Giuseppe Riccini e Marco Bertolini erano arrivati da Verona tre mesi prima, scatenando notevoli chiacchiere per la loro propensione per i mollies, ragazzi che si vestivano in abiti femminili e offrivano servizi erotici particolari. Sulla loro sinistra, l'incantevole profilo di Nicolas Fatio du Duillier, un giovane estremamente interessante che gli era stato presentato poche settimane prima. Il ragazzo si girò, vide Newton e gli rivolse un breve, caloroso sorriso.
Su una piattaforma rialzata in fondo alla stanza sedevano Robert Hooke e il presidente della Royal Society, John Vaughan, terzo conte di Carbery, fulgido in una giubba di broccato viola e oro, con la parrucca generosamente incipriata. Incarnava i migliori attributi e virtù della nobiltà inglese, però il piccolo odioso furetto al suo fianco rappresentava per Newton il peggio che il mondo potesse offrire. Gobbo e deforme, alto non più di un metro e quarantacinque anche coi tacchi, Hooke era come inglobato dalla sedia. Newton lo odiava con ogni fibra del proprio essere e sapeva che Hooke provava per lui gli stessi sentimenti. Il segretario, a quanto gli risultava, avrebbe fatto tutto il possibile per screditarlo o sminuire la sua fama. Newton ricordava con sommo divertimento una lettera particolarmente sfacciata che aveva scritto a quello gnomo. Tra le altre cose aveva detto che se lui, Isaac Newton, era riuscito a concludere qualcosa d'importante come scienziato, lo aveva fatto stando sulle spalle di giganti.
Christopher Wren apparve d'un tratto sulla piattaforma. I membri della Society si alzarono come un sol uomo e applaudirono, poi tornarono a sedere.
Wren, ammise Newton con una certa irritazione, aveva un aspetto magnifico, era dotato di una dignità regale. Meritava il plauso di cui godeva. Era un genio multiforme: docente di astronomia, architetto di fama internazionale, sperimentatore nel campo della medicina e scrittore di genio. Eppure era anche estremamente modesto. Anni addietro, quando Newton era ragazzo, Wren era stato il primo a osservare gli anelli attorno al pianeta Saturno. Quando poi l'astronomo olandese Christiaan Huygens aveva pubblicato le proprie osservazioni e accettato l'alloro della scoperta, Wren non aveva reagito dimostrando tutto il suo animo nobile. Un atteggiamento che Newton trovava quasi impossibile da capire, ma una parte segreta della sua anima sapeva che Wren era un uomo migliore di lui perché sapeva esibire tanta generosità.
Nei trenta minuti successivi, Wren incantò il pubblico. La sua voce, bassa e melodiosa ma mai soporifera, arrivò diritta agli ascoltatori, rese interessanti e facili da visualizzare gli aspetti più specialistici di ciò che raccontava. Contrappuntando il discorso con dei disegni fatti da lui, spiegò dapprima come avesse progettato lo Sheldonian Theatre, quindi descrisse le sfide strutturali che aveva affrontato da giovane architetto, a un tempo nervoso e ansioso di colpire i maestri. Mostrò perfetti disegni di ogni fase della costruzione del teatro, dalla struttura generale dei piani che gli aveva procurato la commessa ai molti stadi del processo di edificazione, fino alla grandiosa inaugurazione del 1669, cinque anni dopo l'inizio dei lavori.
Newton apprezzò il discorso, ma dopo un po' si trovò di nuovo alle prese col problema che da febbraio occupava in maniera totale la sua mente: il significato dell'enigmatico messaggio di Ripley. La sala scomparve. Il suono della voce di Wren svanì. Vedeva le parole di Ripley, il messaggio cifrato e lo strano disegno, come se avesse avuto in mano il documento. La sua memoria eidetica era in grado di riprodurre quello che aveva visto fino all'ultima ruga della pergamena; tuttavia, quei prodigiosi poteri mentali gli erano serviti ben poco, negli sforzi di comprendere cosa significasse il messaggio.
