Purgatorio (73 page)

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Authors: Dante

BOOK: Purgatorio
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Indi mi tolse, e bagnato m’offerse   

               
dentro a la danza de le quattro belle;

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e ciascuna del braccio mi coperse.

               
“Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;

               
pria che Beatrice discendesse al mondo,

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fummo ordinate a lei per sue ancelle.

               
Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo   

               
lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi

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le tre di là, che miran più profondo.”

               
Così cantando cominciaro; e poi   

               
al petto del grifon seco menarmi,

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ove Beatrice stava volta a noi.

               
Disser: “Fa che le viste non risparmi;   

               
posto t’avem dinanzi a li smeraldi

117
         
ond’ Amor già ti trasse le sue armi.”

               
Mille disiri più che fiamma caldi

               
strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,

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che pur sopra ’l grifone stavan saldi.

               
Come in lo specchio il sol, non altrimenti

               
la doppia fiera dentro vi raggiava,

123
         
or con altri, or con altri reggimenti.   

               
Pensa, lettor, s’io mi maravigliava,   

               
quando vedea la cosa in sé star queta,

126
         
e ne l’idolo suo si trasmutava.

               
Mentre che piena di stupore e lieta   

               
l’anima mia gustava di quel cibo   

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che, saziando di sé, di sé asseta,

               
sé dimostrando di più alto tribo

               
ne li atti, l’altre tre si fero avanti,   

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danzando al loro angelico caribo.   

               
“Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi,”   

               
era la sua canzone, “al tuo fedele

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che, per vederti, ha mossi passi tanti!

               
Per grazia fa noi grazia che disvele

               
a lui la bocca tua, sì che discerna

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la seconda bellezza che tu cele.”   

               
O isplendor di viva luce etterna,   

               
chi palido si fece sotto l’ombra

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sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,

               
che non paresse aver la mente ingombra,

               
tentando a render te qual tu paresti   

               
là dove armonizzando il ciel t’adombra,

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quando ne l’aere aperto ti solvesti?

PURGATORIO XXXII

               
Tant’ eran li occhi miei fissi e attenti   

               
a disbramarsi la decenne sete,

3
             
che li altri sensi m’eran tutti spenti.

               
Ed essi quinci e quindi avien parete   

               
di non caler—così lo santo riso

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a sé traéli con l’antica rete!—;

               
quando per forza mi fu vòlto il viso

               
ver’ la sinistra mia da quelle dee,   

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perch’ io udi’ da loro un “Troppo fiso!”   

               
e la disposizion ch’a veder èe

               
ne li occhi pur testé dal sol percossi,

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sanza la vista alquanto esser mi fée.

               
Ma poi ch’al poco il viso riformossi   

               
(e dico “al poco” per rispetto al molto

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sensibile onde a forza mi rimossi),

               
vidi ’n sul braccio destro esser rivolto   

               
lo glorïoso essercito, e tornarsi

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col sole e con le sette fiamme al volto.

               
Come sotto li scudi per salvarsi   

               
volgesi schiera, e sé gira col segno,

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prima che possa tutta in sé mutarsi;

               
quella milizia del celeste regno

               
che procedeva, tutta trapassonne

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pria che piegasse il carro il primo legno.

               
Indi a le rote si tornar le donne,

               
e ’l grifon mosse il benedetto carco

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sì, che però nulla penna crollonne.   

               
La bella donna che mi trasse al varco   

               
e Stazio e io seguitavam la rota

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che fé l’orbita sua con minore arco.

               
Sì passeggiando l’alta selva vòta,   

               
colpa di quella ch’al serpente crese,

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temprava i passi un’angelica nota.

               
Forse in tre voli tanto spazio prese

               
disfrenata saetta, quanto eramo

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rimossi, quando Bëatrice scese.

               
Io senti’ mormorare a tutti “Adamo”;

               
poi cerchiaro una pianta dispogliata   

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di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.

               
La coma sua, che tanto si dilata

               
più quanto più è sù, fora da l’Indi

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ne’ boschi lor per altezza ammirata.

               
“Beato se’, grifon, che non discindi   

               
col becco d’esto legno dolce al gusto,

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poscia che mal si torce il ventre quindi.”

               
Così dintorno a l’albero robusto

               
gridaron li altri; e l’animal binato:

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“Sì si conserva il seme d’ogne giusto.”

               
E vòlto al temo ch’elli avea tirato,

               
trasselo al piè de la vedova frasca,

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e quel di lei a lei lasciò legato.   

               
Come le nostre piante, quando casca   

               
giù la gran luce mischiata con quella

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che raggia dietro a la celeste lasca,

               
turgide fansi, e poi si rinovella

               
di suo color ciascuna, pria che ’l sole

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giunga li suoi corsier sotto altra stella;

               
men che di rose e più che di vïole

               
colore aprendo, s’innovò la pianta,

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che prima avea le ramora sì sole.

               
Io non lo ’ntesi, né qui non si canta   

               
l’inno che quella gente allor cantaro,

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né la nota soffersi tutta quanta.   

               
S’io potessi ritrar come assonnaro   

               
li occhi spietati udendo di Siringa,

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li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;

               
come pintor che con essempro pinga,

               
disegnerei com’ io m’addormentai;

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ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga.

               
Però trascorro a quando mi svegliai,   

               
e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo

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del sonno, e un chiamar: “Surgi: che fai?”   

               
Quali a veder de’ fioretti del melo   

               
che del suo pome li angeli fa ghiotti

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e perpetüe nozze fa nel cielo,

               
Pietro e Giovanni e Iacopo condotti

               
e vinti, ritornaro a la parola

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da la qual furon maggior sonni rotti,   

               
e videro scemata loro scuola

               
così di Moïsè come d’Elia,

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e al maestro suo cangiata stola;

               
tal torna’ io, e vidi quella pia

               
sovra me starsi che conducitrice

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fu de’ miei passi lungo ’l fiume pria.

               
E tutto in dubbio dissi: “Ov’ è Beatrice?”   

               
Ond’ ella: “Vedi lei sotto la fronda   

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nova sedere in su la sua radice.

               
Vedi la compagnia che la circonda:   

               
li altri dopo ’l grifon sen vanno suso   

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con più dolce canzone e più profonda.”

               
E se più fu lo suo parlar diffuso,

               
non so, però che già ne li occhi m’era

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quella ch’ad altro intender m’avea chiuso.

               
Sola sedeasi in su la terra vera,   

               
come guardia lasciata lì del plaustro   

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che legar vidi a la biforme fera.

               
In cerchio le facevan di sé claustro

               
le sette ninfe, con quei lumi in mano   

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che son sicuri d’Aquilone e d’Austro.

               
“Qui sarai tu poco tempo silvano;   

               
e sarai meco sanza fine cive

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di quella Roma onde Cristo è romano.

               
Però, in pro del mondo che mal vive,   

               
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,

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ritornato di là, fa che tu scrive.”

               
Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi

               
d’i suoi comandamenti era divoto,

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la mente e li occhi ov’ ella volle diedi.

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