Ormai da un quarto di secolo era in caccia del nucleo segreto dell'intera esistenza, la prisca sapientia.
La scienza era stata il suo primo amore, l'aveva spremuta fino all'osso. I suoi Principia Mathematica, pubblicati due anni addietro, lo avevano reso una stella del mondo accademico; ma sapeva da sempre che l'universo non era fatto solo di viti e bulloni, dell'edificio meccanico che aveva osservato e descritto nell'acclamata opera.
Quasi sin dal momento del suo arrivo all'università di Cambridge, nel 1661, era stato risucchiato nel mondo dell'alchimia e dell'occulto. Il suo vecchio mentore e predecessore sulla cattedra lucasiana, Isaac Barrow, aveva fatto scoccare la prima scintilla, che aveva assunto le dimensioni di un poderoso incendio grazie agli scritti dei grandi adepti del passato, uomini come Cornelius Agrippa ed Elias Ashmole, John Dee e Giordano Bruno. La loro ricerca passava sotto il nome di Grande Opera, ovvero Opus Magnum: per lunghi anni, quei geni dell'occultismo avevano condotto complessi esperimenti alchemici in laboratori fumosi. Avevano dedicato l'esistenza alla ricerca della pietra filosofale, la leggendaria sostanza che avrebbe permesso all'alchimista di trasformare ogni vile metallo in oro, l'interfaccia magica tra fisico e metafisico che avrebbe concesso all'adepto di produrre anche l'elixir vitae e ottenere l'eterna giovinezza.
Come ogni altro alchimista, Newton aveva basato le proprie idee sulla bibbia dello sperimentatore ermetico, la dottrina della Tavola di Smeraldo.
Quando ancora era giovane, Barrow lo aveva illuminato sull'esistenza di quel meraviglioso testo, gli aveva spiegato che era la guida di tutti gli alchimisti. Era stato creato al tempo degli Antichi, aveva spiegato Barrow, un'epoca in cui l'uomo conosceva il funzionamento dell'universo molto meglio di tutti gli intellettuali e filosofi del presente. Gli Antichi avevano distillato la loro sapienza nelle iscrizioni della Tavola di Smeraldo.
Nessuno sapeva dove si trovasse la tavola originale. Era svanita dagli occhi dei mortali, ma traduzioni delle iscrizioni erano state trasmesse da una generazione all'altra di alchimisti; ognuno di loro aveva seguito quella che riteneva la verità assoluta descritta nel passato. La tavola indicava la via per raggiungere la pietra filosofale, spiegava che dovevano preparare l'anima e la rozza materia fisica con la quale lavoravano. Newton riteneva che il motivo per cui nessun alchimista era mai riuscito a produrre l'oggetto dei sogni non fosse colpa degli Antichi. Come, ovviamente, non era responsabilità della natura. Semplicemente, nessun filosofo o alchimista aveva purificato del tutto la propria anima, nessun cercatore della Verità si era dedicato al compito con sufficiente vigore e tenacia.
A differenza di ogni altro alchimista, da Ermete Trismegisto fino ai suoi contemporanei, Newton non desiderava creare l'oro in quanto metallo prezioso. Attribuiva ben poco valore a ricchezze inimmaginabili. Per lui, l'oro alla fine dell'arcobaleno era pura conoscenza, la conoscenza posseduta dagli dei, e sapeva di essere pronto a qualunque cosa pur di raggiungerla. Era la sua ragion d'essere. Nei molti anni trascorsi alla fornace a studiare il microcosmo, confrontandolo col macrocosmo che vedeva attraverso le lenti del telescopio, aveva tracciato rapporti ed elevato il concetto di olismo a nuove vette di ragionamento. Col tempo, era giunto a credere di possedere una natura semi-divina, di essere stato messo sulla terra per un preciso scopo: trovare la pietra filosofale e svelare la Verità.
Dio, riteneva, aveva scelto lui, lo aveva reso unico, dotato del più valido intelletto della sua generazione, in modo che lui, Isaac Newton, professore lucasiano all'università di Cambridge, potesse obbedire ai voleri del Padre e delucidare per il resto della specie umana il vero significato dell'esistenza, i più intimi modi di funzionare della natura, il meccanismo dell'universo.
I cardini del baule scricchiolarono quando sollevò il coperchio. Dentro c'erano vasi di vetro imballati con grande cura, avvolti nella lana per proteggerli dalle buche della strada da Londra a lì. C'erano barattoli di sostanze chimiche. Uno conteneva barre di cilindri metallici dalla superficie grigia, immersi in un olio giallastro. Accanto giacevano un tubo pieno di polvere nera come fuliggine e un altro colmo di un talco viola.
Infine, coricata su un fianco, avvolta in un fagotto di lana, una grande clessidra.
Un terzo del baule era occupato da volumi rilegati in pelle. Newton sollevò quello più in alto e scrutò il dorso.