«È stato un momento stupefacente...» stava dicendo Wren.
«Le fondamenta erano quasi complete, e senza dubbio odiavo la prospettiva di ulteriori ritardi, ma la mia curiosità era stata stuzzicata. Ho concesso di riportare alla luce la singolare costruzione entro il limite di una giornata di lavoro, che mi appariva il massimo. Alla fine del giorno tutto era chiaro.
Esisteva, sotto quella parte di Oxford, un sistema naturale di caverne, forse molto esteso. L'ho annotato nel mio diario e, col permesso del rettore dell'Hertford College, ho fatto scavare uno stretto corridoio da quel sotterraneo fino alle cantine del college, con l'idea di potervi un giorno tornare e scoprire di più. Purtroppo questo accadeva venticinque anni fa, e gli incarichi ricevuti da Sua Maestà hanno, ahimè, frenato il mio entusiasmo.»
Il pubblico rise. Wren trasse un respiro.
«Perdonate la digressione. Ora, per quanto concerne la costruzione del tetto...» Il prurito che era iniziato alla base della spina dorsale di Newton risalì, lentamente, su per l'intero corpo. Pietrificato, fissando con occhi intenti il grande architetto, sentì risuonare nella testa, anche se non con il senso dell'udito, le parole di Ripley: Cerca la sfera sotto la terra. È imbozzolata in pietra. Grande conoscenza sopra e terra sotto.
Quando Newton bussò alla porta e sbirciò dentro, Wren era solo nell'anticamera della sala conferenze principale. Si toglieva la parrucca e cercava di riassettare i disordinati capelli grigi.
«Ma che magnifica sorpresa», esclamò con un sorriso.
«Posso importunarvi solo per un attimo, sir Christopher?»
«Naturalmente, maestro. Entrate, accomodatevi. Vi è piaciuta la mia conferenza?»
«Sì, moltissimo», rispose grave Newton. Stava cercando di controllare l'eccitazione.
«Sono onoratissimo della vostra presenza, professore. Abbiamo avuto un pubblico eccellente, vero? Allora, in cosa posso aiutarvi?» Wren lasciò perdere i capelli, cominciò a togliersi la giacca. Newton notò che era chiazzata di sudore.
«Ho trovato molto accattivante il vostro racconto della costruzione dello Sheldon Theatre. Però...» Una breve esitazione. «Mi ha affascinato in particolare l'accenno al sistema di caverne sotterranee.»
«Davvero? Sono stupefatto, signore», ribatté serissimo Wren. «Credevo avreste preferito la relazione delle sfide tecniche, della genialità del progetto, dello straordinario assoggettamento delle forze di natura.»
«Vi prego di scusarmi.» Newton parve per un momento smarrito.
«Non intendevo...»
«Scherzo, Isaac. Oddio, dev'essere vero quel che raccontano di voi. Si dice che non ridiate mai e siate stato visto sorridere una sola volta.» Newton, solenne, non aprì bocca. Wren, intuendo di aver urtato la sua suscettibilità, gli mise una mano sulla spalla. «Perdonatemi. Non volevo certo insultarvi, amico mio.» Newton indietreggiò di un passo e s'inchinò. «Non sono affatto offeso, signore. Ho adorato il vostro intero discorso, ma le caverne mi hanno affascinato. Forse questo interesse nasce come risultato di un'inesplicabile reazione primeva della mia mente. Di qualunque cosa si tratti, amerei saperne di più.»
«Purtroppo posso aggiungere ben poco a ciò che ho detto stasera. È
accaduto un quarto di secolo fa. Ero giovane e idealista e credevo di poter tornare a esplorare a mio piacere.»
«Però esistono caverne sotto lo Sheldonian?»
«Oh, certo. Ma restano inesplorate.»
«Ne avete riportato la disposizione su carta?»
«No, non l'ho fatto.»
«Cosa avete visto esattamente?» Newton trovava difficile celare la sua crescente eccitazione.
