Authors: Dante
Pur
“Agnus Dei”
eran le loro essordia;
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una parola in tutte era e un modo,
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sì che parea tra esse ogne concordia.
“Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?”
diss’ io. Ed elli a me: “Tu vero apprendi,
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e d’iracundia van solvendo il nodo.”
“Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi,
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e di noi parli pur come se tue
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partissi ancor lo tempo per calendi?”
Così per una voce detto fue;
onde ’l maestro mio disse: “Rispondi,
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e domanda se quinci si va sùe.”
E io: “O creatura che ti mondi
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per tornar bella a colui che ti fece,
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maraviglia udirai, se mi secondi.”
“Io ti seguiterò quanto mi lece,”
rispuose; “e se veder fummo non lascia
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l’udir ci terrà giunti in quella vece.”
Allora incominciai: “Con quella fascia
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che la morte dissolve men vo suso,
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e venni qui per l’infernale ambascia.
E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso,
tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte
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per modo tutto fuor del moderno uso,
non mi celar chi fosti anzi la morte,
ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco;
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e tue parole fier le nostre scorte.”
“Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;
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del mondo seppi, e quel valore amai
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al quale ha or ciascun disteso l’arco.
Per montar sù dirittamente vai.”
Così rispuose, e soggiunse: “I’ ti prego
E io a lui: “Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
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dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.
Prima era scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
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qui, e altrove, quello ov’ io l’accoppio.
Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
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e di malizia gravido e coverto;
ma priego che m’addite la cagione,
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
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ché nel cielo uno, e un qua giù la pone.”
Alto sospir, che duolo strinse in “uhi!”
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mise fuor prima; e poi cominciò: “Frate,
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lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.
Voi che vivete ogne cagion recate
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pur suso al cielo, pur come se tutto
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movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
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per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,
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lume v’è dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
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poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza e a miglior natura
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liberi soggiacete; e quella cria
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la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.
Però, se ’l mondo presente disvia,
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in voi è la cagione, in voi si cheggia;
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e io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a lui che la vagheggia
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prima che sia, a guisa di fanciulla
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che piangendo a ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
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volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;
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quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
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se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne legge per fren porre;
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convenne rege aver, che discernesse
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de la vera cittade almen la torre.
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
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Nullo, però che ’l pastor che procede,
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rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;
per che la gente, che sua guida vede
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pur a quel ben fedire ond’ ella è ghiotta,
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di quel si pasce, e più oltre non chiede.
Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
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e non natura che ’n voi sia corrotta.
Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
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due soli aver, che l’una e l’altra strada
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facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
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col pasturale, e l’un con l’altro insieme
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per viva forza mal convien che vada;
però che, giunti, l’un l’altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
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ch’ogn’ erba si conosce per lo seme.
In sul paese ch’Adice e Po riga,
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solea valore e cortesia trovarsi,
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prima che Federigo avesse briga;
or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna,
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di ragionar coi buoni o d’appressarsi.
Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
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l’antica età la nova, e par lor tardo
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che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
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francescamente, il semplice Lombardo.
Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
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per confondere in sé due reggimenti,
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cade nel fango, e sé brutta e la soma.”
“O Marco mio,” diss’ io, “bene argomenti;
e or discerno perché dal retaggio
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li figli di Levì furono essenti.
Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
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di’ ch’è rimaso de la gente spenta,
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in rimprovèro del secol selvaggio?”
“O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta,”
rispuose a me; “ché parlandomi tosco,
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par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io nol conosco,
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia.
Vedi l’albor che per lo fummo raia
già biancheggiare, e me convien partirmi
(l’angelo è ivi) prima ch’io li paia.”
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Così tornò, e più non volle udirmi.
Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe
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ti colse nebbia per la qual vedessi
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non altrimenti che per pelle talpe,
come, quando i vapori umidi e spessi
a diradar cominciansi, la spera
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del sol debilemente entra per essi;
e fia la tua imagine leggera
in giugnere a veder com’ io rividi
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lo sole in pria, che già nel corcar era.
Sì, pareggiando i miei co’ passi fidi
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del mio maestro, usci’ fuor di tal nube
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ai raggi morti già ne’ bassi lidi.
O imaginativa che ne rube
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talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge
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perché dintorno suonin mille tube,
chi move te, se ’l senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel s’informa,
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per sé o per voler che giù lo scorge.