Purgatorio (44 page)

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Authors: Dante

BOOK: Purgatorio
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Lunga la barba e di pel bianco mista   

               
portava, a’ suoi capelli simigliante,

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de’ quai cadeva al petto doppia lista.

               
Li raggi de le quattro luci sante   

               
fregiavan sì la sua faccia di lume,

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ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.

               
“Chi siete voi che contro al cieco fiume   

               
fuggita avete la pregione etterna?”

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diss’ el, movendo quelle oneste piume.

               
“Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna,

               
uscendo fuor de la profonda notte

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che sempre nera fa la valle inferna?

               
Son le leggi d’abisso così rotte?   

               
o è mutato in ciel novo consiglio,

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che, dannati, venite a le mie grotte?”

               
Lo duca mio allor mi diè di piglio,   

               
e con parole e con mani e con cenni

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reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio.

               
Poscia rispuose lui: “Da me non venni:   

               
donna scese del ciel, per li cui prieghi

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de la mia compagnia costui sovvenni.

               
Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi

               
di nostra condizion com’ ell’ è vera,

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esser non puote il mio che a te si nieghi.

               
Questi non vide mai l’ultima sera;   

               
ma per la sua follia le fu sì presso,

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che molto poco tempo a volger era.

               
Sì com’ io dissi, fui mandato ad esso

               
per lui campare; e non lì era altra via

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che questa per la quale i’ mi son messo.

               
Mostrata ho lui tutta la gente ria;

               
e ora intendo mostrar quelli spirti

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che purgan sé sotto la tua balìa.   

               
Com’ io l’ho tratto, saria lungo a dirti;

               
de l’alto scende virtù che m’aiuta   

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conducerlo a vederti e a udirti.

               
Or ti piaccia gradir la sua venuta:

               
libertà va cercando, ch’è sì cara,   

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come sa chi per lei vita rifiuta.

               
Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara

               
in Utica la morte, ove lasciasti

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la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.   

               
Non son li editti etterni per noi guasti,

               
ché questi vive e Minòs me non lega;   

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ma son del cerchio ove son li occhi casti   

               
di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,

               
o santo petto, che per tua la tegni:

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per lo suo amore adunque a noi ti piega.

               
Lasciane andar per li tuoi sette regni;

               
grazie riporterò di te a lei,

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se d’esser mentovato là giù degni.”

               
“Marzïa piacque tanto a li occhi miei   

               
mentre ch’i’ fu’ di là,” diss’ elli allora,

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“che quante grazie volse da me, fei.

               
Or che di là dal mal fiume dimora,

               
più muover non mi può, per quella legge

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che fatta fu quando me n’usci’ fora.

               
Ma se donna del ciel ti move e regge,

               
come tu di’, non c’è mestier lusinghe:

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bastisi ben che per lei mi richegge.

               
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe   

               
d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,

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sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;

               
ché non si converria, l’occhio sorpriso

               
d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo

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ministro, ch’è di quei di paradiso.

               
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,   

               
là giù colà dove la batte l’onda,

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porta di giunchi sovra ’l molle limo:

               
null’ altra pianta che facesse fronda

               
o indurasse, vi puote aver vita,

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però ch’a le percosse non seconda.

               
Poscia non sia di qua vostra reddita;

               
lo sol vi mosterrà, che surge omai,   

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prendere il monte a più lieve salita.”

               
Così sparì; e io sù mi levai   

               
sanza parlare, e tutto mi ritrassi

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al duca mio, e li occhi a lui drizzai.

               
El cominciò: “Figliuol, segui i miei passi:

               
volgianci in dietro, ché di qua dichina

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questa pianura a’ suoi termini bassi.”

               
L’alba vinceva l’ora mattutina   

               
che fuggia innanzi, sì che di lontano

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conobbi il tremolar de la marina.

               
Noi andavam per lo solingo piano   

               
com’ om che torna a la perduta strada,

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che ’nfino ad essa li pare ire in vano.

               
Quando noi fummo là ’ve la rugiada   

               
pugna col sole, per essere in parte

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dove, ad orezza, poco si dirada,

               
ambo le mani in su l’erbetta sparte   

               
soavemente ’l mio maestro pose:

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ond’ io, che fui accorto di sua arte,

               
porsi ver’ lui le guance lagrimose;

               
ivi mi fece tutto discoverto

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quel color che l’inferno mi nascose.

               
Venimmo poi in sul lito diserto,   

               
che mai non vide navicar sue acque

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omo, che di tornar sia poscia esperto.

               
Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque:   

               
oh maraviglia! ché qual elli scelse

               
l’umile pianta, cotal si rinacque

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subitamente là onde l’avelse.

PURGATORIO II

               
Già era ’l sole a l’orizzonte giunto   

               
lo cui meridïan cerchio coverchia

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Ierusalèm col suo più alto punto;

               
e la notte, che opposita a lui cerchia,

               
uscia di Gange fuor con le Bilance,

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che le caggion di man quando soverchia;

               
sì che le bianche e le vermiglie guance,

               
là dov’ i’ era, de la bella Aurora

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per troppa etate divenivan rance.

               
Noi eravam lunghesso mare ancora,   

               
come gente che pensa a suo cammino,

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che va col cuore e col corpo dimora.

               
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,   

               
per li grossi vapor Marte rosseggia

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giù nel ponente sovra ’l suol marino,

               
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,

               
un lume per lo mar venir sì ratto,

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che ’l muover suo nessun volar pareggia.

               
Dal qual com’ io un poco ebbi ritratto   

               
l’occhio per domandar lo duca mio,

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rividil più lucente e maggior fatto.

               
Poi d’ogne lato ad esso m’appario

               
un non sapeva che bianco, e di sotto

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a poco a poco un altro a lui uscìo.

               
Lo mio maestro ancor non facea motto,

               
mentre che i primi bianchi apparver ali;

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allor che ben conobbe il galeotto,

               
gridò: “Fa, fa che le ginocchia cali.

               
Ecco l’angel di Dio: piega le mani;

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omai vedrai di sì fatti officiali.

               
Vedi che sdegna li argomenti umani,   

               
sì che remo non vuol, né altro velo

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che l’ali sue, tra liti sì lontani.

               
Vedi come l’ha dritte verso ’l cielo,

               
trattando l’aere con l’etterne penne,

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che non si mutan come mortal pelo.”

               
Poi, come più e più verso noi venne

               
l’uccel divino, più chiaro appariva;   

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per che l’occhio da presso nol sostenne,   

               
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva

               
con un vasello snelletto e leggero,

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tanto che l’acqua nulla ne ’nghiottiva.   

               
Da poppa stava il celestial nocchiero,

               
tal che faria beato pur descripto;   

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e più di cento spirti entro sediero.   

               
“In exitu Isräel de Aegypto”
   

               
cantavan tutti insieme ad una voce

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con quanto di quel salmo è poscia scripto.

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