Authors: Dante
però che ’l loco u’ fui a viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
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e a trista ruina par disposto.”
“Or va,” diss’ el; “che quei che più n’ha colpa,
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vegg’ ïo a coda d’una bestia tratto
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inver’ la valle ove mai non si scolpa.
La bestia ad ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,
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e lascia il corpo vilmente disfatto.
Non hanno molto a volger quelle ruote,”
e drizzò li occhi al ciel, “che ti fia chiaro
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ciò che ’l mio dir più dichiarar non puote.
Tu ti rimani omai; ché ’l tempo è caro
in questo regno, sì ch’io perdo troppo
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venendo teco sì a paro a paro.”
Qual esce alcuna volta di gualoppo
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lo cavalier di schiera che cavalchi,
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e va per farsi onor del primo intoppo,
tal si partì da noi con maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
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che fuor del mondo sì gran marescalchi.
E quando innanzi a noi intrato fue,
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che li occhi miei si fero a lui seguaci,
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come la mente a le parole sue,
parvermi i rami gravidi e vivaci
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d’un altro pomo, e non molto lontani
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per esser pur allora vòlto in laci.
Vidi gente sott’ esso alzar le mani
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e gridar non so che verso le fronde,
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quasi bramosi fantolini e vani
che pregano, e ’l pregato non risponde,
ma, per fare esser ben la voglia acuta,
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tien alto lor disio e nol nasconde.
Poi si partì sì come ricreduta;
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e noi venimmo al grande arbore adesso,
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che tanti prieghi e lagrime rifiuta.
“Trapassate oltre sanza farvi presso:
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legno è più sù che fu morso da Eva,
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e questa pianta si levò da esso.”
Sì tra le frasche non so chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
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oltre andavam dal lato che si leva.
“Ricordivi,” dicea, “d’i maladetti
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nei nuvoli formati, che, satolli,
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Tesëo combatter co’ doppi petti;
e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli,
per che no i volle Gedeon compagni,
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quando inver’ Madïan discese i colli.”
Sì accostati a l’un d’i due vivagni
passammo, udendo colpe de la gola
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seguite già da miseri guadagni.
Poi, rallargati per la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
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contemplando ciascun sanza parola.
“Che andate pensando sì voi sol tre?”
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sùbita voce disse; ond’ io mi scossi
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come fan bestie spaventate e poltre.
Drizzai la testa per veder chi fossi;
e già mai non si videro in fornace
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vetri o metalli sì lucenti e rossi,
com’io vidi un che dicea: “S’a voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
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quinci si va chi vuole andar per pace.”
L’aspetto suo m’avea la vista tolta;
per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori,
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com’ om che va secondo ch’elli ascolta.
E quale, annunziatrice de li albori,
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l’aura di maggio movesi e olezza,
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tutta impregnata da l’erba e da’ fiori;
tal mi senti’ un vento dar per mezza
la fronte, e ben senti’ mover la piuma,
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che fé sentir d’ambrosïa l’orezza.
E senti’ dir: “Beati cui alluma
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tanto di grazia, che l’amor del gusto
nel petto lor troppo disir non fuma,
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esurïendo sempre quanto è giusto!”
Ora era onde ’l salir non volea storpio;
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ché ’l sole avëa il cerchio di merigge
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lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:
per che, come fa l’uom che non s’affigge
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ma vassi a la via sua, che che li appaia,
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se di bisogno stimolo il trafigge,
così intrammo noi per la callaia,
uno innanzi altro prendendo la scala
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che per artezza i salitor dispaia.
E quale il cicognin che leva l’ala
per voglia di volare, e non s’attenta
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d’abbandonar lo nido, e giù la cala;
tal era io con voglia accesa e spenta
di dimandar, venendo infino a l’atto
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che fa colui ch’a dicer s’argomenta.
Non lasciò, per l’andar che fosse ratto,
lo dolce padre mio, ma disse: “Scocca
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l’arco del dir, che ’nfino al ferro hai tratto.”
Allor sicuramente apri’ la bocca
e cominciai: “Come si può far magro
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là dove l’uopo di nodrir non tocca?”
“Se t’ammentassi come Meleagro
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si consumò al consumar d’un stizzo,
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non fora,” disse, “a te questo sì agro;
e se pensassi come, al vostro guizzo,
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guizza dentro a lo specchio vostra image,
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ciò che par duro ti parrebbe vizzo.
Ma perché dentro a tuo voler t’adage,
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ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego
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che sia or sanator de le tue piage.”
“Se la veduta etterna li dislego,”
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rispuose Stazio, “là dove tu sie,
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discolpi me non potert’ io far nego.”
Poi cominciò: “Se le parole mie,
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figlio, la mente tua guarda e riceve,
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lume ti fiero al come che tu die.
Sangue perfetto, che poi non si beve
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da l’assetate vene, e si rimane
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quasi alimento che di mensa leve,
prende nel core a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
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ch’a farsi quelle per le vene vane.
Ancor digesto, scende ov’ è più bello
tacer che dire; e quindi poscia geme
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sovr’ altrui sangue in natural vasello.
Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme,
l’un disposto a patire, e l’altro a fare
e, giunto lui, comincia ad operare
coagulando prima, e poi avviva
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ciò che per sua matera fé constare.
Anima fatta la virtute attiva
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qual d’una pianta, in tanto differente,
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che questa è in via e quella è già a riva,
tanto ovra poi, che già si move e sente,
come spungo marino; e indi imprende
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ad organar le posse ond’ è semente.
Or si spiega, figliuolo, or si distende
la virtù ch’è dal cor del generante,
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dove natura a tutte membra intende.
Ma come d’animal divegna fante,
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non vedi tu ancor: quest’ è tal punto,
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che più savio di te fé già errante,
sì che per sua dottrina fé disgiunto
da l’anima il possibile intelletto,
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perché da lui non vide organo assunto.
Apri a la verità che viene il petto;
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e sappi che, sì tosto come al feto
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l’articular del cerebro è perfetto,
lo motor primo a lui si volge lieto
sovra tant’ arte di natura, e spira
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spirito novo, di vertù repleto,