Purgatorio (58 page)

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Authors: Dante

BOOK: Purgatorio
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Pur
“Agnus Dei”
eran le loro essordia;   

               
una parola in tutte era e un modo,

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sì che parea tra esse ogne concordia.

               
“Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?”

               
diss’ io. Ed elli a me: “Tu vero apprendi,

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e d’iracundia van solvendo il nodo.”

               
“Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi,   

               
e di noi parli pur come se tue

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partissi ancor lo tempo per calendi?”

               
Così per una voce detto fue;

               
onde ’l maestro mio disse: “Rispondi,

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e domanda se quinci si va sùe.”

               
E io: “O creatura che ti mondi   

               
per tornar bella a colui che ti fece,

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maraviglia udirai, se mi secondi.”

               
“Io ti seguiterò quanto mi lece,”

               
rispuose; “e se veder fummo non lascia

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l’udir ci terrà giunti in quella vece.”

               
Allora incominciai: “Con quella fascia   

               
che la morte dissolve men vo suso,

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e venni qui per l’infernale ambascia.

               
E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso,

               
tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte   

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per modo tutto fuor del moderno uso,

               
non mi celar chi fosti anzi la morte,

               
ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco;

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e tue parole fier le nostre scorte.”

               
“Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;   

               
del mondo seppi, e quel valore amai   

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al quale ha or ciascun disteso l’arco.

               
Per montar sù dirittamente vai.”

               
Così rispuose, e soggiunse: “I’ ti prego

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che per me prieghi quando sù sarai.”   

               
E io a lui: “Per fede mi ti lego

               
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio   

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dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.

               
Prima era scempio, e ora è fatto doppio

               
ne la sentenza tua, che mi fa certo

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qui, e altrove, quello ov’ io l’accoppio.

               
Lo mondo è ben così tutto diserto

               
d’ogne virtute, come tu mi sone,

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e di malizia gravido e coverto;

               
ma priego che m’addite la cagione,

               
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;

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ché nel cielo uno, e un qua giù la pone.”

               
Alto sospir, che duolo strinse in “uhi!”   

               
mise fuor prima; e poi cominciò: “Frate,

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lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.

               
Voi che vivete ogne cagion recate   

   

               
pur suso al cielo, pur come se tutto

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movesse seco di necessitate.

               
Se così fosse, in voi fora distrutto

               
libero arbitrio, e non fora giustizia

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per ben letizia, e per male aver lutto.

               
Lo cielo i vostri movimenti inizia;

               
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,

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lume v’è dato a bene e a malizia,

               
e libero voler; che, se fatica

               
ne le prime battaglie col ciel dura,

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poi vince tutto, se ben si notrica.

               
A maggior forza e a miglior natura   

               
liberi soggiacete; e quella cria

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la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.

               
Però, se ’l mondo presente disvia,   

               
in voi è la cagione, in voi si cheggia;

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e io te ne sarò or vera spia.

               
Esce di mano a lui che la vagheggia   

               
prima che sia, a guisa di fanciulla

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che piangendo a ridendo pargoleggia,

               
l’anima semplicetta che sa nulla,

               
salvo che, mossa da lieto fattore,

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volontier torna a ciò che la trastulla.

               
Di picciol bene in pria sente sapore;   

               
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,

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se guida o fren non torce suo amore.

               
Onde convenne legge per fren porre;   

               
convenne rege aver, che discernesse

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de la vera cittade almen la torre.

               
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?   

               
Nullo, però che ’l pastor che procede,

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rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;

               
per che la gente, che sua guida vede   

               
pur a quel ben fedire ond’ ella è ghiotta,

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di quel si pasce, e più oltre non chiede.

               
Ben puoi veder che la mala condotta

               
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,

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e non natura che ’n voi sia corrotta.

               
Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,   

               
due soli aver, che l’una e l’altra strada

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facean vedere, e del mondo e di Deo.

               
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada   

               
col pasturale, e l’un con l’altro insieme

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per viva forza mal convien che vada;

               
però che, giunti, l’un l’altro non teme:

               
se non mi credi, pon mente a la spiga,

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ch’ogn’ erba si conosce per lo seme.

               
In sul paese ch’Adice e Po riga,   

               
solea valore e cortesia trovarsi,

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prima che Federigo avesse briga;

               
or può sicuramente indi passarsi

               
per qualunque lasciasse, per vergogna,

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di ragionar coi buoni o d’appressarsi.

               
Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna   

               
l’antica età la nova, e par lor tardo

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che Dio a miglior vita li ripogna:

               
Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo

               
e Guido da Castel, che mei si noma,

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francescamente, il semplice Lombardo.

               
Dì oggimai che la Chiesa di Roma,   

               
per confondere in sé due reggimenti,

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cade nel fango, e sé brutta e la soma.”

               
“O Marco mio,” diss’ io, “bene argomenti;

               
e or discerno perché dal retaggio   

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li figli di Levì furono essenti.

               
Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio   

               
di’ ch’è rimaso de la gente spenta,

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in rimprovèro del secol selvaggio?”

               
“O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta,”

               
rispuose a me; “ché parlandomi tosco,

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par che del buon Gherardo nulla senta.

               
Per altro sopranome io nol conosco,

               
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia.

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Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.   

               
Vedi l’albor che per lo fummo raia

               
già biancheggiare, e me convien partirmi

               
(l’angelo è ivi) prima ch’io li paia.”

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Così tornò, e più non volle udirmi.

PURGATORIO XVII

               
Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe   

               
ti colse nebbia per la qual vedessi

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non altrimenti che per pelle talpe,

               
come, quando i vapori umidi e spessi

               
a diradar cominciansi, la spera

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del sol debilemente entra per essi;

               
e fia la tua imagine leggera

               
in giugnere a veder com’ io rividi

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lo sole in pria, che già nel corcar era.

               
Sì, pareggiando i miei co’ passi fidi   

               
del mio maestro, usci’ fuor di tal nube

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ai raggi morti già ne’ bassi lidi.

               
O imaginativa che ne rube   

               
talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge

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perché dintorno suonin mille tube,

               
chi move te, se ’l senso non ti porge?

               
Moveti lume che nel ciel s’informa,

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per sé o per voler che giù lo scorge.

               
De l’empiezza di lei che mutò forma   

   

               
ne l’uccel ch’a cantar più si diletta,

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ne l’imagine mia apparve l’orma;

               
e qui fu la mia mente sì ristretta

               
dentro da sé, che di fuor non venìa

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cosa che fosse allor da lei ricetta.

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