Gai-Jin (51 page)

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Authors: James Clavell

Tags: #Fiction, #Action & Adventure

BOOK: Gai-Jin
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“Dottore di Medicina Saggio e Illuminato, ayeeyah, proprio un bel nome!” Lim rise e crepapelle.

“E non ho mai sentito un demone straniero parlare così bene la mia lingua.”

“Perfetto. E presto ne sentirai delle altre se non la smetti di chiamarmi demone straniero. E' stato Chen della Nobil Casa a scegliermi il nome.”

“Chen della Nobil Casa?

“ Lim lo guardò con aria sciocca. “L'illustre Chen che possiede più borse d'oro di quanti peli abbia un bufalo? Ayeeyah, che privilegio fornicante!”

“Sì” convenne Hoag, aggiungendo qualcosa che non corrispondeva del tutto alla verità, “mi ha detto che se incontro qualche problema a causa di qualcuno del Regno di Mezzo, umile o altolocato, o se non vengo trattato con A rispetto dovuto a un amico, devo riferirgli al mio ritorno il nome del vile fornicatore.”

“Oh ko, Dottore di Medicina Saggio e Illuminato, è senz'altro un onore avervi nella nostra umile e fangosa dimora.” Il dottor Hoag ebbe l'impressione di aver ottenuto un ottimo risultato e benedisse i suoi insegnanti, quasi sempre pazienti colmi di gratitudine, che gli avevano insegnato le parole più importanti e come trattare alcune persone e alcune situazioni nel Regno di Mezzo.

La giornata era piacevole e calda e la piccola città gli fece una buona impressione con i suoi templi visti dall'alto, i pescatori occupati nella pesca a strascico nelle acque interne, i contadini chini nelle risaie, uomini e donne che andavano e venivano indaffarati e l'inevitabile flusso di viaggiatori sulla Tokaidò, alle spalle di Kanagawa.

Quando raggiunse la Legazione con l'aiuto coscienzioso di Lim, Hoag si era fatto un quadro della situazione di Kanagawa, del numero odierno di pazienti di Babcott e di quello che l'aspettava.

George Babcott stava operando assistito da un giapponese, un apprendista assegnatogli dalla Bakufu affinché gli insegnasse la medicina occidentale.

L'anticamera era affollata di gente del villaggio. L'intervento chirurgico era brutale, si trattava dell'amputazione di un piede: “Questo povero diavolo è un pescatore a cui è rimasta una gamba intrappolata tra la barca e il molo; non sarebbe successo senza il sakè, temo.

Quando ho finito possiamo parlare di Malcolm. L'avete visitato?”.

“Sì, fate pure con calma. Mi fa piacere vedervi, George. Posso esservi d'aiuto?”

“Grazie, molto volentieri.

Qui me la cavo da solo, ma se volete potete dare un'occhiata alla folla fuori, dividere i casi urgenti da quelli che possono aspettare. Occupatevi di chi volete. C'è un'altra “sala operatoria” qui accanto ma è poco più di una stanzetta. Mura, passami la sega” disse al suo assistente sillabando le parole, e afferrato lo strumento cominciò ad amputare il piede del pescatore.

“Tutte le volte che ho un intervento qui succede il finimondo. Nell'armadio ci sono le solite cose, iodio eccetera, le solite medicine, qualche analgesico, sciroppi amari per la tosse delle vecchiette, dolci e sciroppi dolci per quelle arrabbiate.“

Hoag uscì e andò a occuparsi della gente in attesa nell'anticamera. Il loro atteggiamento ordinato e paziente, gli inchini e il silenzio lo stupirono. Stabilì ben presto che nessuno di loro era affetto da vaiolo, lebbra, morbillo, tifo o colera né da altre malattie infettive, in gran parte endemiche in Asia.

Sollevato dalla constatazione si dedicò a interrogarli a uno a uno. Dapprima incontrò molta diffidenza, ma per fortuna tra i pazienti in attesa vi era un anziano scriba e indovino itinerante di Canton, Cheng-sin, che parlava giapponese e che gli offrì il suo aiuto, in cambio della promessa di una medicina particolarmente efficace e moderna per alleviare la sua tosse secca.

