André era paralizzato, attonito. L'oro del sottokimono brillava alla luce delle candele, la seta pura rivelava e al tempo stesso nascondeva. Giocando con la lingua sulle labbra Hinodeh slegò i nastrini e lasciò che il sottokimono si dischiudesse scoprendo l'esile corpo nudo, dal collo sottile ai minuscoli piedi.
Non indossava alcun indumento intimo.
Con il suo sorriso enigmatico e gli occhi invitanti gli imponeva di aspettare, prometteva, lo tentava. Il vento agitò gli shoji e se ne andò inascoltato.
Ad André il cuore batteva come non mai. Si sforzò di rimanere seduto.
Adesso vedeva il seno di lei che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro e i capezzoli contro la seta. Poi Hinodeh sospirò. Con grazia sublime si liberò lentamente del sottokimono e si mostrò in tutta la sua purezza.
Per André era come se il tempo si fosse fermato. Rimase estasiato a godere quel dono inaspettato e spontaneo, poi l'attesa divenne insostenibile e si alzò. Tese le braccia verso di lei con tenerezza e la baciò con tutta la passione di cui era capace stringendola forte a sé. Hinodeh si abbandonò all'abbraccio.
Lui la sollevò, la distese sui futon della camera da letto, si spogliò e le si inginocchiò accanto, estasiato di poterla finalmente vedere alla luce. “je t'aime, je t'aime.”
“Guarda, Furansu-san” disse Hinodeh con un sorriso amorevole.
Indicò l'interno di una coscia. Per un istante lui non capì, poi vide l'abrasione. Il cuore si mise a battere all'impazzata e la bile gli salì alla bocca. “Guarda” ripeté lei con dolcezza, sorridendo, con quei suoi occhi tanto scuri anche alla luce. “E' cominciata.”
“Non è niente” disse lui con voce strozzata. “Niente.”
“E' tutto.” Hinodeh lo guardò.
“Per favore, dammi il pugnale.” Ad André girava la testa, non vedeva più nulla, quella piaga riempiva tutto il suo mondo. Con immenso sforzo scosse il capo per riprendersi e impose agli occhi di tornare a vedere, ma non riuscì a scacciare l'amaro, tremendo sapore che aveva in bocca. “Non è niente, è soltanto... non è assolutamente niente” balbettò. Più lo guardava meno il segno gli sembrava grave.
“E' soltanto un'irritazione, niente di più.”
“Prego? Parla giapponese, Furansu-san, spiacente.”
“E... non è la malattia.
Non quella. E' un segno che ti ha lasciato il perizoma, niente di cui preoccuparsi.” André si allungò per coprirla e per spegnere la luce ma lei lo fermò. Con gentilezza. “Spiacente, è cominciata. Per favore, dammi il pugnale.”
Il coltello era dietro di lui, tra i vestiti, nel fodero che come sempre portava legato alla cintura.
“No, ti prego, Hinodeh, il pugnale è cattivo, non c'è bisogno del pugnale. Quel segno... non è niente.” Come in un incubo André la vide scuotere il capo lentamente e ripetere la richiesta, che adesso era diventata un ordine. Gli tremavano le gambe e le braccia, persino la testa, non riusciva a fermarle, né poteva interrompere la confusa litania in francese e in giapponese con cui continuava a implorare Hinodeh, a ripeterle che si trattava soltanto di un'abrasione, niente di più. Ma sapeva che non era così. Era cominciata.
Lei aveva ragione.
Era cominciata, era cominciata. Gli si strinse lo stomaco. A stento si trattenne dal vomitare. La litania continuava...
Lei non lo interrompeva, si limitava ad attendere con pazienza che si calmasse, sdraiata sul futon. Poi avrebbe messo in atto la sua risoluzione.
Con voce rotta André disse: “Ascolta, Hinodeh, ti prego, non cercare il pugnale. Non posso... Non è niente.
