100 colpi di spazzola prima di andare a dormire (8 page)

BOOK: 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire
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21 febbraio

Ho accompagnato mia madre dal veterinario perché visitasse il mio gattino, affetto da una leggera forma d'asma. Miagolava piano, spaventato dalle mani inguantate del medico; io gli accarezzavo la testa incoraggiandolo con parole dolci.  

In macchina mia madre mi ha chiesto come va la scuola e come va con i ragazzi. In entrambe le risposte mi sono mantenuta sul vago. Ormai mentire è di regola, mi sembrerebbe strano non doverlo fare più...

Le ho poi chiesto di accompagnarmi a casa del professore di matematica perché avrei dovuto avere una lezione.

«Ah, bene, così finalmente lo conosco!», ha detto entusiasta.

Non le ho risposto perché non volevo che sospettasse qualcosa, d'altronde ero sicura che Valerio aspettasse da un momento all'altro un incontro con mia madre.

Fortunatamente questa volta il suo abbigliamento era più serioso ma, stranamente, quando mia madre mi ha chiesto di riaccompagnarla all'ascensore mi ha detto: «Non mi piace, ha la faccia di un vizioso».

Ho fatto un gesto di noncuranza e le ho detto che tanto avrebbe solo dovuto impartirmi lezioni di matematica, non dovevamo mica sposarci. E poi mia madre ha questa fissa di riconoscere la gente dalla faccia, ed è una cosa che mi fa innervosire !

Una volta chiusa la porta, Valerio mi ha sollecitata a prendere il quaderno e a iniziare subito. Non abbiamo minimamente parlato della telefonata, solo di radici cubiche, quadrate, binomie... e i suoi occhi si camuffano così bene da lasciarmi in forse. E se quella telefonata è stata fatta per ridicolizzarmi? E se non gli importasse niente di me, se voleva solo un orgasmo al telefono? Mi aspettavo un accenno, un minimo discorso, niente!

Poi, mentre mi porgeva il quaderno mi ha guardata come se avesse capito tutto e ha detto: «Sabato sera non prendere impegni. E non vestirti prima che io non ti abbia chiamata».

L'ho guardato stupita ma non ho detto niente e cercando di simulare un'assurda indifferenza alle sue parole ho aperto il quaderno, ho osservato ciò che aveva scritto e ho letto fra le x e y, in scrittura minuscola :

Come un paradiso era la mia Lolita, un paradiso immerso nelle fiamme

prof. Hubert  

Ancora una volta non ho parlato, ci siamo salutati e mi ha ricordato di nuovo l'appuntamento. E chi se lo scorda...

22 febbraio

All'una ho ricevuto la telefonata di Letizia che mi ha chiesto se volevo pranzare con lei. Ho risposto di sì, anche perché non sarei potuta ritornare a casa dal momento che alle 15,30 sarebbero cominciate le prove generali per lo spettacolo. Avevo voglia di vederla, l'ho pensata spesso la notte prima di andare a dormire.

Dal vivo era ancora più bella, più vera. Guardavo le sue mani morbide versarmi il vino e subito dopo osservavo le mie che per colpa del freddo che becco ogni mattina con lo scooter sono diventate rosse e secche come quelle di una scimmia.

Mi ha parlato di tutto, in un'pra è riuscita a raccontarmi i suoi vent'anni. Mi ha parlato della sua famiglia, della madre morta prematuramente, del padre partito per la Germania e della sorella che vede raramente perché adesso è sposata. Mi ha detto dei suoi insegnanti, della scuola, dell'università, degli hobby, del suo lavoro. 

Ho guardato le sue sopracciglia e mi venuto il desiderio forte di baciarle. Che cosa bizzarra le sopracciglia! Quelle di Letizia si muovono con i suoi occhi e sono talmente belle da indurti a baciare tale perfezione, poi ricadere nel suo volto, nelle sue guance, nella sua bocca... Adesso, lo so diario, la desidero. Desidero il suo calore, la sua pelle, le sue mani, la sua saliva, la sua voce sussurrata. Vorrei accarezzarle la testa, visitare il suo isolotto con il mio respiro, procurarle una festa in tutto il corpo. Eppure mi sembra ovvio che mi senta bloccata, per me una cosa nuova e non posso certo pretendere che anche lei abbia le stesse sensazioni, o forse ce l'ha ma non lo saprò mai. Mi guardava e si inumidiva le labbra, il suo sguardo era ironico e io mi sentivo arresa. Non a lei, ma ai miei capricci. 