Dopo essere stato presentato come il Maestro del Gigante Guaritore, il dottor Hoag cominciò le visite nel secondo ambulatorio.

Alcuni dei pazienti soffrivano di disturbi leggeri, alcuni erano casi più seri; riscontrò febbri, malori, dissenterie e sintomi analoghi di cui riuscì quasi sempre a risalire alla causa, poi vi erano alcune ossa rotte da aggiustare, qualche ferita da spada e coltello, ulcere, una giovane donna sofferente molto prossima al momento del parto.

Con occhio esperto Hoag giudicò che quel parto, il quarto, sarebbe stato difficile, e che le cause della sofferenza di quella donna erano un matrimonio troppo precoce, il lungo lavoro nei campi e i tre figli, che erano già troppi.

Le diede una bottiglietta contenente un estratto di oppio.

“Dille che quando arriverà il momento e il dolore sarà troppo forte ne dovrà bere un cucchiaio.”

“Un cucchiaio? Grande o piccolo, Onorabile Saggio e Illuminato?”

“Un cucchiaio normale, Cheng-sin.” La donna s'inchinò.

“Domo arigato gozaimashita” mormorò uscendo, patetica nella sua gratitudine, mentre con entrambe le mani cercava di aiutarsi a sostenere il peso del ventre.

Bambini con febbre e raffreddore, anchilostomiasi e qualche altra malattia infantile, una situazione molto meno grave di quanto avesse immaginato.

Nessun caso di malaria; i denti erano bianchi e forti, gli occhi chiari, niente pidocchi, tutti i pazienti sembravano straordinariamente puliti e sani se paragonati agli abitanti di villaggi simili in Cina. Nessun caso di assuefazione all'oppio.

Dopo un'ora Hoag si sentì felicemente lanciato nella pratica della sua professione. Aveva appena finito di sistemare un braccio rotto quando all'improvviso la porta si aprì e una bella ragazza vestita con eleganza entrò con passo incerto salutando con un inchino. Indossava un kimono di seta azzurra con un obi verde, e tra i capelli corvini dai riflessi bluastri spuntavano alcuni pettini.

Hoag notò che Cheng-sin si era irrigidito. La ragazza rispose alle sue domande in tono persuasivo, e a bassa voce benché fosse visibilmente nervosa.

“Dottore di Medicina Saggio e Illuminato” disse Cheng-sin inframmezzando ogni parola con un colpo di quella tosse secca che Hoag aveva diagnosticato al primo istante come tubercolosi terminale. “Questa signora dice suo fratello bisogno di importante aiuto, quasi morto. Vi prega di accompagnarla, la casa è vicina.”

“Dille di farlo portare qui.”

“Sfortunatamente non si può muovere.”

“Di cosa soffre?” Dopo altre domande e altre risposte che a Hoag sembrarono più che altro una trattativa d'affari Cheng-sin disse: “La sua casa si trova solo a due strade. Suo fratello è...” tossì cercando la parola, “dorme come uomo morto ma è vivo con delirio e febbre.”

La voce di Cheng-sin si fece suadente: “Lei paura muoverlo, Onorabile Dottore di Medicina Saggio e Illuminato. Suo fratello samurai. Lei dice molte persone importanti molto felici se aiutate fratello. Credo lei dice verità”.

Dai giornali di Hong Kong, Hoag aveva imparato che i samurai in quanto classe dirigente erano molto importanti in Giappone e che qualsiasi persona avesse ottenuto la foro fiducia e quindi la loro cooperazione sarebbe stata d'aiuto all'influenza britannica. Scrutò la ragazza che abbassò immediatamente gli occhi diventando ancora più nervosa. Poteva avere quindici o sedici anni e aveva tratti diversi da quelli delle donne del villaggio, e una carnagione magnifica. Se suo fratello è samurai lo è anche lei, pensò affascinato.

“Come si chiama?”

“Uki Ichikawa. Prego fare svelto.”

“Suo fratello è un samurai importante?”

