Authors: Dante
E perché meno ammiri la parola,
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guarda il calor del sol che si fa vino,
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giunto a l’omor che de la vite cola.
Quando Làchesis non ha più del lino,
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solvesi da la carne, e in virtute
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ne porta seco e l’umano e ’l divino:
l’altre potenze tutte quante mute;
memoria, intelligenza e volontade
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in atto molto più che prima agute.
Sanza restarsi, per sé stessa cade
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mirabilmente a l’una de le rive;
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quivi conosce prima le sue strade.
Tosto che loco lì la circunscrive,
la virtù formativa raggia intorno
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così e quanto ne le membra vive.
E come l’aere, quand’ è ben pïorno,
per l’altrui raggio che ’n sé si reflette,
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di diversi color diventa addorno;
così l’aere vicin quivi si mette
e in quella forma ch’è in lui suggella
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virtüalmente l’alma che ristette;
e simigliante poi a la fiammella
che segue il foco là ’vunque si muta,
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segue lo spirto sua forma novella.
Però che quindi ha poscia sua paruta,
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è chiamata ombra; e quindi organa poi
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ciascun sentire infino a la veduta.
Quindi parliamo e quindi ridiam noi;
quindi facciam le lagrime e ’ sospiri
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che per lo monte aver sentiti puoi.
Secondo che ci affliggono i disiri
e li altri affetti, l’ombra si figura;
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e quest’ è la cagion di che tu miri.”
E già venuto a l’ultima tortura
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s’era per noi, e vòlto a la man destra,
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ed eravamo attenti ad altra cura.
Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,
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e la cornice spira fiato in suso
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che la reflette e via da lei sequestra;
ond’ ir ne convenia dal lato schiuso
ad uno ad uno; e io temëa ’l foco
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quinci, e quindi temeva cader giuso.
Lo duca mio dicea: “Per questo loco
si vuol tenere a li occhi stretto il freno,
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però ch’errar potrebbesi per poco.”
“Summae Deus clementïae”
nel seno
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al grande ardore allora udi’ cantando,
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che di volger mi fé caler non meno;
e vidi spirti per la fiamma andando;
per ch’io guardava a loro e a’ miei passi,
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compartendo la vista a quando a quando.
Appresso il fine ch’a quell’ inno fassi,
gridavano alto:
“Virum non cognosco”
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indi ricominciavan l’inno bassi.
Finitolo, anco gridavano: “Al bosco
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si tenne Diana, ed Elice caccionne
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che di Venere avea sentito il tòsco.”
Indi al cantar tornavano; indi donne
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gridavano e mariti che fuor casti
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come virtute e matrimonio imponne.
E questo modo credo che lor basti
per tutto il tempo che ’l foco li abbruscia:
con tal cura conviene e con tai pasti
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che la piaga da sezzo si ricuscia.
Mentre che sì per l’orlo, uno innanzi altro,
ce n’andavamo, e spesso il buon maestro
feriami il sole in su l’omero destro,
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che già, raggiando, tutto l’occidente
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mutava in bianco aspetto di cilestro;
e io facea con l’ombra più rovente
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parer la fiamma; e pur a tanto indizio
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vidi molt’ ombre, andando, poner mente.
Questa fu la cagion che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
poi verso me, quanto potëan farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
“O tu che vai, non per esser più tardo,
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ma forse reverente, a li altri dopo,
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rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo.
Né solo a me la tua risposta è uopo;
ché tutti questi n’hanno maggior sete
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che d’acqua fredda Indo o Etïopo.
Dinne com’ è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
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di morte intrato dentro da la rete.”
Sì mi parlava un d’essi; e io mi fora
già manifesto, s’io non fossi atteso
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ad altra novità ch’apparve allora;
ché per lo mezzo del cammino acceso
venne gente col viso incontro a questa,
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la qual mi fece a rimirar sospeso.
Lì veggio d’ogne parte farsi presta
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ciascun’ ombra e basciarsi una con una
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sanza restar, contente a brieve festa;
così per entro loro schiera bruna
s’ammusa l’una con l’altra formica,
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forse a spïar lor via e lor fortuna.
Tosto che parton l’accoglienza amica,
prima che ’l primo passo lì trascorra,
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sopragridar ciascuna s’affatica:
la nova gente: “Soddoma e Gomorra”;
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e l’altra: “Ne la vacca entra Pasife,
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perché ’l torello a sua lussuria corra.”
Poi, come grue ch’a le montagne Rife
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volasser parte, e parte inver’ l’arene,
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queste del gel, quelle del sole schife,
l’una gente sen va, l’altra sen vene;
e tornan, lagrimando, a’ primi canti
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e al gridar che più lor si convene;
e raccostansi a me, come davanti,
essi medesmi che m’avean pregato,
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attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti.
Io, che due volte avea visto lor grato,
incominciai: “O anime sicure
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d’aver, quando che sia, di pace stato,
non son rimase acerbe né mature
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le membra mie di là, ma son qui meco
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col sangue suo e con le sue giunture.
Quinci sù vo per non esser più cieco;
donna è di sopra che m’acquista grazia,
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per che ’l mortal per vostro mondo reco.
Ma se la vostra maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi
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ch’è pien d’amore e più ampio si spazia,
ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
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chi siete voi, e chi è quella turba
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che se ne va di retro a’ vostri terghi.”
Non altrimenti stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
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quando rozzo e salvatico s’inurba,
che ciascun’ ombra fece in sua paruta;
ma poi che furon di stupore scarche,
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lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta,
“Beato te, che de le nostre marche,”
ricominciò colei che pria m’inchiese,
La gente che non vien con noi, offese
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di ciò per che già Cesar, trïunfando,
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‘Regina’ contra sé chiamar s’intese:
però si parton ‘Soddoma’ gridando,
rimproverando a sé com’ hai udito,
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e aiutan l’arsura vergognando.