«Fama e Confessioni della Confraternita dei Rosacroce di Thomas Vaughan», lesse ad alta voce, poi sistemò il libro sul pavimento, accanto al baule. Quello sotto aveva il titolo inciso a lettere dorate in copertina: Il chimico scettico. Il nome dell'autore, Robert Boyle, era scritto sotto a grandi lettere. Newton sfogliò le pagine per qualche secondo, quindi mise il volume sopra quello di Vaughan.
Tolse dal baule tutti i libri che restavano e li portò a un tavolo a ridosso della parete sulla destra del camino. Li sistemò in pile prima di trasferirli agli scaffali. Nel sollevare un volume particolarmente bello, rilegato in pelle verde, Il compendio dell'alchimia: i dodici cancelli che portano alla scoperta della pietra filosofale di George Ripley, un pezzetto di cartapecora cadde da sotto la copertina posteriore e si posò sul pavimento ai piedi di Newton.
Lo raccolse, lo aprì con la massima delicatezza. La pergamena era secca e ingiallita, ma in superficie si vedeva un testo scritto in inchiostro marrone sbiadito. Newton si spostò al caminetto e avvicinò la cartapecora agli occhi, per leggere la minuscola grafia. Lo scritto era in aramaico, un'antica lingua semitica che gli era familiare.
Traducendo mentalmente, sussurrò le parole tra sé:
O tu che cerchi, tu che cerchi la verità, non ti scoraggiare.
Poiché, per quanto ci si debba mettere in ginocchio davanti alla verde tavoletta, esiste un'altra e ancor più profonda Verità. Amici miei, io l'ho vista soltanto come in sogno, ma gli dei la proclamano reale. Come i campi sono verdi, così il sangue del Signore è rosso, rosso come il rubino. E, come la tavola possiede la propria forma, così il rubino è una sfera; poiché l'ho vista come in sogno. E se il potere della tavola è uno, quello della sfera di rubino è un milione di volte più ampio. La gloriosa tavola indica la via, la sfera apre le porte al mondo. Se pura è la tua anima, cerca la sfera e con essa entrerai in possesso della gloria degli Antichi. Cerca la sfera sotto la terra. È imbozzolata in pietra. Grande conoscenza sopra e terra sotto.
GR
Sotto, l'immagine di una sfera e una linea di minuscoli caratteri che tracciavano una stretta spirale da polo a polo. E sopra l'orlo inferiore della pagina Newton vide una linea di lettere, numeri e simboli alchemici nei quali riconobbe un insieme di istruzioni segrete cifrate. Infine, nell'angolo in basso a destra, una piccolissima illustrazione, un complesso schema di linee che si intersecavano come in un labirinto in miniatura.
Quasi non riusciva a credere a ciò che aveva letto. Se davvero l'autore di tutto quello era Ripley (aveva già visto la sua grafia, e corrispondeva), si trattava di una scoperta di valore incalcolabile. Per lui, come per ogni alchimista, la Tavola di Smeraldo era la guida più importante nel viaggio verso la pietra filosofale. Invece, stando a Ripley, c'era qualcosa di più: la sfera di rubino era immensamente più significativa. Forse, concluse tornando al tavolo sotto gli scaffali, aveva trovato un indizio sul perché i segreti definitivi gli fossero sfuggiti per tanto tempo. Se così era, doveva essere stata la volontà di Dio a fargli scegliere quel particolare volume nella libreria di William Cooper in Little Britain, vicino a St Paul, dove aveva trascorso buona parte del pomeriggio il giorno prima di ripartire per Cambridge. E, se era in azione la volontà di Dio, non poteva fallire. Il Signore lo avrebbe guidato in quel nuovo stadio del viaggio.
Lo avrebbe inesorabilmente condotto alla Verità.
In seguito, Philip avrebbe detto di ricordare poco o nulla del viaggio fino all'ospedale. Ma la sua mente correva, stimolata da un'ansia spruzzata di brutti ricordi.
Più di vent'anni prima, suo padre era morto in un incidente d'auto. Era stato l'evento più radicale della vita di Philip, l'evento che gli aveva cambiato l'esistenza, orientandola in tutt'altra direzione. Aveva ventidue anni, e due settimane prima aveva ottenuto la laurea col massimo dei voti.
Il giorno della cerimonia della consegna dei diplomi, mentre faceva colazione con i compagni d'appartamento, nella scalcinata casa in una trasversale di Cowley Road, era squillato il telefono.
Era zio Greg. L'auto del padre di Philip si era scontrata con un camion che aveva saltato lo spartitraffico centrale. Maurice, colpito alla testa, era morto all'istante.