«Vuoi fare l'amore, Melissa?», mi ha chiesto mentre sorseggiavo il vino.

Ho poggiato sul tavolo il bicchiere, l'ho guardata turbata e ho agitato la testa in gesto di assenso.

«Devi però insegnarmelo...».

Insegnarmi a fare l'amore con una donna o insegnarmi ad amare? Forse le due cose si compensano...

23 febbraio
5,45

Sabato notte, o meglio domenica mattina dal momento che la notte già trascorsa e il cielo si schiarito. Mi sento felice, diario, ho in corpo tanta euforia placata tuttavia dalla sensazione di beatitudine, una tranquillità piena e dolce m'invade tutta. Stanotte ho scoperto che lasciarsi andare con chi ci piace e c'invade i sensi è qualco sa di sacro, è lì che il sesso smette di essere solo sesso e inizia ad essere amore, lì, ad annusare i peli profumati del suo dorso, oppure ad accarezzare le sue spalle forti e morbide, a lisciare i suoi capelli

Non ero per nulla agitata, sapevo quello che stavo per fare. Sapevo di deludere i miei genitori. Stavo salendo nella macchina di un semi-sconosciuto ventisettenne, un attraente professore di matematica, qualcuno che ha infuocato i miei sensi. L'ho aspettato fuori casa, sotto l'imponente albero di pino e ho visto la sua vettura verde avanzare piano con lui dentro, aveva una sciarpa intorno al collo e il riflesso delle lenti mi colpiva. Contrariamente a quello che mi ha detto qualche giorno fa non ho aspettato che mi chiamasse per ordinarmi ciò che avrei dovuto indossare. Ho preso la biancheria del primo cassetto, l'ho indossata e ho messo su un vestitino nero. Mi sono guardata allo specchio e ho fatto una smorfia pensando che mancava qualcosa; ho infilato le mani sotto la gonna e sfilato gli slip e allora ho sorriso e ho sussurrato piano: «Così sei perfetta», e mi sono mandata un bacio.

Quando sono uscita di casa sentivo il freddo entrare sotto la gonna, il vento sfiorava scontroso il mio sesso nudo; salita in macchina, il professore mi ha guardata con occhi illuminati e incantati e mi ha detto: «Non hai messo quello che ti avevo chiesto di indossare».

Allora ho rivolto lo sguardo alla strada davanti a me e ho detto: «Lo so, disubbidire agli insegnanti è la cosa che mi riesce meglio».

Mi ha dato un bacio un po' rumoroso sulla guancia e siamo partiti per un luogo segreto.

Continuavo a far scorrere le dita fra i miei capelli, lui forse pensava fosse tensione, era solo ansia. Ansia di averlo lì, subito, senza nessun presupposto. Non so di cosa abbiamo parlato durante il tragitto perché nella mia mente c'era il pensiero di possederlo; l'ho guardato negli occhi mentre guidava, mi piacciono i suoi occhi: hanno ciglia lunghe e nere, occhi intriganti, magnetici. Mi sono accorta che mi lanciava occhiate furtive ma ho fatto finta di niente, anche questo fa parte del gioco. Poi siamo arrivati al Paradiso, o forse all'Inferno, dipende dai punti di vista. Con la sua utilitaria abbiamo percorso strade e stradine deserte e strettissime dalle quali mi sembrava impossibile poter passare; abbiamo superato una chiesa diroccata e coperta d'edera e di muschio e Valerio mi ha detto: «Controlla se alla tua sinistra c' una fontana, il posto è nella traversina subito dopo».

Ho scrutato attentissima la strada sperando di trovare al più presto la fontana dentro quell'oscuro labirinto.

«Eccola!», ho esclamato un po' troppo forte.

Ha spento il motore davanti a un portone verde e arrugginito e i fari dell'auto illuminavano delle frasi scritte su di esso; i miei occhi si sono posati su due nomi inseriti in un cuore tremolante: Valerio e Melissa.

L'ho guardato stupita e gli ho indicato ciò che avevo letto.

Lui ha sorriso e ha detto: «Non ci posso credere...!», poi si è voltato verso di me e ha sussurrato: «Vedi? Siamo scritti nelle stelle».

Non ho capito cosa volesse dire, tuttavia quel'«siamo» mi ha rassicurata e mi ha fatta sentire parte di un insieme i cui membri erano due e simili e non due e diversi come me e lo specchio.

