Purgatorio (49 page)

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Authors: Dante

BOOK: Purgatorio
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giusto giudicio da le stelle caggia

               
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,

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tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!

               
Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,   

               
per cupidigia di costà distretti,

105
         
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.

               
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,   

   

               
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:

108
         
color già tristi, e questi con sospetti!

               
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura   

               
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;

111
         
e vedrai Santafior com’ è oscura!

               
Vieni a veder la tua Roma che piagne   

               
vedova e sola, e dì e notte chiama:

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“Cesare mio, perché non m’accompagne?”

               
Vieni a veder la gente quanto s’ama!   

               
e se nulla di noi pietà ti move,

117
         
a vergognar ti vien de la tua fama.

               
E se licito m’è, o sommo Giove   

               
che fosti in terra per noi crucifisso,

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son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

               
O è preparazion che ne l’abisso

               
del tuo consiglio fai per alcun bene

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in tutto de l’accorger nostro scisso?

               
Ché le città d’Italia tutte piene   

               
son di tiranni, e un Marcel diventa

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ogne villan che parteggiando viene.

               
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta   

               
di questa digression che non ti tocca,

129
         
mercé del popol tuo che si argomenta.

               
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca

               
per non venir sanza consiglio a l’arco;

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ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.

               
Molti rifiutan lo comune incarco;

               
ma il popol tuo solicito risponde

135
         
sanza chiamare, e grida: “I’ mi sobbarco!”   

               
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:

               
tu ricca, tu con pace e tu con senno!

138
         
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.

               
Atene e Lacedemona, che fenno   

               
l’antiche leggi e furon sì civili,

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fecero al viver bene un picciol cenno

               
verso di te, che fai tanto sottili

               
provedimenti, ch’a mezzo novembre

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non giugne quel che tu d’ottobre fili.

               
Quante volte, del tempo che rimembre,

               
legge, moneta, officio e costume

147
         
hai tu mutato, e rinovate membre!

               
E se ben ti ricordi e vedi lume,   

               
vedrai te somigliante a quella inferma

               
che non può trovar posa in su le piume,

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ma con dar volta suo dolore scherma.

PURGATORIO VII

               
Poscia che l’accoglienze oneste e liete   

               
furo iterate tre e quattro volte,

3
             
Sordel si trasse, e disse: “Voi, chi siete?”

               
“Anzi che a questo monte fosser volte   

               
l’anime degne di salire a Dio,

6
             
fur l’ossa mie per Ottavian sepolte.

               
Io son Virgilio; e per null’ altro rio   

               
lo ciel perdei che per non aver fé.”   

9
             
Così rispuose allora il duca mio.   

               
Qual è colui che cosa innanzi sé

               
sùbita vede ond’ e’ si maraviglia,

12
           
che crede e non, dicendo “Ella è…non è…,”

               
tal parve quelli; e poi chinò le ciglia,

               
e umilmente ritornò ver’ lui,

15
           
e abbracciòl là ’ve ’l minor s’appiglia.   

               
“O gloria di Latin,” disse, “per cui   

               
mostrò ciò che potea la lingua nostra,

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o pregio etterno del loco ond’ io fui,

               
qual merito o qual grazia mi ti mostra?

               
S’io son d’udir le tue parole degno,

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dimmi se vien d’inferno, e di qual chiostra.”   

               
“Per tutt’ i cerchi del dolente regno,”   

               
rispuose lui, “son io di qua venuto;

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virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.

               
Non per far, ma per non fare ho perduto   

               
a veder l’alto Sol che tu disiri

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e che fu tardi per me conosciuto.

               
Luogo è là giù non tristo di martìri,   

               
ma di tenebre solo, ove i lamenti

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non suonan come guai, ma son sospiri.

               
Quivi sto io coi pargoli innocenti

               
dai denti morsi de la morte avante

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che fosser da l’umana colpa essenti;

               
quivi sto io con quei che le tre sante

               
virtù non si vestiro, e sanza vizio

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conobber l’altre e seguir tutte quante.

               
Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio

               
dà noi per che venir possiam più tosto

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là dove purgatorio ha dritto inizio.”

               
Rispuose: “Loco certo non c’è posto;   

               
licito m’è andar suso e intorno;

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per quanto ir posso, a guida mi t’accosto.

               
Ma vedi già come dichina il giorno,

               
e andar sù di notte non si puote;   

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però è buon pensar di bel soggiorno.

               
Anime sono a destra qua remote;   

               
se mi consenti, io ti merrò ad esse,

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e non sanza diletto ti fier note.”

               
“Com’è ciò?” fu risposto. “Che volesse   

               
salir di notte, fora elli impedito

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d’altrui, o non sarria ché non potesse?”

               
E ’l buon Sordello in terra fregò ’l dito,   

               
dicendo: “Vedi? sola questa riga

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non varcheresti dopo ’l sol partito:

               
non però ch’altra cosa desse briga,

               
che la notturna tenebra, ad ir suso;

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quella col nonpoder la voglia intriga.

               
Ben si poria con lei tornare in giuso

               
e passeggiar la costa intorno errando,

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mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso.”

               
Allora il mio segnor, quasi ammirando,

               
“Menane,” disse, “dunque là ’ve dici

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ch’aver si può diletto dimorando.”

               
Poco allungati c’eravam di lici,   

               
quand’ io m’accorsi che ’l monte era scemo,

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a guisa che i vallon li sceman quici.

               
“Colà,” disse quell’ ombra, “n’anderemo

               
dove la costa face di sé grembo;

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e là il novo giorno attenderemo.”

               
Tra erto e piano era un sentiero schembo,

               
che ne condusse in fianco de la lacca,

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là dove più ch’a mezzo muore il lembo.

               
Oro e argento fine, cocco e biacca,   

               
indaco, legno lucido e sereno,

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fresco smeraldo in l’ora che si fiacca,

               
da l’erba e da li fior, dentr’ a quel seno

               
posti, ciascun saria di color vinto,

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come dal suo maggiore è vinto il meno.

               
Non avea pur natura ivi dipinto,   

               
ma di soavità di mille odori

81
           
vi facea uno incognito e indistinto.

               
“Salve, Regina”
in sul verde e ’n su’ fiori   

               
quindi seder cantando anime vidi,

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che per la valle non parean di fuori.

               
“Prima che ’l poco sole omai s’annidi,”

               
cominciò ’l Mantoan che ci avea vòlti,   

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“tra color non vogliate ch’io vi guidi.   

               
Di questo balzo meglio li atti e ’ volti

               
conoscerete voi di tutti quanti,

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che ne la lama giù tra essi accolti.

               
Colui che più siede alto e fa sembianti   

               
d’aver negletto ciò che far dovea,

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e che non move bocca a li altrui canti,

               
Rodolfo imperador fu, che potea

               
sanar le piaghe c’hanno Italia morta,   

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sì che tardi per altri si ricrea.

               
L’altro che ne la vista lui conforta,   

               
resse la terra dove l’acqua nasce

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che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:

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