Rod era stato una benedizione del cielo per Jo, che aveva finito con l'adorarlo, e per un po' erano stati una famiglia felice. Poi, nel 1994, Rod era partito per il Ruanda ed era tornato in patria in un sacco per cadaveri.
Jo aveva sette anni, non poteva capire cosa fosse successo al patrigno e che di lui restassero solo immagini su videonastri.
Era un momento cruciale anche nella vita di Laura. Aveva iniziato da poco a fare la reporter di nera sul campo, non aveva ancora imparato a gestire lo squallore e le sofferenze di cui era testimone ogni giorno. Dopo essere stata spedita a occuparsi di un caso terribile, una prostituta che aveva staccato a morsi il pene di un cliente e poi si era sparata in faccia, aveva cominciato a fare ricorso ad antidepressivi e sedute settimanali di terapia.
Quella fase era passata. Si era corazzata contro le crude realtà di ciò che doveva fare per pagare le bollette. Però rimpiangeva spessissimo le scelte compiute in passato e, tutte le volte che rivedeva Philip, si rendeva conto di come le cose avrebbero potuto andare in ben altre direzioni, di quale intensità fosse ancora il suo amore per lui, di quante possibilità ci sarebbero state per condurre una vita completamente diversa. Però, ogni volta, capiva pure che le loro esistenze si allontanavano sempre più, che diventava più difficile, non più facile, immaginare una realtà alternativa che vedesse riuniti tutti e tre, Jo, Philip, lei stessa.
Per un istante, ciò che aveva detto e fatto quella sera le apparve stranamente sintomatico. Fu investita da una tristezza immensa e le costò un grosso sforzo fermare le lacrime. Non conosceva la risposta alla domanda di Philip. Si sarebbe comportata in maniera diversa?
Trasse un profondo respiro. «Mi spiace, Philip. Sono stata irragionevole.» Philip la scrutò per qualche secondo. Laura non era stata capace di rispondere, ma la capiva. Nemmeno lui aveva delle risposte. Talora Laura desiderava che le cose fossero andate in un altro modo, o così sospettava lui. Lui di certo lo desiderava, più spesso di quanto volesse ammettere persino con se stesso. E quando indugiava sull'argomento, una voce insistente chiudeva la conversazione interiore con la logica constatazione che ormai era troppo tardi e quel che era stato era stato.
Sorrise improvvisamente. «Al diavolo! Sono certo che a Monroe passerà. È un buon poliziotto, ma anche un bastardo arrogante.» Laura si allungò a baciarlo sulla guancia. Lui inserì la marcia e tornò sulla strada.
«Allora, vuoi dirmi quello che sai?» Philip emise un sospiro greve, ma la rabbia ormai gli era passata.
«Dannazione, donna, non ti arrendi proprio mai, eh?»
«No», rispose Laura, con un sorriso. «Di solito, no.»
«Okay. Per essere onesto, non ne so molto più di te. Era una ragazza sui vent'anni. Tornava a casa dopo essere stata da un'amica. È morta fra le sette e le otto e trenta di stasera. L'ha trovata un uomo che portava a passeggio il cane. La casa più vicina dista sui duecento metri. Nessuno ha visto o sentito qualcosa.»
«Ma le ferite...» La voce di Laura si spense. «Ho quasi quindici anni di cronaca nera alle spalle e non ho mai visto niente di simile.»
«No, non era piacevole.»
«Al non piacevole sono abituata. Clienti che tagliano la lingua alle prostitute, teste che esplodono sotto i colpi di semiautomatiche, cose del genere. Però a quella ragazza hanno tolto il cuore, Cristo santo. Con una meticolosità da chirurgo.»
«Lo so. Ho scattato le foto.»
«Secondo me, è molto al di là del raggio d'azione dell'assassino medio, Philip. Più... non so... ritualistico, direi.»