Wren aggrottò la fronte. «C'erano due ingressi, rammento. Ho fatto scavare tutt'attorno dagli operai per un giorno, come ho detto. Hanno portato alla luce un tetto piano, un corridoio serpeggiante, tunnel. Ho spedito giù due uomini con una lanterna. Sì, ora mi torna alla mente. Sono scomparsi per un tempo eccessivamente lungo. Stavamo per inviare una squadra di ricerca a rintracciarli quando sono riemersi, malconci e d'umore piuttosto nervoso.» Newton inarcò un sopracciglio. «Cos'era accaduto?»
«Sono riuscito a sapere da loro solo pochi fatti. A quanto sembra, oltre l'ingresso c'era una sorta di labirinto. Però erano confusi anche su quello.
Uno dei due ha detto che era una tortuosità naturale dei tunnel, l'altro invece lo riteneva una creazione demoniaca. Erano uomini superstiziosi e ignoranti, ovviamente, ma in quel frangente non potevo utilizzare persone di maggior intelligenza. Forse sono stato sciocco ad allontanarmi dal lavoro che ero tenuto a fare. In sostanza, risultò che esistevano corridoi naturali che portavano in direzione dell'Hertford College a sudest e di un punto sotto la Biblioteca Bodleiana quasi direttamente a sud. Sapevo per esperienza diretta che le cantine sotto l'Hertford College si estendono ampiamente nel sottosuolo, con tunnel ramificati in direzione del mio teatro. È stato fin troppo ovvio raggiungerli, in tal modo ho pensato di soddisfare il richiamo della mia curiosità, rispettando al tempo stesso la mia musa. Mi capite?» Newton pareva lontanissimo da lì. Fissava Wren senza parlare. Poi tornò al presente.
«Le mie scuse, signore», bofonchiò. «Ero totalmente assorto nelle vostre parole. Capisco. Dobbiamo soddisfare la musa per non avvizzire e morire.»
«Proprio così.» Newton non aveva altro da aggiungere. Tra i due scese un silenzio nervoso.
«Allora, se non vi interessa altro, Isaac...» azzardò Wren.
«Vi sono estremamente grato», rispose bruscamente Newton.
«Davvero estremamente grato. Arrivederci, sir Christopher.»
Fece un inchino e si avviò alla porta.
Laura era a casa di Philip, con la stufa Aga a pieno regime e il fuoco acceso nel caminetto. Forse per la sesta volta quella sera, si chiedeva come si potesse vivere in una casa senza riscaldamento centrale.
Un istante dopo, sentì arrivare l'auto di Philip.
Lui appese il soprabito inzuppato in corridoio ed entrò in salotto.
«Mio dio, hai un aspetto orribile», lo salutò lei.
«Mi sento in maniera orribile», ribatté lui, senza guardarla. «Come sta Jo?»
«È di sopra. Dorme. Stravolta e pesta, però intera.»
«E ha freddo?» chiese sarcastico Philip. «Non riesco a credere a questa temperatura assurda.»
«Ah! E io non riesco a credere che ti piaccia vivere nell'età della pietra.
Non hai saputo della nuova grande invenzione, il termosifone?» Philip sospirò, si buttò su una sedia, mise i gomiti sul tavolo e prese la testa tra le mani. «Sì, okay, come vuoi tu.»
«Brutta giornata?» Lui guardò Laura. Aveva gli occhi iniettati di sangue. «Non mi spiacerebbe bere qualcosa.» Laura si alzò, tornò con un abbondante whisky al malto, si accomodò sulla sedia accanto a lui. «Hai l'aria di doverti liberare da un peso sullo stomaco.» Philip trangugiò una sorsata. «Sì. E tu non mi lascerai in pace finché non te ne avrò parlato, giusto?» ribatté in tono lieve.
