«Che fine farà il monaco misterioso, Bradwardine?»
«Oh, m'interessa ancora. Fra parentesi, non è mai stato monaco, Philip.» Laura sorrise. «Ho dovuto rendermi conto che non si sarebbe mai lasciato coinvolgere in una cospirazione per uccidere il re. Non era il tipo. Era un uomo profondamente religioso, il più grande matematico dei suoi tempi, destinato a diventare arcivescovo di Canterbury, ma non era un Rambo.
Comunque, tutto okay. Non avevo lavorato poi molto sull'idea. Ed esistono tante altre storie. Sono tutte lì nell'aria, pronte a essere afferrate. Penso che un giorno Bradwardine potrebbe ricomparire sul mio radar. Per il momento, lo metto in lista d'attesa.»
«Questa è una cosa che sembra detta da me», ribatté Philip.
«Già. Forse sono stata un tantino troppo dura con certi strani tratti della tua personalità, in tutti questi anni.» Laura si appoggiò allo schienale, bevve. Philip girò la testa per attirare l'attenzione di un cameriere. Lei vide il suo profilo e la colpì l'idea che fossero trascorsi più di vent'anni dal loro primo incontro. In tutto quel tempo Philip era cambiato pochissimo.
Ovviamente c'erano manciatine di capelli grigi nella distesa ribelle della sua capigliatura scura, e il viso era più gonfio, gli occhi più stanchi. Però possedeva ancora quel sorriso sicuro di sé, da uomo che conosce bene il mondo, che lei aveva trovato tanto attraente quando lui aveva ventidue anni. E gli occhi castani colpivano sempre al cuore.
Aveva pensato moltissimo a lui, quando viveva all'altro lato del mondo.
Erano rimasti separati così a lungo che le sembrava quasi impossibile trovarsi seduta lì con lui, in quell'affollato ristorante, con la pioggia che batteva sulle finestre e la luce giallastra dei lampioni fuori.
Guardandolo in quel momento, capì perché si fosse innamorata di lui, perché gli si fosse data come non aveva mai fatto prima o dopo. Per un secondo non riuscì a credere di aver rinunciato a tutto quello.
«Caffè?» Laura guardò Philip con espressione vacua.
«Ci sei? Caffè?» Il cameriere era al tavolo. Philip agitava una mano.
«Ah, già. Scusa. Prendo un decaffeinato macchiato... Grazie.»
«Eri a chilometri di distanza. Forse nella terra di Bradwardine e dei Plantageneti?»
«Probabilmente sì», mentì lei.
«Allora, adesso cosa farai?» domandò Philip, appena il cameriere si fu allontanato.
«Sui due piedi, non lo so. Sono certa che mi verrà in mente qualcosa.» Laura era volutamente evasiva e Philip lo sapeva. Stava per cambiare discorso quando squillò il suo cellulare. «Philip Bainbridge», disse. «Sì...
Sì.» Era insolitamente succinto al telefono, pensò lei. «Okay, sono solo a due o tre chilometri da lì. Potrei esserci in... quindici minuti... Va bene?
D'accordo.» Chiuse il cellulare.
«Problemi?»
«No, solo una scocciatura. Era la stazione di polizia. Vogliono che scatti qualche foto. Un incidente dalle parti del Perch, sai, il pub. Non hanno voluto dirmi altro. Scusa, sarà meglio chiedere il conto.»
Philip non aveva il tempo di riportare Laura a casa. Sulla sua MGB, vecchia di trent'anni, si gelava. Per Laura fu un sollievo vedere più avanti le luci blu. Lasciarono la strada, percorsero un tratto di ciglio erboso e fangoso, si fermarono a una decina di metri da una tenda bianca, fortemente illuminata, di un metro e mezzo di larghezza. La tenda delimitava la scena del crimine.
Philip spense il motore. Laura guardò dal parabrezza sporco.
Una figura in uniforme bianca, con la scritta SCIENTIFICA a lettere verdi sulla schiena, passò a fianco dell'automobile, diretta alla tenda.