Presto se ne andrà. Guardami, guarda!”. Disperato indicò il proprio corpo. “Non ho niente, da nessuna parte. Quella macchiolina se ne andrà presto. Non cercare il pugnale. Vivremo. Non aver paura. Saremo felici. Sì?” Il volto di Hinodeh fu attraversato da un'ombra, poi le dita tornarono a sfiorare l'abrasione e con dolcezza ripeté: “E cominciata”.
Adesso André la fissava con un sorriso teso e grottesco e si sforzava di convincerla con tutti gli argomenti possibili, ma lei continuava a ripetere con estrema gentilezza quella frase che lo faceva infuriare sempre di più. “Non è niente” gridò infine lui esasperato. “Capisci?”
“Sì, capisco. Ma è cominciata, neh?” André la guardò con un'espressione cattiva, rabbiosa ed esplose: “Per l'amor di Dio, sì! Sì! Hai!”.
Scese il silenzio, poi lei disse: “Grazie, Furansu-san. Adesso che hai riconosciuto che è cominciata, per favore, come hai promesso, dammi il pugnale”.
André aveva gli occhi iniettati di sangue, la schiuma alla bocca, sudava ed era prossimo alla pazzia. Come se non fosse lui a parlare disse quello che aveva sempre pensato di dire in quella circostanza: “Nessun pugnale. Kinjiru! E vietato! Non posso. Tu sei troppo preziosa. Vietato.
Nessun pugnale”.
“Ti rifiuti?” chiese con gentilezza lei senza cambiare espressione.
“Hinodeh, tu sei il mio sole, il mio sole e la mia luna. Non posso e non lo farò. Mai e poi mai. Proibito. Tu rimani. Ti prego. Je t'aime.”
“Per favore, il pugnale.”
“No.” Hinodeh trasse un lungo sospiro. Si inchinò docilmente, ma in lei si era spenta ogni luce. Andò a prendere un asciugamano umido e un altro asciutto e si inchinò accanto al letto. “Qui, signore.” Lui la guardò con un'espressione accigliata. Era madido di sudore.
“Accetti?”
“Sì, accetto, se è questa la tua volontà.” André le prese una mano e lei l'abbandonò nella sua.
“Accetti davvero?”
“Se lo vuoi. Tutto quello che vuoi” rispose Hinodeh con tristezza.
“Non mi chiederai il pugnale, mai più?”
“Accetto. E' finito, Furansu-san, se è questo che vuoi” disse lei con voce cortese. Il suo viso aveva un'espressione tranquilla, uguale eppure diversa, velata di tristezza. “Per favore, adesso è finito. Prometto che non lo chiederò mai più, ti prego, scusami.” André quasi si sentiva male per il sollievo. “Oh, Hinodeh, je t'aime, grazie, grazie” mormorò, “ma ti prego, non essere triste, non essere triste. je t'aime, grazie.”
“Per favore, non ringraziarmi. E' la tua volontà.”
“Ti prego, non essere triste, Hinodeh. Ti prometto che adesso sarà molto bello. Bellissimo. Te lo prometto.” Lei annuì.
Un sorriso le illuminò il volto cancellandovi ogni malinconia.
“Sì, e ti ringrazio e non sarò più triste.” Aspettò che André si asciugasse, poi si alzò per riporre gli asciugamani.
Lui la seguì con lo sguardo compiacendosi della sua bellezza e della vittoria ottenuta.
Con passi felpati Hinodeh andò nell'altra stanza e tornò con due bottigliette di sakè. Sorridendo gli disse: “Bere dalla bottiglia è più bello che dalla tazza. Il mio è caldo, il tuo è freddo.
Grazie per avere comprato il contratto. A ta santé”.
“A ta santé, je t'aime.”
“Ah, so ka! Je t'aime.” Hinodeh trangugiò il liquido, tossì, sussultò leggermente, rise e si asciugò il mento. “Era buono, molto buono. Vieni a letto.” Sempre allegra si infilò sotto le coperte.
“Vieni a letto, Furansu-san, altrimenti prendi freddo.” L'eccellente liquore lavò dalla bocca di André quel cattivo sapore e dissolse il sentimento di morte che si era impadronito di lui. Pieno di desiderio la scoprì lentamente.