«Nemmeno per sogno. Allora, cos'è successo?» Lui lanciò un'occhiata alle spalle di lei, verso il televisore. Il telegiornale locale era appena iniziato e il detective ispettore capo Monroe stava per concedere un'intervista a un giornalista. «Guardiamo», disse Philip. Alzò il volume con il telecomando.
«Allora, detective ispettore capo, può confermare un secondo episodio?» chiese il giornalista.
«Sì. Il corpo di una giovane donna è stato rinvenuto stamattina su un affluente del Cherwell, nei pressi del centro cittadino.»
«Un omicidio simile a quello di ieri sera?»
«Esistono alcune caratteristiche in comune», rispose Monroe, cauto.
«Capisco. Qualcuno suggerisce l'ipotesi di un serial killer. Può smentire o confermare?»
«È troppo presto per saltare alle conclusioni. Capirà che stiamo facendo tutto il possibile...»
«Però», interruppe l'intervistatore, «è vero che i due omicidi presentano elementi ritualistici?» Monroe alzò la guardia. «In questo momento possiamo solo dire che si riscontrano alcune caratteristiche in comune.» Il giornalista cambiò subito tattica. «Allora, ispettore capo, adesso cosa si fa? Può dare qualche consiglio al pubblico?»
«Sì, certo. Voglio sottolineare di nuovo che stiamo facendo ogni sforzo per trovare la persona o le persone responsabili degli omicidi. Chiediamo semplicemente che i cittadini mantengano la calma, ci aiutino nelle indagini in ogni modo possibile, e che chiunque sia in possesso di informazioni si faccia avanti.» Philip spense il televisore.
«Molto guardingo», commentò Laura.
«Deve esserlo. Procedura standard della polizia. Mai rivelare particolari.
Se si fa vivo qualcuno a conoscenza di fatti che sono stati tenuti volutamente nascosti all'opinione pubblica, chiaramente è in possesso di informazioni significative. Tracce da seguire. E così si riduce anche il rischio di svitati che vogliano imitare l'omicida.»
«Sì, lo so, Philip. Ricordi cosa facevo a New York?» Lui sorrise. «Scusa.»
«Spero che tu sarai un po' più esplicito di Monroe.»
«Ovvio, Laura.» Philip si appoggiò allo schienale della sedia, allungò le gambe, tirò un respiro, poi si mise a raccontare della donna sul barchino.
Descritte le foto che aveva scattato, piombò nel silenzio e svuotò il bicchiere.
«Mio dio», commentò Laura, «credevo che New York fosse un posto brutale. Ti hanno detto che il cadavere è rimasto lì per quanto? Quattro ore?»
«Era parzialmente nascosto dai rami di un albero. L'ha visto stamattina una donna.»
«Bello spettacolo sul quale inciampare.» Philip alzò gli occhi.
«Quindi, l'omicidio dovrebbe essersi verificato alle prime ore del mattino. Le tre, le quattro.»
«Così pare. La ragazza viveva in una casa in riva al fiume. Una parte del Cherwell fuori mano. Non ci sono barche di turisti. E comunque, siamo fuori stagione. Quella era l'imbarcazione di famiglia. I genitori sono in Europa. Però non è stata uccisa lì. Monroe è corso diritto alla casa. La camera da letto della vittima sembra l'interno di un mattatoio. L'hanno messa sul barchino più tardi, dopo averlo portato al riparo sotto gli alberi e legato alla riva.»
«Un piano meticoloso. Come quello dell'omicidio al Perch. Hai detto che nel cranio della ragazza è stata lasciata una moneta d'argento?»
«Esatto.»
«Sai dove si trovava la moneta d'oro sulla scena del primo omicidio? L'hai vista prima che fosse consegnata a Monroe?»
«No.»
«Avranno lasciato la scena intatta in attesa che tu scattassi le fotografie, no?»
«Sì, è vero. Però la ferita era un disastro. Gli uomini della scientifica mi hanno dato l'impressione che la moneta fosse stata infilata nella cavità toracica, che l'abbiano trovata solo quando hanno ispezionato a fondo la ferita.»