«Laura, devi restare qui, temo. Solo personale della polizia.» Philip scese, si spostò al bagagliaio, prese una robusta custodia in pelle che conteneva la macchina fotografica e la sistemò a tracolla. Frugò all'interno tornando verso la portiera della MGB. Armeggiando con l'obiettivo della Nikon digitale, si chinò verso il finestrino. «Starai comoda qui?» chiese.
«Tanto non credo che là dentro la situazione sia molto divertente.» E prima che lei potesse rispondere, se n'era andato.
Laura rimase seduta in auto qualche minuto, poi la curiosità ebbe la meglio. Scese nel fango e si avviò verso la tenda. Nessuno la fermò. Si disse che avrebbe soltanto dato un'occhiata.
Scostato di pochi centimetri il lembo di plastica, guardò dentro. Vide solo le schiene di due agenti di polizia e l'uomo della scientifica: accoccolato, depositava con un paio di pinzette una cosa non identificabile in un contenitore di plastica trasparente. Dietro di lui c'era una piccola automobile rossa, a portiere aperte, con l'interno chiazzato di fango.
Risistemato il lembo, Laura camminò in punta di piedi attorno alla tenda. Si inginocchiò e avvicinò l'occhio a un foro nella plastica. L'auto era vicinissima. Riuscì a vedere bene nell'abitacolo dalla portiera destra, spalancata.
Il corpo di una giovane donna era riverso sul sedile. Braccia e gambe erano divaricate, la testa piegata all'indietro. Gli occhi aperti fissavano, ciechi, il tettuccio del veicolo. Indossava un top e una gonna, entrambi inzuppati di sangue. La carne era di un bianco intenso, come l'avessero prosciugata di tutto il sangue; la pelle appariva ancor più cerea, per effetto dei potenti riflettori. L'interno dell'auto era spruzzato di sangue. Schizzi arteriosi si erano depositati sui finestrini e sul cruscotto color panna.
La ragazza era giovane, circa l'età di Jo. Doveva essere stata molto carina. I lunghi capelli biondi cadevano oltre il sedile, però erano a loro volta sporchi di sangue e le si erano incollati a grumi sulle spalle. Un profondo solco rosso correva da orecchio a orecchio lungo il collo; un altro si estendeva dalla gola all'ombelico. Le avevano aperto la gabbia toracica e premuto le ossa all'interno.
Laura si rialzò. Da tempo credeva di aver visto talmente tante scene del crimine da essere immune a tutto, ma fu investita da un'ondata di nausea.
Si trovò sul punto di vomitare. Inghiottì grandi boccate d'aria e poco per volta la sensazione svanì. Stava per tornare di corsa alla MGB quando udì una voce al suo fianco. «Buona sera.» Ruotò sui tacchi. Un giovane poliziotto la fissava. Devo avere un aspetto schifoso, pensò lei, assurdamente. Si sentiva gelare, sapeva di essere pallida come un cencio. Gocce di sudore le imperlavano la fronte.
«Io, ehm...»
«Venga con me, per favore.» Il poliziotto la prese per il braccio.
Appena oltre l'ingresso della tenda, si rivolse a un poliziotto in borghese.
Laura restò ipnotizzata dalla visuale che aveva ora dell'interno dell'automobile, a pochi metri da lei.
«Salve.» Il poliziotto in borghese la scrutò dalla testa ai piedi. «Come mai è uscita in una sera così brutta e fredda?» Lei stava per rispondere quando Philip girò la testa, abbassò la macchina fotografica e sospirò. «Merda», lo sentì borbottare.
«Ispettore Monroe», Philip evitò con cura gli occhi di Laura. «È una mia amica, Laura Niven.» John Monroe era un uomo alto, massiccio, dalle spalle larghe. Portava un vestito marrone che non gli clonava e una cravatta color senape che aveva visto giorni migliori. Sulla quarantina, era calvo, salvo chiazze di capelli scuri tagliati in ispidi ciuffi sui lati della testa. Un tempo era stato un velocista promettente, ma si era lasciato andare. Una grossa testa poggiava su un collo corto e robusto. Il suo tratto più notevole, l'unico a conferirgli vaghe tracce di attrattiva fisica, erano i grandi occhi neri.
