Purgatorio (53 page)

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Authors: Dante

BOOK: Purgatorio
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la qual fa del non ver vera rancura

               
nascere ’n chi la vede; così fatti

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vid’ io color, quando puosi ben cura.

               
Vero è che più e meno eran contratti   

               
secondo ch’avien più e meno a dosso;

               
e qual più pazïenza avea ne li atti,   

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piangendo parea dicer: “Più non posso.”

PURGATORIO XI

               
“O Padre nostro, che ne’ cieli stai,   

               
non circunscritto, ma per più amore

3
             
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,

               
laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore   

               
da ogne creatura, com’ è degno

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di render grazie al tuo dolce vapore.

               
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,

               
ché noi ad essa non potem da noi,

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s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.

               
Come del suo voler li angeli tuoi

               
fan sacrificio a te, cantando
osanna
,   

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così facciano li uomini de’ suoi.

               
Dà oggi a noi la cotidiana manna,   

               
sanza la qual per questo aspro diserto

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a retro va chi più di gir s’affanna.

               
E come noi lo mal ch’avem sofferto

               
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona

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benigno, e non guardar lo nostro merto.

               
Nostra virtù che di legger s’adona,   

               
non spermentar con l’antico avversaro,

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ma libera da lui che sì la sprona.

               
Quest’ ultima preghiera, segnor caro,

               
già non si fa per noi, ché non bisogna,

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ma per color che dietro a noi restaro.”

               
Così a sé e noi buona ramogna   

               
quell’ ombre orando, andavan sotto ’l pondo,

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simile a quel che talvolta si sogna,   

               
disparmente angosciate tutte a tondo   

               
e lasse su per la prima cornice,

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purgando la caligine del mondo.

               
Se di là sempre ben per noi si dice,   

               
di qua che dire e far per lor si puote

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da quei c’hanno al voler buona radice?

               
Ben si de’ loro atar lavar le note

               
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,

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possano uscire a le stellate ruote.

               
“Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi   

               
tosto, sì che possiate muover l’ala,

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che secondo il disio vostro vi lievi,

               
mostrate da qual mano inver’ la scala

               
si va più corto; e se c’è più d’un varco,

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quel ne ’nsegnate che men erto cala;

               
ché questi che vien meco, per lo ’ncarco

               
de la carne d’Adamo onde si veste,

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al montar sù, contra sua voglia, è parco.”

               
Le lor parole, che rendero a queste   

               
che dette avea colui cu’ io seguiva,

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non fur da cui venisser manifeste;

               
ma fu detto: “A man destra per la riva

               
con noi venite, e troverete il passo

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possibile a salir persona viva.

               
E s’io non fossi impedito dal sasso

               
che la cervice mia superba doma,   

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onde portar convienmi il viso basso,

               
cotesti, ch’ancor vive e non si noma,

               
guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco,

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e per farlo pietoso a questa soma.

               
Io fui latino e nato d’un gran Tosco:   

               
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;

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non so se ’l nome suo già mai fu vosco.

               
L’antico sangue e l’opere leggiadre

               
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,

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che, non pensando a la comune madre,

               
ogn’ uomo ebbi in despetto tanto avante,

               
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,

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e sallo in Campagnatico ogne fante.

               
Io sono Omberto; e non pur a me danno

               
superbia fa, ché tutti miei consorti

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ha ella tratti seco nel malanno.

               
E qui convien ch’io questo peso porti   

               
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,

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poi ch’io nol fe’ tra ’ vivi, qui tra ’ morti.”

               
Ascoltando chinai in giù la faccia;   

               
e un di lor, non questi che parlava,   

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si torse sotto il peso che li ’mpaccia,

               
e videmi e conobbemi e chiamava,

               
tenendo li occhi con fatica fisi

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a me che tutto chin con loro andava.

               
“Oh!” diss’io lui, “non se’ tu Oderisi,   

               
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’ arte

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ch’alluminar chiamata è in Parisi?”

               
“Frate,” diss’ elli, “più ridon le carte   

               
che pennelleggia Franco Bolognese;

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l’onore è tutto or suo, e mio in parte.

               
Ben non sare’ io stato sì cortese

               
mentre ch’io vissi, per lo gran disio

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de l’eccellenza ove mio core intese.

               
Di tal superbia qui si paga il fio;   

               
e ancor non sarei qui, se non fosse

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che, possendo peccar, mi volsi a Dio.

               
Oh vana gloria de l’umane posse!   

               
com’ poco verde in su la cima dura,

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se non è giunta da l’etati grosse!

               
Credette Cimabue ne la pittura   

               
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

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sì che la fama di colui è scura.

               
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido   

               
la gloria de la lingua; e forse è nato

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chi l’uno e l’altro caccerà del nido.   

               
Non è il mondan romore altro ch’un fiato   

               
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,

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e muta nome perché muta lato.

               
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi

               
da te la carne, che se fossi morto

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anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ’l ‘dindi,’   

               
pria che passin mill’ anni? ch’è più corto

               
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia

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al cerchio che più tardi in cielo è torto.

               
Colui che del cammin sì poco piglia   

               
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;

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e ora a pena in Siena sen pispiglia,

               
ond’ era sire quando fu distrutta

               
la rabbia fiorentina, che superba

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fu a quel tempo sì com’ ora è putta.

               
La vostra nominanza è color d’erba,   

               
che viene e va, e quei la discolora

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per cui ella esce de la terra acerba.”

               
E io a lui: “Tuo vero dir m’incora   

               
bona umiltà, e gran tumor m’appiani;

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ma chi è quei di cui tu parlavi ora?”

               
“Quelli è,” rispuose, “Provenzan Salvani;

               
ed è qui perché fu presuntüoso

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a recar Siena tutta a le sue mani.

               
Ito è così e va, sanza riposo,

               
poi che morì; cotal moneta rende

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a sodisfar chi è di là troppo oso.”   

               
E io: “Se quello spirito ch’attende,   

               
pria che si penta, l’orlo de la vita,

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qua giù dimora e qua sù non ascende,

               
se buona orazïon lui non aita,

               
prima che passi tempo quanto visse,

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come fu la venuta lui largita?”

               
“Quando vivea più glorïoso,” disse,   

               
“liberamente nel Campo di Siena,

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ogne vergogna diposta, s’affisse;   

               
e lì, per trar l’amico suo di pena,

               
ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,

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si condusse a tremar per ogne vena.

               
Più non dirò, e scuro so che parlo;   

               
ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini

               
faranno sì che tu potrai chiosarlo.

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Quest’ opera li tolse quei confini.”

PURGATORIO XII

               
Di pari, come buoi che vanno a giogo,   

               
m’andava io con quell’ anima carca,

3
             
fin che ’l sofferse il dolce pedagogo.

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