«Mio Dio, Jo», attaccò Laura. «Credevo...»
«No, mamma, sono ancora qui», sussurrò Jo, sfiorando la guancia di Laura.
«E Tom? Sta bene?» chiese Philip, girandosi verso il dottore.
«È stato molto fortunato anche lui. Un paio di costole incrinate, due dita rotte, tagli e contusioni. È in un'altra stanza. Lo stanno medicando.»
«Che diavolo è successo, Jo? Tom non avrà bevuto, per caso?»
«No, mamma. Non beve.» Jo scoccò un'occhiata irritata alla madre. «E a dire il vero guidavo io».
Laura restò sorpresa, poi regalò alla figlia un sorriso esangue e alzò la mano.
«Stavamo percorrendo la St Aldate, per tornare alla Carfax. Un'auto è sbucata da una via laterale. Ho reagito in maniera esagerata. La nostra automobile ha sbandato, è scivolata sulla strada bagnata e siamo finiti contro un lampione.»
«Una bella fortuna.» Con un sospiro, Philip sedette all'altro lato del letto, di fronte a Laura.
«Mamma, tu non dovresti essere in viaggio per Heathrow?» Laura guardò la figlia come se si fosse appena ricordata di una cosa persa nelle nebbie del tempo. Si fregò gli occhi stanchi. «Quel piano ormai è annullato. Di certo non lascerò l'Inghilterra finché non ti sarai del tutto ripresa.» Jo fece per protestare, ma venne interrotta dalla suoneria del cellulare di Philip.
Philip guardò il dottore. «Dio, mi scusi. Dovevo spegnerlo. Faccio in un secondo.» Andò alla finestra, parlò sottovoce al telefono.
Il medico era irritato. Si girò verso Jo. «Lei può andarsene non appena si sente in grado di farlo.»
«E Tom?»
«Penso che dovrà restare qui almeno un paio d'ore. Dobbiamo eseguire ancora qualche altro esame, però se vuole può vederlo.»
Il dottore si avviò alla porta.
Intercettato lo sguardo di Philip, gli fece segno di chiudere la comunicazione passando il pollice davanti alla gola.
Philip annuì obbediente e smise subito di parlare.
Tornò al letto.
«Ho paura di dover andare. C'è stato un altro omicidio.»
La scena del crimine distava poco più di due chilometri e mezzo dall'ospedale. Ma il traffico in entrata a Oxford dalla M40, attraverso Headington, stava diventando pesante. Philip impiegò quasi venti minuti per arrivare.
Laura era rimasta in ospedale con Jo, il che a lui andava benissimo: non era nello stato d'animo adatto per vederle ripetere la sgradevole performance con Monroe della sera prima. Ancora stordito dallo choc dell'incidente alla figlia, sapeva di doversi concentrare sul lavoro.
Parcheggiò in un'area riservata ai residenti in fondo a Cave Street, vicino al fiume; mise il lasciapassare della polizia sul cruscotto, recuperò la borsa dal bagagliaio e si avviò sull'alzaia che correva parallela a un affluente del Cherwell.
La discesa al fiume era scivolosa. Camminò con estrema cura. La pioggia ricominciò. Più avanti, il fiume scorreva grigio, limaccioso. A una decina di metri, un gruppo di persone inzaccherate: due agenti in uniforme, Monroe con la schiena rivolta all'alzaia, un sergente che gli teneva un ombrello aperto sopra la testa. Più in là, due uomini della scientifica camminavano verso una casa su palafitte che sporgeva sul fiume. La pioggia aumentò. Philip fu tentato di tornare all'auto a prendere l'ombrello, ma in quel preciso istante Monroe lo vide.
«Signor Bainbridge. Oggi siamo soli, eh?» Philip sospirò, mise le mani in tasca e azzardò un veloce sorriso.
«Be', stamattina abbiamo qualcosa di veramente insolito per lei. Le converrà prepararsi.»
«Come? Peggio dell'altra sera?»
«Dipende dalla robustezza del suo stomaco. Una donna che stava facendo jogging l'ha trovata verso le sette. La scientifica mi dice che è morta fra le quattro e le sei ore fa. Mi segua. Dovrà darsi da fare per trovare un angolo adatto. E stia attento.» Monroe procedette con cautela sul sentiero. Alcuni fogli di plastica erano stati stesi sui rami di un albero sulla riva; un unico riflettore era puntato sul fiume, sotto il ramo più basso. Alle spalle di Monroe, Philip vedeva la poppa rossa di un barchino. Poi la scena gli si presentò in tutto il suo orrore. Lo stomaco gli arrivò in gola.
Una giovane donna era per metà seduta, per metà riversa a un'estremità della barca. Indossava jeans e maglietta. Fissava la riva con occhi ciechi.