“Per favore, non più al buio, sì?”
“Se è la tua volontà. Non più al buio, tranne che per dormire, sì?” André si sentiva rinascere. Con gratitudine si inchinò posando il capo sul futon, la ringraziò e si distese accanto a lei. La desiderava da impazzire.
Le sue dita cominciarono a sfiorarle il corpo.
“Ah, Furansu-san, posso prima riposare un pò, per favore?” chiese lei con una tenerezza sublime. “Tanta passione mi ha stancato. Posso riposare un pò, per favore? Più tardi noi... più tardi, sì?”
La delusione di André era cocente al punto di rasentare l'ira, ma riuscì a trattenersi e dopo un istante, con tutta la gentilezza di cui era capace, disse: “Certo”.
Si sdraiò al suo fianco senza toccarla.
“Grazie, Furansu-san” mormorò lei stancamente. “Per favore, abbassi la lampada? Vorrei dormire un pò, soltanto un pochino.” Lui ubbidì e tornò a sdraiarsi. I lombi gli bruciavano per il desiderio.
Al buio Hinodeh si sentì felice come non le capitava da anni, felice come era stata con suo marito, prima che morisse, quando vivevano nella casetta di Edo con il loro bambino, che adesso finalmente era al sicuro dai nonni, era accettato, protetto e riceveva un'educazione da samurai.
Furansu-san è stato cattivo a non darmi il pugnale come aveva promesso.
Indegno.
Ma è un gai-jin e di loro non ci si può fidare. Non importa, Raiko mi rassicurava ma sapevo che non avrebbe mantenuto la parola, come invece ho fatto io. Ha mentito firmando, anche lei ha mentito. Non importa, non importa, me lo aspettavo da entrambi, sono due bugiardi.
Sorrise. Il vecchio erborista non mi ha mentito. Era insapore e non sento alcun dolore, ma la morte si sta prendendo il mio corpo e mi rimangono soltanto pochi minuti in questo Mondo di Lacrime.
A me e anche alla Bestia. E' stata una sua scelta. Ha mancato alla promessa. Il Contaminato paga per avermi ingannata. Non ingannerà nessun'altra. E va incontro alla morte senza aver appagato il suo desiderio!
Risvegliato dalla leggera e strana risata André chiese: “Cosa?”.
“Niente. Più tardi rideremo insieme. Non più al buio dopo questa sera, Furansu-san. Non più al buio.”
Stanco di aspettare Akimoto, Hiraga picchiò il pugno sul tatami.
Uscì nella notte battuta dal vento e seguì i sentieri del giardino fino alla porta nello steccato.
Infilò un sentiero sbagliato, tornò indietro e infine giunse alla casa di Takeda. Sulla veranda si fermò. Sentiva russare.
“Akimoto, Takeda?” chiamò piano. Non osò aprire lo shoji senza annunciarsi perchè ogni shishi reagiva alle sorprese con la spada.
Nessuna risposta. Il rumore continuava. Scostò silenziosamente la porta. Akimoto era riverso sul tavolo, sul pavimento erano disseminate bottigliette di sakè e di birra.
Di Takeda nessuna traccia. Furente lo scosse. Il giovane si destò dal torpore e semiaddormentato bofonchiò: “Cosa succede?”. Il volto di Hiraga gli appariva confuso e sdoppiato.
“Dov'è Takeda? Svegliati! Baka! Dov'è Takeda?”
“Non lo so... bevevamo insieme...” Per un istante Hiraga rimase impietrito mentre il mondo gli crollava addosso, poi corse fuori, attraversò il giardino, scavalcò la recinzione e raggiunse il deposito segreto.
Gli si annebbiò la mente, poi ricordò il piano, noto a tutti loro, e i posti prescelti per le bombe.
Tornando alla casa di Takeda la paura gli mise le ali ai piedi. Dapprima non riuscì a distinguere niente, poi sentì un leggero odore di polvere da sparo e si infilò sotto i piloni di pietra del basamento, ma la miccia era molto ben nascosta e il fumo veniva disperso dalle forti correnti d'aria. Uscì e salì nella stanza per svegliare Akimoto.