Suggerivano intelligenza e fermezza, ma senza segni di dolcezza o senso dell'umorismo.
«Ah, un'amica, signor Bainbridge.» La voce di Monroe aveva il classico tono baritonale, tinto dall'abituale sarcasmo.
«Sì, mi scuso. Le avevo chiesto...»
«Per amor di dio, Philip», sbottò Laura. «Sono capace di parlare e non sono una bambina.» Si girò verso Monroe, che per un secondo parve leggermente sconcertato. «Signore...»
«Detective ispettore capo.»
«Detective ispettore capo... Monroe? Chiedo scusa. Philip mi aveva detto di restare in macchina. Ero...»
«Curiosa?»
«Suppongo di sì.»
«Si renderà conto, signora Niven, che questa è una scena del crimine, e di un crimine particolarmente efferato. Persone estranee...»
«Detective ispettore capo, posso garantire per Laura», insistette Philip.
«Credo sappia che non avrebbe dovuto, però...» Venne interrotto da una figura in tuta bianca, vicino all'automobile, che disse: «Ispettore capo? C'è una cosa che penso debba vedere».
Monroe girò sui tacchi e fece due passi in direzione dell'automobile.
Philip fulminò con lo sguardo Laura. Stava per dirle qualcosa quando lei, aumentando la sua irritazione, si mise a seguire Monroe.
«Era all'interno della ferita», spiegò l'uomo della scientifica. Tra pollice e indice inguantati stringeva una moneta sporca di sangue.
Monroe la prese e la alzò alla luce. Laura riuscì a scrutarla per bene prima che Monroe la guardasse con aria truce, costringendola a indietreggiare. Il diametro era di circa 25 millimetri e la faccia rivolta verso loro era decorata da una scena resa con maestria: cinque figure femminili vestite con una tunica tenevano sollevata una coppa.
«A me sembra vero oro», continuò l'agente. «Però dovrò ottenerne conferma in laboratorio.» Monroe depositò la moneta in un sacchetto di plastica che l'altro teneva aperto per lui, poi si girò e vide Laura a poca distanza. Scoccò un'occhiata dura a Philip.
«Signor Bainbridge», suggerì, passandosi l'indice tra il colletto della camicia e il collo.
«Se ha finito qui, vuole avere la cortesia di scortare la signora all'automobile e tornare a casa?»
«Le auguro la buona notte, detective ispettore capo», ribatté Laura mentre Monroe le girava la schiena.
«È stato un piacere conoscerla.»
«Cosa diavolo pensavi di fare?» la strapazzò Philip.
Era più arrabbiato di quanto lei lo avesse mai visto.
«È il mio lavoro, Laura. Scherzi del genere potrebbero farmi licenziare.»
«Oh, per amor del cielo, Philip, calmati. Stavo solo sbirciando dall'esterno della tenda. Quel poliziotto ha peggiorato le cose portandomi dentro, no?» Philip si girò a guardarla un istante, poi riportò gli occhi sulla strada.
«Sai, a volte...»
«Cosa?»
«La scena di un crimine non è aperta al pubblico, a meno che lo dica la polizia. Lo sai benissimo, Laura.»
«Okay, okay, mi spiace. Mi sarei scusata. Non ne ho avuto occasione.»
«Fortuna per te che Monroe era assorto in ben altre preoccupazioni.» Restarono zitti per un momento.
«Allora, cosa ne dici?»
«Non sono autorizzato a parlarne, Laura.»
«E dai, Philip. Sono io, ricordi?» Lui fissò la strada. Laura gli lesse tensione nel profilo della mascella.
«Le cose stanno così, eh? Ti chiudi a ostrica solo perché ho infranto le regole.» Lui continuò a ignorarla.