Sembrava completamente svuotata di sangue. Le braccia erano spalancate, la mano sinistra penzolava dal fianco dell'imbarcazione. Scie di sangue erano visibili sull'interno delle braccia e sulle spalle. Gli occhi erano aperti, ma la sclera, un tempo bianca, era quasi totalmente rossa: erano esplosi i vasi sanguigni. Un leggero strato di fanghiglia sugli occhi smorzava il colore del sangue. La gola era stata tagliata e la sommità della testa asportata da mani precise, professionali. Le avevano tolto un emisfero di osso e cuoio capelluto. Dove un tempo stava il cervello rimaneva solo un incavo rosso e nero. In alcuni punti, i tessuti morti erano stati grattati via ed erano apparse ossa bianche, sorprendentemente pulite.
All'interno della testa, una lucidissima moneta rifrangeva la luce: la gemella in argento di quella d'oro che Philip aveva visto la sera prima nella mano guantata dell'ispettore capo.
Distolse lo sguardo, inspirò a pieni polmoni un paio di volte.
«Le lascio qualche minuto», borbottò Monroe, risalendo sul sentiero.
«Però le fotografie mi occorrono entro un'ora.» Philip non perse tempo a cercare soluzioni fotografiche particolari.
Sapeva per esperienza che era l'unico modo per affrontare situazioni simili.
Più orribili erano le immagini che aveva davanti, più doveva badare a staccarsene, entrando in uno stato robotico in cui si limitava a fare il proprio lavoro e si costringeva alla cecità su quello che l'obiettivo fotografava.
Fece una serie di istantanee dalla prua del barchino: qualche primo piano col teleobiettivo e un paio di immagini a grandangolo. Poi camminò sulla riva, scattò altre immagini da un lato della barca prima di accoccolarsi vicino alla poppa, a diretto contatto con la riva del fiume. Lì, le sequenze più orribili potevano essere immortalate, digitalizzate e immagazzinate in un chip della macchina fotografica. Una vita umana ridotta a pixel.
Solo dopo essere risalito sull'alzaia, aver salutato senza entusiasmo i due agenti lasciati sul posto e svoltato in Cave Street, si rese conto di quanto gli tremassero le mani. Raggiunta l'auto, stava per aprire il bagagliaio quando venne colto da un'ondata di nausea.
Vomitò nella cunetta, guardò la bile trascinata via dalla pioggia battente che cadeva sulla strada.
Londra, ottobre 1689
Il Gresham College, nel cuore della City, era un'oasi nello squallore e nella sporcizia di Londra. Per quanto gli edifici fossero vecchi, cadenti, e si fosse parlato sempre più spesso di una ristrutturazione, possedeva una tranquillità e un fascino ipnotico ben lontani dalle sue tristi condizioni materiali. Che erano notevolmente inadatte al luogo di riunione di alcune delle menti più brillanti di quella o qualunque altra epoca. La Royal Society era stata fondata quasi trent'anni addietro da Christopher Wren e pochi amici intimi. Era cresciuta in fretta, guadagnandosi l'approvazione reale e, con essa, il suo nome. Ma in anni recenti la statura del nome era diminuita. Parte del problema per quel consesso di uomini illustri stava nel fatto che non riuscivano mai a restare a lungo nella stessa sede.
All'inizio si riunivano lì, all'interno della sbiadita grandeur del Gresham College; dopo le tragedie gemelle della terribile pestilenza del 1665 e del grande incendio del 1666, il college era stato requisito dai mercanti della City, le cui sedi erano andate distrutte. Era stato trasformato in un centro finanziario provvisorio, mentre ne era in costruzione uno nuovo. La Royal Society, con i suoi libri e i suoi strumenti sperimentali, i sestanti e le carte geografiche, i telescopi e i microscopi, si era trasferita nella biblioteca di Arundel House, messa a disposizione dal proprietario, il duca di Norfolk.
La costruzione sorgeva tre chilometri circa a ovest, in una via laterale che sfociava sullo Strand. Lì la Society aveva continuato a riunirsi per un po', a discutere delle più nuove idee scientifiche e a condurre indagini scientifiche allestite dal suo «curatore degli esperimenti», Robert Hooke.
Prima del trasloco ad Arundel House, la Society aveva cominciato a pubblicare libri, come Micrographia dello stesso Hooke e Sylva di John Evelyn. Per tenere viva la tradizione iniziata dalle prime società scientifiche nell'Italia di Galileo, pubblicava anche una rivista, Philosophical Transactions, che ospitava descrizioni di scoperte, resoconti di conferenze e del lavoro dei membri della Society. Dopo pochi anni ad Arundel House, però, erano stati costretti a ricominciare a riunirsi al Gresham College, in stanze requisite a quello scopo dall'influente Hooke, membro del college.
Pur sapendo tutto ciò, mentre entrava nella corte centrale del Gresham College alle sei meno due minuti, col cielo scuro a occidente imbevuto di rosso, Isaac Newton non avvertiva quasi nessuna affinità con la Society.
Era entrato a farne parte da giovane, a ventinove anni, diciassette anni prima. Nonostante gli illustri membri avessero pubblicato i suoi Principia Mathematica, il libro che lo aveva reso la più importante personalità scientifica del mondo intero, negli ultimi decenni aveva partecipato alle riunioni solo pochissime volte. Non riteneva amico nessun altro membro e riusciva a stento a nutrire un minimo di fiducia nei confronti di altre tre figure della comunità scientifica. Uno era l'anziano Robert Boyle, un altro il giovane genio Edmund Halley, il terzo era l'uomo che lo aveva convinto a lasciare il suo piccolo mondo al Trinity College di Cambridge per recarsi quella sera a Londra, Christopher Wren.