Ho avuto paura di questo paradiso perché era buio, scosceso, impraticabile soprattutto se s'indossano stivali

parecchio alti. Cercavo di aggrapparmi il più possibile a lui, volevo sentire il suo calore. Siamo inciampati ripetutamente fra quei massi, per quelle stradine piccolissime e buie, recintate da mura, l'unica parte visibile era il cielo, stellatissimo questa notte, e la luna che andava e veniva giocando come stavamo facendo noi. Non so perché ma questo posto mi ha ispirato sensazioni macabre e oscure: pensavo stupidamente, o legittimamente forse, che da qualche parte, vicino, si stesse svolgendo una messa nera in cui io ero la vittima designata; uomini incappucciati mi avrebbero legata a un tavolo, sarei stata circondata da candele e candelabri, poi mi avrebbero stuprata a turno e in ultimo uccisa con un pugnale dalla lama sinuosa e affilata. Ma mi fidavo di lui, erano forse pensieri dovuti all'inconsapevolezza di quel momento magico. Quelle stradine che avevano suscitato in me qualche timore ci hanno portati a una radura a strapiombo sul mare, si potevano sentire le onde che spumeggiavano sulla riva. C'erano rocce bianche, lisce e grandi: ho immaginato subito a cosa potessero servire. Prima di avvicinarci siamo inciampati per l'ennesima volta; lui mi ha attirata a sé avvicinandomi al suo volto, ci siamo sfiorati le labbra senza baciarle annusando i nostri odori e ascoltando il nostro respiro. Ci siamo avvicinati l'uno all'altra e abbiamo divorato le nostre labbra, succhiandole e mordendole. Le nostre lingue si sono incontrate: la sua era calda e morbida, mi accarezzava dentro come una piuma ma mi ha fatta sussultare. I baci si sono arroventati finché mi ha chiesto se poteva toccarmi, se quello fosse il momento. Sì, ho risposto, è il momento. Si è bloccato quando ha scoperto che ero senza mutandine, è rimasto fermo qualche secondo davanti alla mia carnosa nudità. Poi ho percepito le sue impronte che sfregavano quel vulcano che stava scoppiando. Mi ha detto che voleva gustarmi, e così mi sono seduta su uno di quegli enormi massi e la sua lingua ha accarezzato il mio sesso come la mano di una madre accarezza la guancia di un neonato: piano, dolcemente, il piacere lo coglievo inesorabile e continuo, denso e fragile al tempo stesso, mi scioglieva.

Si è alzato e mi ha baciata e ho sentito i miei umori nella sua bocca, li ho sentiti dolci. Gli avevo già sfiorato il membro diverse volte e l'avevo sentito duro e corposo sotto i jeans; si è sbottonato e mi ha offerto il suo pene. No, non sono mai stata con un uomo circonciso, non sapevo che il glande fosse già fuori. Si presenta come una punta liscia e morbida alla quale mi è stato impossibile non avvicinarmi.

Mi sono alzata e avvicinandomi al suo orecchio ho sussurrato: «Scopami».

Lo voleva anche lui e mi ha chiesto mentre mi rialzavo dalla mia posizione in ginocchio da chi avessi imparato a leccare in quel modo, lo ha fatto impazzire la mia lingua serpentina.

Mi ha detto di mettermi di spalle, con le natiche ben in vista; prima me le ha osservate, ho considerato
bizzarro
questo suo gesto però il suo sguardo poggiato sulle mie rotondità mi ha eccitato tantissimo. Ho aspettato il primo colpo con le mani poggiate sulla pietra fredda e liscia. Si è avvicinato e ha puntato il bersaglio. Ho voluto che mi dicesse in che modo mi stessi offrendo a lui: una troietta che non ha mai fine. Ho emesso un gemito di assenso accompagnato da un colpo ben assestato, secco. Poi mi sono staccata da quel piacevole puzzle e guardandolo implorante di sentirlo ancora dentro gli ho detto che aspettare qualche minuto prima di impossessarci dei reciproci corpi avrebbe intensificato i nostri piaceri.

«Andiamo in macchina», gli ho detto, «staremo più comodi».