“Alzati, svegliati!”
Quando il giovane ubriaco tentò di scacciarlo Hiraga lo schiaffeggiò a mano aperta sul viso. Due volte. Il dolore riportò lo shishi a una confusa coscienza.
“Takeda ha preso le bombe, sta dando fuoco alla locanda, ce n'è una qui sotto...” Hiraga lo sollevò.
Appoggiandosi a lui Akimoto si trascinò fuori, cadde dalle scale e si ritrovò sul sentiero. Il vento fischiava minaccioso. In quell'istante esplose la prima bomba.
Non fu una grande esplosione, quanto bastava per scaraventarli a terra e per squarciare il pavimento della casa. Il boato era stato smorzato dalle assi dell'impiantito e dal vento, ma la pioggia di olio rovente era mortale. Le fiamme divamparono subito alte.
“Vai nel cunicolo e aspettami lì” ordinò Hiraga con voce roca, poi si dileguò. Bruscamente risvegliato dall'esplosione e dalla prossimità della morte, Akimoto cominciò a correre, ma fu colpito da alcuni tizzoni ardenti portati dal vento. Batté con frenesia le mani contro i vestiti e si allontanò.
Quando alzò di nuovo lo sguardo la casa era diventata un inferno, le fiamme stavano divorando tutto: tatami di fibra di riso, shoji di carta oleata, assi del pavimento, travi e tetto di paglia. Il tetto crollò con una pioggia di scintille che subito vennero risucchiate e trascinate dal vento verso l'edificio vicino. La paglia prese fuoco. Le campane suonarono l'allarme mettendo in movimento cameriere, inservienti, clienti, cortigiane e guardie all'ingresso.
La seconda bomba scoppiò quando Hiraga era soltanto a pochi metri dalla casa, accanto al confine meridionale.
L'esplosione fu modesta, ma lo scaraventò nei cespugli mandandolo a sbattere malamente contro un ornamento del giardino, un drago di pietra, strappandogli un grido di dolore.
Crollarono le palafitte e le pareti di un angolo della casa, che traballò inclinandosi di lato come un ubriaco. Un muro prese fuoco.
Hiraga si rialzò, senza esitazione saltò sulla veranda e sfondò la parete di shoji in fiamme. All'interno gli schizzi d'olio bruciavano, coperti da una coltre di fumo. Si mise la mano sul volto per difendersi dal calore e trattenne il respiro.
Boccheggiante e riverso su un fianco, Tyrer tentava disperatamente di mettersi in ginocchio.
La parete di shoji impregnata di combustibile alle sue spalle divenne uno schermo infuocato. Dalle pareti, dalle travi e dal soffitto piovevano fiamme su quanto rimaneva del futon dove era sdraiato. L'orlo del suo kimono da notte lacerato si incendiò. Con un balzo Hiraga lo raggiunse, calpestò le fiamme e lo prese tra le braccia.
Uno sguardo a Fujiko fu sufficiente. La bomba l'aveva tagliata in due, i capelli erano già bruciati e si stava trasformando in cenere.
Semi accecato dal fumo Hiraga trascinò Tyrer sul sentiero. In quell'istante il tetto infuocato crollò.
Nella foga della corsa caddero l'uno sull'altro. L'esplosione di scintille e tizzoni fu trasformata dal vento in un lanciafiamme che appiccò il fuoco ad altri padiglioni, alla recinzione e alla casa da tè più vicina.
Tra grida e richieste d'aiuto i primi soccorritori si avvicendavano con secchi pieni d'acqua e secchi vuoti, molti avevano già il volto coperto dalle maschere bagnate, disponibili in ogni casa per le emergenze.
Stupito di essere ancora vivo, nonostante la tosse e i conati di vomito, Hiraga spense con le mani un brandello infuocato del kimono sul petto. In vita portava ancora la spada corta, quella lunga era scomparsa.
Tyrer gli sembrava incolume, ma non poteva esserne sicuro perchè il gai-jin era semi svenuto, ansimava e continuava a vomitare per il fumo inalato.