvoglienza inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
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sì ch’or mi parran corte queste scale.
Ma dimmi, e come amico mi perdona
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se troppo sicurtà m’allarga il freno,
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e come amico omai meco ragiona:
come poté trovar dentro al tuo seno
loco avarizia, tra cotanto senno
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di quanto per tua cura fosti pieno?”
Queste parole Stazio mover fenno
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un poco a riso pria; poscia rispuose:
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“Ogne tuo dir d’amor m’è caro cenno.
Veramente più volte appaion cose
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che danno a dubitar falsa matera
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per le vere ragion che son nascose.
La tua dimanda tuo creder m’avvera
esser ch’i’ fossi avaro in l’altra vita,
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forse per quella cerchia dov’ io era.
Or sappi ch’avarizia fu partita
troppo da me, e questa dismisura
E se non fosse ch’io drizzai mia cura,
quand’io intesi là dove tu chiame,
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crucciato quasi a l’umana natura:
‘Per che non reggi tu, o sacra fame
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de l’oro, l’appetito de’ mortali?’,
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voltando sentirei le giostre grame.
Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali
potean le mani a spendere, e pente’mi
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così di quel come de li altri mali.
Quanti risurgeran coi crini scemi
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per ignoranza, che di questa pecca
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toglie ’l penter vivendo e ne li stremi!
E sappie che la colpa che rimbecca
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per dritta opposizione alcun peccato,
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con esso insieme qui suo verde secca;
però, s’io son tra quella gente stato
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che piange l’avarizia, per purgarmi,
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per lo contrario suo m’è incontrato.”
“Or quando tu cantasti le crude armi
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de la doppia trestizia di Giocasta,”
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disse ’l cantor de’ buccolici carmi,