«Sì, può darsi», ammise Philip fissando la strada. «Non sono un poliziotto.» Qualche istante di silenzio, poi Laura chiese: «E quella moneta? Che diavolo significa?»
«Perché così tanto interesse?» ribatté in tono impaziente lui.
«E chi lo sa. Probabilmente in cuor mio sono ancora una vecchia giornalista di nera.»
Un vento nervoso percuoteva le finestre della camera di Laura, a casa di Philip. Laura scivolava in un sonno inquieto e ne usciva di continuo.
Sognava la stessa cosa che sognava sempre in notti come quella: un sogno che non era un vero sogno, semmai un ricordo distorto.
All'inizio, l'aereo volava sopra Los Angeles.
Era notte.
Andava a trovare i suoi genitori nelle rispettive case in California, poco dopo essere tornata a New York. Erano al di sopra delle zone periferiche più esterne, prima ancora che il pilota annunciasse l'inizio della discesa. Dieci minuti più tardi, sorvolavano la città vera e propria. L'aereo virava dolcemente in direzione nord, in parallelo alla costa. Ora lei poteva vedere la città, illuminata come una galassia, come una delle incredibili immagini trasmesse dal telescopio Hubble. E ogni automobile era una stella, e ogni casa un piccolo sistema solare, un sistema solare di luci. L'inquinamento dell'aria le faceva lampeggiare e tremolare.
Ovviamente Laura aveva già fatto quel volo, forse una decina di volte, però mai di notte. Semplicemente incredibile. Poi vedeva. Vedeva le luci, gesto di sfida, dito d'oltraggio mostrato dagli uomini agli dei, pura impudenza. Sotto di lei correva la I-405 col suo milione di automobili. Ma da novecento metri di quota non somigliava affatto a una strada. Non vedeva guardrail, asfalto, confini, soltanto una striscia nera fra le luci. E i puntini di luce in corsa non potevano essere automobili. I veicoli si erano disincarnati, erano semplici fari in movimento per volontà propria, soltanto luci. A quel punto, era il quadro d'assieme a colpirla, la totalità del paesaggio, le lunghe strisce che contenevano tutte quelle luci intente a muoversi in colonne ordinate, sei corsie in ogni senso, puntolino dopo puntolino dopo puntolino, in un'unica migrazione. Per un momento erano stati contenitori metallici che trasportavano Stan o Jim o Tabitha, li riportavano a casa dal piccolo Jimmy, da Dorothy e Dolores; erano stati semplici luci, bolle di umanità, bozzoli con musica che usciva dalle radio.
Erano stati, almeno nella mente di Laura, grumi di pensieri, accumuli di desideri, ricordi, timori e fragilità. Ma quel momento era passato e ormai i puntolini erano qualcosa d'altro. La superstrada era diventata un'arteria e i puntini luminosi, le luci disincarnate erano corpuscoli, i globuli rossi dei fanalini posteriori e i globuli bianchi dei fari che correvano su e giù lungo l'arteria di un corpo scuro che stava morendo là sotto, chissà dove, invisibile nel bagliore generale.
Si svegliò di botto, si rizzò a sedere. Sbirciò la sveglia, vide che erano le 5.32 del mattino. Il clima esterno era da tempesta. Poi ricordò che Jo era ancora fuori quando erano arrivati a casa, poco prima di mezzanotte. Non l'aveva sentita rientrare.
Ormai era perfettamente sveglia. Le immagini del cadavere esangue che aveva visto sull'automobile le invasero il cervello. C'erano sangue e tessuti umani sparsi all'interno del veicolo. Cose alle quali era abituata, finché non ricordò il petto squarciato della ragazza, quel che aveva visto a pochi passi dall'auto, a fianco di Monroe. Le costole dovevano essere state tagliate da uno strumento per specialisti, qualcosa di adatto a un chirurgo. I tagli rivelavano una precisione estrema, nessuna ridondanza. Rivide vene e arterie recise, i bordi della zona dalla quale era stato estratto il cuore.
