Authors: Dante
ond’ io levai le mani inver’ la cima
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de le mie ciglia, e fecimi ’l solecchio,
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che del soverchio visibile lima.
Come quando da l’acqua o da lo specchio
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salta lo raggio a l’opposita parte,
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salendo sù per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
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sì come mostra esperïenza e arte;
così mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
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per che a fuggir la mia vista fu ratta.
“Che è quel, dolce padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia,”
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diss’ io, “e pare inver’ noi esser mosso?”
“Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
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la famiglia del cielo,” a me rispuose:
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“messo è che viene ad invitar ch’om saglia.
Tosto sarà ch’a veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
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quanto natura a sentir ti dispuose.”
Poi giunti fummo a l’angel benedetto,
con lieta voce disse: “Intrate quinci
Noi montavam, già partiti di linci,
e
“Beati misericordes!”
fue
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cantato retro, e “Godi tu che vinci!”
Lo mio maestro e io soli amendue
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suso andavamo; e io pensai, andando,
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prode acquistar ne le parole sue;
e dirizza’mi a lui sì dimandando:
“Che volse dir lo spirto di Romagna,
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e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?”
Per ch’elli a me: “Di sua maggior magagna
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conosce il danno; e però non s’ammiri
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se ne riprende perché men si piagna.
Perché s’appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
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invidia move il mantaco a’ sospiri.
Ma se l’amor de la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
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non vi sarebbe al petto quella tema;
ché, per quanti si dice più lì ‘nostro,’
tanto possiede più di ben ciascuno,
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e più di caritate arde in quel chiostro.”
“Io son d’esser contento più digiuno,”
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diss’ io, “che se mi fosse pria taciuto,
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e più di dubbio ne la mente aduno.
Com’ esser puote ch’un ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
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di sé che se da pochi è posseduto?”
Ed elli a me: “Però che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
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di vera luce tenebre dispicchi.
Quello infinito e ineffabil bene
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che là sù è, così corre ad amore
Tanto si dà quanto trova d’ardore;
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sì che, quantunque carità si stende,
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cresce sovr’ essa l’etterno valore.
E quanta gente più là sù s’intende,
più v’è da bene amare, e più vi s’ama,
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e come specchio l’uno a l’altro rende.
E se la mia ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
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ti torrà questa e ciascun’ altra brama.
Procaccia pur che tosto sieno spente,
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come son già le due, le cinque piaghe,
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che si richiudon per esser dolente.”
Com’ io voleva dicer “Tu m’appaghe,”
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vidimi giunto in su l’altro girone,
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sì che tacer mi fer le luci vaghe.
e una donna, in su l’entrar, con atto
dolce di madre dicer: “Figliuol mio,
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perché hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo.” E come qui si tacque,
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ciò che pareva prima, dispario.
Indi m’apparve un’altra con quell’ acque
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giù per le gote che ’l dolor distilla
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quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: “Se tu se’ sire de la villa
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del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,
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e onde ogne scïenza disfavilla,
vendica te di quelle braccia ardite
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto.”
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E ’l segnor mi parea, benigno e mite,
risponder lei con viso temperato:
“Che farem noi a chi mal ne disira,
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se quei che ci ama è per noi condannato?”
E lui vedea chinarsi, per la morte
che l’aggravava già, inver’ la terra,
orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
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che perdonasse a’ suoi persecutori,
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con quello aspetto che pietà diserra.
Quando l’anima mia tornò di fori
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a le cose che son fuor di lei vere,
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io riconobbi i miei non falsi errori.
Lo duca mio, che mi potea vedere
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far sì com’ om che dal sonno si slega,
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disse: “Che hai che non ti puoi tenere,
ma se’ venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
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a guisa di cui vino o sonno piega?”
“O dolce padre mio, se tu m’ascolte,
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io ti dirò,” diss’ io, “ciò che m’apparve
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quando le gambe mi furon sì tolte.”
Ed ei: “Se tu avessi cento larve
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sovra la faccia, non mi sarian chiuse
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le tue cogitazion, quantunque parve.
Ciò che vedesti fu perché non scuse
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d’aprir lo core a l’acque de la pace
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che da l’etterno fonte son diffuse.
Non dimandai ‘Che hai?’ per quel che face
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chi guarda pur con l’occhio che non vede,
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quando disanimato il corpo giace;
ma dimandai per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
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ad usar lor vigilia quando riede.”
Noi andavam per lo vespero, attenti
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oltre quanto potean li occhi allungarsi
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contra i raggi serotini e lucenti.
Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi.
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Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.
Buio d’inferno e di notte privata
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d’ogne pianeto, sotto pover cielo,
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quant’ esser può di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio sì grosso velo
come quel fummo ch’ivi ci coperse,
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né a sentir di così aspro pelo,
che l’occhio stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
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mi s’accostò e l’omero m’offerse.
Sì come cieco va dietro a sua guida
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per non smarrirsi e per non dar di cozzo
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in cosa che ’l molesti, o forse ancida,
m’andava io per l’aere amaro e sozzo,
ascoltando il mio duca che diceva
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pur: “Guarda che da me tu non sia mozzo.”