“Sì” rispose Cheng-sin. “Io accompagno voi. Non avere paura.” Hoag sbuffò. “Paura io? Al diavolo la paura!

Aspettate qui.” Andò nella sala operatoria e aprì la porta senza far rumore, Babcott era totalmente assorto nell'estrazione di un dente con ascesso, un ginocchio appoggiato al petto del giovane la cui madre disperata si torceva le mani parlando senza sosta, che non lo sentì entrare. Decise di non disturbarlo.

Ai cancelli il sergente della guardia fermò il gruppo e chiese a Hoag dove fosse diretto. “Vi faccio accompagnare da un paio dei miei ragazzi. Le cautele non sono mai troppe.”

La ragazza cercò di dissuaderli dal portare con loro dei soldati ma il sergente fu irremovibile e alla fine dovette accettare la scorta. Sempre più nervosa li condusse lungo interminabili vicoli. Al loro passaggio gli uomini distoglievano lo sguardo e scappavano.

Hoag portava con sé la sua valigetta. Riusciva ancora a vedere il tempio al di sopra dei tetti e si sentiva rassicurato all'idea di avere con sé i due soldati.

Andare da solo in una missione simile sarebbe stata una follia. Cheng-sin li seguiva camminando con l'aiuto di un lungo bastone.

Questa giovane non è quello che finge di essere, pensò Hoag con freddezza.

Imboccarono un altro vicolo. Poi la ragazza si fermò davanti alla porta di una palizzata e bussò. Prima si aprì una grata, quando il tarchiato domestico vide i soldati cercò di richiudere subito la porta che aveva socchiuso ma la ragazza gli ordinò in tono imperioso di aprire.

Il giardino era piccolo e ben tenuto e molto tradizionale. I gradini conducevano a una veranda dove la ragazza si sfilò gli zoccoli e chiese agli altri di imitarla. Non fu facile per Hoag che calzava un paio di stivali alti fino al ginocchio ma la ragazza ordinò a una cameriera di aiutarlo e venne obbedita all'istante.

“Voi due restate di guardia qui” disse Hoag ai soldati, un pò in imbarazzo per i buchi nei calzini.

“Sissignore.” Uno dei due giovani controllò il fucile.

“Vado a dare un'occhiata qui intorno. Se c'è qualche problema gridate.”

La ragazza fece scorrere una parete shoji. Ori Ryoma, lo shishi dell'attacco sulla Tokaidò, giaceva sui futon tra lenzuola madide di sudore mentre una cameriera seduta sul pavimento gli faceva aria con un ventaglio.

La donna spalancò gli occhi quando vide Hoag anziché l'Onorabile Gigante Guaritore che si era aspettata di vedere e si ritrasse in un angolo della stanza mentre lui avanzava lentamente a piedi scalzi con passi goffi.

Ori era in coma, le sue spade erano state appoggiate su un basso scaffale e nel takoma c'era un mazzo di fiori. Hoag gli si inginocchiò accanto. La sua fronte scottava ed era paonazzo, era chiaro che si trattava di una febbre pericolosa. La causa di quella febbre gli fu subito chiara quando scostò la fasciatura sulla spalla.

“Cristo” mormorò vedendo l'estensione della zona infiammata: esaminò la parte gonfia e malata, ne annusò l'odore e tastò la carne ormai nera per la cancrena intorno alla ferita aperta dal proiettile.

“Quando gli hanno sparato?”

“Lei non sa esattamente. Due o tre settimane.” Hoag osservò la ferita per qualche istante, poi, indifferente agli sguardi acuti e interrogativi dei presenti, uscì dalla stanza e andò a sedersi sulla veranda a fissare nel vuoto.

Ciò di cui avrei bisogno adesso per salvare questo povero ragazzo è il mio ottimo ospedale di Hong Kong e una buona attrezzatura chirurgica, le mie magnifiche infermiere nonché una buona dose di fortuna.

Maledetti fucili, dannata guerra, dannati politici...