Anche quelli rivelavano una mano esperta, precisa.
Riappoggiò la testa sul cuscino. Rifiutò di arrendersi al sonno, cercò di liberarsi delle immagini e di concentrarsi sulla propria vita. Ai piedi del letto le valigie erano pronte. Alle dieci del mattino sarebbe uscita per raggiungere l'aeroporto. Entro la notte del giorno dopo sarebbe stata di ritorno al Greenwich Village, al suo appartamento, alle prese con piante morte da resuscitare e col nuovo libro. Il nuovo libro. Dio, non stava concludendo niente di niente, ricordò all'improvviso, e a quell'idea il sonno fuggì ancor più lontano.
Tentò di addentrarsi nella trama che aveva elaborato, per scomparire in un mondo di fantasia. Un trucco che aveva usato in passato e che aveva spesso funzionato contro l'insonnia. Quella volta, però, nulla sembrava in grado di sottrarla all'immediata realtà.
Si ritrovò sulla scena del crimine... Monroe che prendeva la moneta fra le dita inguantate di lattice. La moneta brillava sotto la luce dei riflettori, tranne nei punti in cui il sangue si era già coagulato. Laura non aveva mai visto qualcosa di simile. Sembrava molto antica. E per il suo occhio inesperto quello era oro, oro antico. Perché lasciarsi alle spalle un oggetto simile? Al di là del fatto che poteva fornire indizi, doveva valere una fortuna.
Philip aveva avuto perfettamente ragione a infuriarsi con lei, ma Laura sapeva che dietro c'era dell'altro. Il fatto che l'esplosione d'ira si fosse verificata la sera prima del suo rientro a New York non poteva essere una coincidenza. Il vecchio risentimento era riemerso. Philip pensava che lei lo avesse abbandonato tanti anni prima, anche se sapevano tutti e due, e non esistevano più dubbi in merito, che non avrebbero mai potuto andare d'accordo. Le ultime tre settimane erano state meravigliose. Non le era difficile ammettere di essersi talora abbandonata a una fantasia seducente: erano una famiglia, lei viveva in quella casa del diciassettesimo secolo vicino a Oxford, e Jo era cresciuta coi due genitori a fianco. Una fantasia piacevole.
Si era talmente immersa in quei pensieri che dapprima non sentì il telefono squillare a pianterreno. Poi ci fu il rumore della porta di Philip che si apriva, i suoi passi pesanti in corridoio e giù per la ripida scala a chiocciola. Lo sentì parlare ma non capì cosa dicesse. La cornetta venne riappesa. Sentì Philip risalire le scale. Più veloce, adesso. Qualche istante più tardi lui bussò alla sua porta e la aprì.
«Era per Jo», riferì, pallido, esangue nella luce del corridoio.
«Ha avuto un incidente d'auto. È al John Radcliffe.»
Cambridge, febbraio 1689
La sera prima, Isaac Newton non era riuscito nemmeno a disfare i bagagli per la stanchezza. Il suo domestico Elias Perrywinkle aveva trascinato il pesante baule, colmo di nuovi acquisti, nella corte interna e su per le serpeggianti scale in pietra del Trinity College, fino alle stanze che Newton divideva con un collega più anziano, John Wickins.
Congedato il domestico con una moneta e un borbottio di ringraziamento, Newton aveva a stento trovato l'energia per trasferire il baule nel laboratorio annesso al suo alloggio, togliersi gli stivali e gettare il mantello imbrattato di fango su una sedia, poi era crollato sul materasso, piombando all'istante in un sonno profondo.