«Tipico», sbuffò lei.
Philip frenò all'improvviso, portò l'auto a fermarsi sul ciglio della strada.
Lasciò il motore in folle e si girò verso Laura.
«Senti.» Non riusciva a trattenere l'ira nella voce. «Laura, per quanto io ti ami, a volte sai essere una bastarda terribilmente irritante e arrogante.» Lei fece per protestare.
«No, Stammi a sentire tu, tanto per cambiare.» Philip alzò leggermente la voce. «La mia vita è qui. Tu puoi rientrare a New York domani e tornare ai tuoi libri e al tuo piccolo mondo. Io devo lavorare con quelle persone diversi giorni ogni settimana. È così che mi guadagno da vivere. Però il rispetto non è mai stato il tuo forte, giusto?»
«Cosa?» sbottò lei.
«Hai sempre fatto quello che volevi. Sei andata e venuta come preferivi.» Philip si fermò. Rimpiangeva già di averlo detto. Sapeva che una parte della sua rabbia non aveva nulla a che fare col comportamento di Laura quella sera, ma molto a che fare col passato. Ci fu un lungo silenzio.
«Non mi sembra affatto giusto», rispose infine Laura. «Detto così, sembra una strada a senso unico, Philip. Se parli di Jo, di quello che abbiamo deciso di fare, eri coinvolto quanto me in quelle decisioni.»
«Davvero?» La voce di lui era lievemente più calma. «Veramente veramente? Saresti rimasta in Inghilterra con lei, se te lo avessi chiesto? Io non credo.» Laura non sapeva cosa rispondere. Molto semplicemente, erano due ragazzi. Lei veniva da una famiglia distrutta.
I genitori erano divorziati; Jane, sua madre, attrice di film di serie B, all'epoca era in fase di post-disintossicazione in una comune di San Luis Obispo; suo padre era un avvocato di grido a Los Angeles. Laura aveva vinto una borsa di studio Rhodes per Oxford, dove aveva frequentato il corso di laurea in storia dell'arte. Era ambiziosa, mirava in alto.
Poi era rimasta incinta: nausee mattutine poco prima degli esami finali.
Mentre gli altri scolavano bottiglie di champagne dopo l'ultimo esame, lei era tornata alla sua stanza al Magdalen a piangere e vomitare di nuovo. I genitori si erano presentati alla cerimonia di laurea e lei era riuscita a dirlo alla madre. Jane l'aveva presa con filosofia e non aveva mai cercato di spingere la figlia in una direzione piuttosto che nell'altra. Lottava coi propri demoni da anni e una figlia ventunenne incinta non era un grosso problema. Ora Laura si chiedeva se non sarebbe stato meglio essere guidata a prendere una decisione.
Philip aveva cercato di comportarsi da adulto. Si era laureato l'anno prima, però viveva alla giornata, guadagnando quel che poteva con fotografie di matrimoni e battesimi, sognando mostre che nella realtà sarebbero venute solo una decina d'anni più tardi. Era spiantato, immaturo e non aveva idea di cosa fare. Dopo il parto, Laura aveva preso in considerazione l'ipotesi di restare in Europa e trovarsi un lavoro. Forse lei e Philip potevano concludere qualcosa, mettere assieme le rispettive vite, ma un sesto senso le diceva che non ci sarebbero mai riusciti. Prima che la bambina compisse sei mesi, aveva deciso di rientrare in America con la figlia.
Lei e Philip erano rimasti amici; Philip aveva fatto un salto negli Stati Uniti non appena gli era stato possibile. Dopo essere riuscita a farsi assumere come reporter di cronaca nera dal New York Post, Laura aveva cominciato a guadagnare qualcosa, e a concedersi qualche viaggio in Inghilterra con Jo. Tre anni dopo si era sposata. Suo marito, Rod Newcombe, era un regista di documentari tenace e ambizioso. Avevano fatto grandi piani per lavorare assieme su una serie basata su crimini reali.