Per l'amor di Dio, ho cercato di rabberciare le mutilazioni provocate dalle armi da fuoco durante tutta la mia carriera, senza riuscirvi quasi mai, sei anni con la compagnia delle Indie Orientali nel terribile Bengala, quindici anni nella Colonia, gli anni delle guerre dell'Oppio, un anno come volontario in Crimea, il peggiore di tutti, con il distaccamento dell'ospedale di Hong Kong.

Dannati fucili! Cristo, quante vite sprecate!

Dopo aver sfogato la sua ira con le bestemmie si accese un sigaro e gettò il fiammifero in giardino. Il domestico sbalordito si affrettò a raccogliere l'oggetto oltraggioso.

“Oh, mi dispiace” disse Hoag che non aveva notato la pulizia che regnava nel giardino. Inspirò profondamente, allontanò i ricordi e si concentrò sul giovane.

Quando fu pervenuto alla sua decisione accennò il gesto di scagliare il mozzicone del sigaro sul pavimento, si fermò in tempo e lo tese al domestico, che dopo un inchino corse a seppellirlo in un angolo nascosto.

“Cheng-sin, dille che mi dispiace ma che credo che suo fratello morirà sia che operi sia che non operi. Mi dispiace.”

“Lei dice: “Se muore è karma. Se non riceve aiuto muore oggi o domani.

Per favore prova. Se muore, karma. Lei chiede aiuto”. Poi Cheng-sin aggiunse a bassa voce: “Dottore di Medicina Saggio e Illuminato, questo giovane è importante. Importante provare”.

Hoag guardò la ragazza, che ricambiò la sua occhiata.

“Dozo, Hoah Ghe-sama” disse. Per favore.

“D'accordo, Uki. Cheng-sin, ripetile che non posso prometterle niente ma che proverò. Ho bisogno di sapone, di molti bacili di acqua calda, lenzuola pulite, molte lenzuola tagliate a forma di tamponi e bende, molta quiete e qualcuno con uno stomaco forte per darmi una mano.” La ragazza indicò se stessa. “Sòji shomasu”: lo farò io.

Hoag si accigliò. “Dille che sarà molto brutto, con molto sangue, molta puzza, un brutto spettacolo.” La guardò mentre ascoltava la traduzione del cinese e rispondeva con evidente orgoglio: “Gomen nasai, Hob Ghe-san wakayimasen. Watashi samurai desu”.

“Dice “Prego scusare, io capisce. Io sono samurai.””

“Non so che cosa ciò significhi per te, graziosa signorina, e non sapevo nemmeno che le donne potessero essere samurai, comunque cominciamo pure.”

Hoag scoprì subito una delle qualità dei samurai: il coraggio. Durante tutta l'operazione di ripulitura la ragazza non ebbe mai un cedimento, né quando recidevano il tessuto infetto o estraevano il pus maleodorante ripulendo la ferita, né mentre il sangue pulsava da una vena parzialmente recisa che Hoag riuscì a riparare arrestandone il flusso tamponando e tamponando senza fine.

Le ampie maniche del kimono della ragazza erano state arrotolate e fissate in modo che non le intralciassero i movimenti, e la sciarpa con cui aveva legato i capelli ben presto fu intrisa di sudore.

Per un'ora intera Hoag lavorò canticchiando tra sé, senza sentire nulla, né rumori né odori, con tutti i sensi concentrati nella ripetizione di un intervento che aveva compiuto qualche migliaio di volte di troppo: tagliare, cucire, ripulire, fasciare.

Quand'ebbe finito, con calma si stiracchiò per allentare la tensione della schiena, si lavò le mani e si tolse il lenzuolo insanguinato che aveva usato come grembiule. Ori era in bilico all'estremità della veranda steso su un tavolo di fortuna, Hoag aveva operato dando le spalle al giardino: “Non posso lavorare seduto sulle ginocchia, Uki” aveva spiegato.

La ragazza aveva fatto tutto ciò che lui le aveva chiesto senza mai discutere. Non c'era stato bisogno di anestetizzare il ferito. Hiro Ichikawa, così gli avevano detto che si chiamava, era immerso in un coma profondo. Un paio di volte durante l'intervento gridò, non per il dolore ma per qualche demone che lo inseguiva nell'incubo.

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