Abbiamo attraversato nuovamente l'oscuro labirinto, ma questa volta non avevo più paura, il mio corpo era attraversato da mille spiritelli che si divertivano a rincorrersi e a farmi sentire a tratti angosciata e a tratti euforica, di un'euforia ineffabile. Prima di risalire in macchina ho riosservato i nomi scritti sul portone e ho sorriso lasciando che lui entrasse per primo. Mi sono spogliata subito, completamente, volevo che ogni cellula del nostro corpo e della nostra pelle entrasse a contatto con quella dell'altro e si scambiasse sensazioni nuove, esaltanti. Mi sono messa sopra di lui e ho cominciato a cavalcarlo con foga donandogli colpi dolci e ritmici alternati a colpi secchi, duri e severi. Leccandolo e baciandolo l'ho sentito gemere. I suoi gemiti mi fanno morire, perdo il controllo. È facile perdere il controllo con lui. 

«Siamo due padroni», chiede a un certo punto, «come faremo a sottomettere l'uno all'altra?».

«Due padroni si fottono e godono a vicenda», ho risposto.

Ho serrato colpi incisivi e magicamente ho afferrato quel piacere che nessun uomo ha mai saputo darmi, quel piacere che solo io sono in grado di procurarmi. Ho sentito degli spasmi ovunque, nel sesso, nelle gambe, nelle braccia, persino sulla faccia. Il mio corpo era tutto una festa. Ha tolto la maglietta e ho sentito il suo torso nudo e villoso, caldissimo, a contatto con il mio seno bianco e liscio. Ho strofinato i capezzoli sopra quella scoperta meravigliosa, l'ho
accarezzata,
con entrambe le mani per farla mia del tutto.

Poi sono scesa dal suo corpo e lui mi ha detto: «Toccalo con un dito».

L'ho fatto stupita e ho visto lacrimare il suo membro, istintivamente ho avvicinato la bocca e ho ingoiato quello che è lo sperma più dolce e zuccheroso che abbia mai assaggiato.

Mi ha abbracciata per qualche istante e per quell'istante che a me è parso immenso mi è sembrato di avere tutto lì con me. Poi teneramente mi ha poggiato la testa sul sedile mentre stavo ancora nuda, rannicchiata e illuminata dalla luna.

Avevo gli occhi chiusi, ma riuscivo comunque a percepire il suo sguardo su di me. Ho pensato che fosse ingiusto lasciarmi gli occhi addosso per tutto quel tempo, che gli uomini non si accontentano mai del tuo corpo, che oltre ad accarezzarlo, baciarlo, vogliono stamparselo nella testa e non cancellarlo più. Mi chiedevo cosa potesse provare nel guardare il mio corpo addormentato e fermo; per me non è necessario guardare, è importante percepire e io questa notte l'ho percepito. Ho cercato di reprimere una risata quando l'ho sentito borbottare lamentandosi di non trovare l'accendino e con gli occhi ancora chiusi e la voce roca gli ho detto che l'avevo visto volare dalla tasca della camicetta mentre la buttava sul sedile anteriore. Si è limitato a guardarmi per un misero istante e ha aperto il finestrino lasciando entrare quel freddo che prima non avevo sentito.

Poi dopo molti minuti di silenzio ha detto buttando via il fumo della sigaretta: «Non ho mai fatto una cosa del genere».

Sapevo a cosa si riferiva, sentivo che quello era il momento dei discorsi seri che avrebbero compromesso o al contrario rafforzato questa pericolosa, precaria ed eccitante relazione. 

Mi sono avvicinata piano alle sue spalle poggiando su di esse la mia mano e sulla mia mano le labbra. Ho aspettato un po' prima di parlare, ma sapevo quello che dovevo dire fin dal primo istante.

«Il fatto che tu non l'abbia mai fatto non significa che sia sbagliato».

«Ma nemmeno giusto», ha detto aspirando altro fumo.

«E a noi cosa importa se sia giusto o sbagliato? L'importante è che siamo stati bene, che l'abbiamo vissuto fino in fondo», mi sono morsa le labbra consapevole che un uomo adulto non avrebbe dato ascolto a una
ragazzina
così presuntuosa.

Invece si è girato, ha gettato la sigaretta e ha detto: «Ecco perché mi fai perdere la testa: sei matura, intelligente, e hai una passione dentro che non ha limiti».

È lui, diario. L'ha conosciuta. La mia passione intendo. Riaccompagnandomi a casa mi ha detto che era meglio se smettevamo di vederci da professore e alunna, non mi avrebbe mai più considerato sotto quell'aspetto e poi non mischia mai il lavoro al piacere. Ho risposto che mi andava bene, l'ho baciato sulla guancia e ho aperto il portone mentre aspettava che io entrassi.

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