Peraltro, il motivo principale della cospicua assenza di Newton dagli incontri della Society era l'altrettanto cospicua presenza di Robert Hooke.
Era diventato acerrimo nemico di Newton quasi dal loro primo incontro e quando, nel 1676, i membri della Society avevano eletto Hooke successore di Henry Oldenburg alla carica di segretario, Newton si era offerto di dimettersi. Convinto a restare da chi vedeva in lui un uomo troppo prezioso per poterlo perdere, aveva capitolato. Giurando però di partecipare alle riunioni solo quando gli fosse piaciuto.
Sapeva di essere considerato una persona difficile. Innegabilmente, rifuggiva la compagnia degli altri e non gli importava nulla dell'effetto che la cosa poteva avere su chi gli stava attorno. Era del tutto autonomo e fiero di esserlo. Non aveva bisogno di nessuno, però gli altri avevano bisogno di lui, e in futuro sarebbero dipesi sempre più da lui, di quello era certo.
Simili sentimenti lo avevano tenuto chiuso nel suo laboratorio di Cambridge. L'unico uomo con cui si fosse un po' aperto era John Wickins, studioso di teologia e suo compagno d'alloggio da più di venticinque anni.
Però, ruminò mentre attraversava la corte e passava sotto un arco per svoltare a sinistra su un selciato in pietra, persino Wickins capiva solo una parte di ciò che passava nella sua mente, e quasi nulla di quello che accadeva nel laboratorio tanto vicino alla sua camera da letto.
Al pensiero, tornò indietro nei ricordi a oltre sette mesi prima, al mattino in cui era stato costretto a cambiare indirizzo ai suoi studi. Il mattino in cui aveva saputo della sfera di rubino. Era il suo segreto, non poteva discuterne con nessuno. Per giorni e notti si era praticamente limitato a riflettere sul significato del messaggio lasciato da George Ripley. Aveva setacciato ogni testo in suo possesso. Era tornato a Londra, a scavare nell'umida caverna della libreria di Cooper a Little Britain; aveva pagato il libraio per permettergli di frugare in muffosi magazzini.
Era ovvio che Ripley scriveva di un manufatto antico, d'importanza cruciale. La sfera di rubino era senza dubbio l'anello mancante, la chiave dell'universo. Il testo che descriveva quella meraviglia era scritto di suo pugno, e Ripley, morto due secoli prima, era stato uomo di grande talento e integrità. Però, anche con quegli indizi, Newton poteva fare ben poco, in mancanza della sfera. Doveva scoprire dove fosse nascosta.
Una settimana prima aveva ricevuto da Christopher Wren l'invito a partecipare a una riunione speciale della Royal Society al Gresham College. L'occasione era il festeggiamento per la costruzione dello Sheldonian Theatre di Oxford, inaugurato vent'anni prima. Era stato il primo incarico di Wren, un brillante inizio per la sua carriera.
Dapprima Newton era stato tentato di buttare l'elegantissimo invito su una pila di carte sulla scrivania, dove sarebbe rimasto ignorato come quasi tutti gli altri inviti, richieste e lettere dei suoi pari. Ma, a parte Wickins, Wren era l'unica persona che potesse definire quasi un amico, un uomo che rispettava più di ogni altro mortale.
Alla doppia porta della sala conferenze, tirò il fiato e abbassò la maniglia. Il locale non arrivava ai cento metri quadrati, e Wren, ex presidente della Society, uno degli uomini più famosi d'Inghilterra, attirava le folle, quindi la sala era piena zeppa. Newton fu costretto a restare in piedi poco oltre la porta.
Scrutò la sala. Un rettangolo che aveva su tre lati scaffali da soffitto a pavimento, con ogni centimetro occupato da libri. I dorsi in pelle erano indecifrabili nella luce fioca di un paio di candelieri. La quarta parete era di un blu intenso, ma in alcuni punti lo stucco si era crepato e un'ampia linea frastagliata correva fino al soffitto, come un rampicante.
Quella sera erano presenti forse cento membri. Newton conosceva quasi tutti di vista, ma aveva avuto contatti diretti solo con pochi. Nelle prime file c'era Halley, e al suo fianco Samuel Pepys, con una giacca arancione sgargiante.
John Evelyn era nella fila dietro; pescava tabacco da fiuto da una logora borsa in pelle.
Accanto a lui, il pittore Godfrey Kneller, che Newton aveva incontrato a Cambridge pochi mesi prima, quando si era presentato per concludere i preparativi per la sua nuova commessa, un ritratto del professore lucasiano. Al lato opposto della sala sedeva Robert Boyle, un uomo straordinariamente alto e magrissimo, la cui parrucca bianca sembrava emanare una luminosità soprannaturale sotto le candele. Qualche fila dietro, Newton vide i due italiani al momento ospiti della Society.