Si era svegliato appena prima dell'ora settima. I primi raggi del fioco sole invernale entravano dalle finestre rivolte a est. Perrywinkle era arrivato qualche minuto dopo con una bacinella di peltro di acqua calda e un asciugamano pulito di lino. L'acqua era stata piacevole. Newton l'aveva sentita penetrare nella pelle secca. Vedendosi riflesso nello specchietto che aveva messo sul davanzale della finestra si era trovato in condizioni non buone: un uomo che ricordava solo vagamente cosa fosse un sonno ristoratore, senza sogni.
Rimasto solo, dopo che l'acqua sporca era stata portata via, indossò una camicia fresca, infilò gli stivali e ripescò in tasca la chiave del laboratorio.
Strada facendo, raccolse il piatto placcato in argento e la tazza lasciati dal domestico. Sul piatto c'erano una mela e un pezzo di pane, nella tazza acqua tiepida.
Il laboratorio non era particolarmente grande: per quanto Newton fosse titolare da vent'anni della cattedra di matematica istituita da Henry Lucas all'università di Cambridge, le autorità del college non erano state troppo generose con lui. Ma gli bastava. Accese una torcia a entrambi i lati della porta, creando pozze di luce nella stanza priva di finestre, e chiuse a chiave la porta. Sapeva che Wickins era in visita alla famiglia a Manchester, ma non poteva rischiare intrusioni o venire spiato nel suo regno privato.
Raggiunse il caminetto, accatastò un po' di legna e con l'aiuto di una delle torce accese un fuoco che cacciò le ombre e gli permise di vedere bene, nonostante la fitta nebbia di sostanze chimiche che lì aleggiava sempre.
La stanza era colma di scaffali. La biblioteca di Newton era arrivata a trecento volumi circa, per la maggior parte imperniati su ogni aspetto dell'alchimia e della tradizione ermetica. Aveva usato il denaro che gli veniva ogni anno dalla proprietà di famiglia di Woolsthorpe, nel Lincolnshire, e una buona fetta del suo stipendio d'insegnante per creare quella raccolta, forse la migliore dell'intera cristianità. Lì si potevano trovare la Cena de le Ceneri di Giordano Bruno, traduzioni delle opere eretiche di Galileo messe al bando dal Vaticano, trascrizioni dalla Tavola di Smeraldo, i Manifesti dei Rosacroce, la Septimana Philosophica di Michael Maier e opere di Raimondo Lullo, Robert Fludd e Jakob Böhme.
Non tutti gli scaffali erano occupati da libri. Alcuni ospitavano pile di carta, appunti di Newton e resoconti dei suoi esperimenti, che tracimavano anche su un tavolo a un lato della stanza. Un terzo circa degli scaffali era consacrato a bottiglie e vasi di vetro. Alcune bottiglie contenevano liquidi colorati; tutti i recipienti erano dotati di tappo ed etichetta. In un angolo della stanza stava una complessa struttura in vetro, un apparato per la distillazione, e in un altro c'era un telescopio su un cavalletto. Nel grande camino in pietra, un calderone pendeva da staffe che sporgevano dai lati.
Entrando nella stanza, un estraneo sarebbe rimasto sopraffatto dalla combinazione di odori, seppur dotato della sensibilità olfattiva del diciassettesimo secolo. Per Newton, invece, gli odori erano diventati quasi subliminali; se un particolare insieme di effluvi avesse oltrepassato gli estremi a cui si era abituato, lo avrebbe considerato solo un poco sgradevole.
Si gelava, ma presto il fuoco avrebbe trasformato il locale in una vera sauna. Anni prima, Newton aveva fatto aprire da due operai fori speciali di ventilazione nella parete esterna del laboratorio, e probabilmente quella semplice modifica lo aveva salvato in più di un'occasione dalla morte per asfissia. Andò al tavolo, liberò uno spazio, vi trasportò piatto e tazza, poi si girò e si accoccolò davanti al baule che la sera prima aveva sistemato al centro della stanza.
Armeggiando con la chiusura, si mise a pensare al suo ultimo viaggio a Londra in cerca del tassello che gli mancava e che era certo si trovasse lì.