Philip era convinto di non amare il padre. Pensava che non ne avrebbe sentito la mancanza. Erano troppi i ricordi sgradevoli che aveva di lui. Non riusciva a dimenticarne la prepotenza, il fatto che avesse reso un inferno la vita della moglie e poi si fosse chiuso in se stesso, nascondendosi dietro una cortina di silenzio, dopo che lei lo aveva lasciato.
Philip aveva fatto tutto il possibile per accontentarlo. Prima di andare all'università era un fotografo in gamba, aveva vinto premi, aveva persino cominciato a vendere qualche scatto. Ma suo padre aveva sempre sminuito quell'aspetto della sua vita, ripetendogli che con la fotografia non avrebbe mai fatto fortuna. Così Philip aveva lasciato la macchina fotografica, era andato a Oxford a studiare FPE, aveva soffocato le proprie speranze e ambizioni per seguire il sentiero che Maurice gli aveva indicato.
E quando si era trovato davanti alla bara aperta all'agenzia di pompe funebri, il giorno della sepoltura, non aveva fatto altro che pensare all'ironia della situazione. Per l'intera vita aveva cercato l'approvazione di quell'uomo; poi, nel giorno del suo maggior trionfo, il bastardo si era fatto uccidere. Sembrava quasi, aveva pensato in quel momento di assoluta irrazionalità, sembrava quasi che suo padre lo avesse fatto apposta per poterlo criticare ancora un'ultima, definitiva volta.
Ma più tardi, quando aveva ripreso a pensare normalmente, si era reso conto di non poter ridurre tutto a quel semplice pregiudizio emotivo. Il vecchio era un prepotente, però era anche ossessionato da un bisogno esagerato di privacy. Coltivava la convinzione paranoica che il mondo lo spiasse. Fissandone il guscio morto, Philip non era riuscito a scrollarsi di dosso l'idea che quell'uomo non si fidava di nessuno, stracciava tutta la corrispondenza prima di gettarla nel cestino, chiudeva la casa con tre diverse serrature ogni sera. Eppure, eccolo lì, sotto gli occhi di tutti, ormai privo di ogni dignità.
Era stato soprattutto quello a convincerlo a ripartire da zero. La sua esistenza era stata dominata dal padre, ma al di sotto della superficie, nel profondo, sapeva di essere molto più affine alla madre. Joan Bainbridge era stata, prima di sposarsi, Joan Ghanmora, una delle artiste di maggior successo mai prodotte dai Caraibi. Il padre, un nero, era scomparso quando lei era piccola. Joan era stata allevata dalla madre inglese, Elizabeth, e incoraggiata a dipingere fin dall'età di sei anni. Aveva conosciuto il padre di Philip quando lui era stato invitato dal proprio capo alla prima mostra di Joan a New York, nel 1957. Philip non aveva mai capito cosa sua madre avesse visto in Maurice. Era un uomo d'affari, incapace di capire l'arte o qualunque cosa avesse a che fare con la cultura. In effetti aveva dedicato l'intera vita a numeri e contabilità, mentre Joan era l'esatto opposto, uno spirito libero che non nutriva il minimo interesse per i soldi o per la fama.
Philip si era tenuto in contatto con sua madre. Ogni tanto andava a trovarla a Venezia, dove viveva da venticinque anni col secondo marito, un cantante d'opera. Aveva rifiutato di lasciarsi attirare nel mondo di Joan, per quanto seducente lo trovasse. Alla morte di Maurice, nella sua mente si era spalancata tutta una serie di porte. Pochi mesi dopo la laurea aveva abbandonato i progetti che il padre aveva preparato per lui. Disdegnando la City e un promettente stipendio a sei cifre, aveva ripreso in mano la macchina fotografica e giurato di dedicarsi alla sua passione.
Ma i cambiamenti erano più profondi. Philip non aveva mai mostrato il minimo interesse per il paranormale, eppure entro la fine dell'anno si era trovato affascinato dal concetto dell'aura e della fotografia Kirlian. Aveva letto tutti i libri possibili, partecipato a workshop e corsi. Poi, dopo due anni di immersione in quel mondo, si era bruscamente fermato. Non aveva mai riflettuto a livello cosciente sul perché avesse abbandonato tutto per concentrarsi sulla fotografia di scene del crimine e cadaveri. Per lui, era semplicemente un modo per guadagnarsi da vivere mentre continuava col lavoro creativo, allestiva mostre e sognava la fama internazionale. Per molti anni, chi gli era vicino aveva capito le sue ragioni, però tutti avevano preferito tenere per sé le proprie teorie. Fotografando cadaveri, Philip tentava di trovare qualcosa che non era riuscito a vedere nel corpo del padre morto. Un'anima, o qualcosa di simile.
Nei pressi dell'ospedale riprese a piovere. Strappato dai suoi sogni a occhi aperti, Philip tornò a concentrarsi sul duro presente. Entrati nell'area dell'ospedale, parcheggiò nel primo spazio libero, poi lui e Laura corsero all'accettazione, luminosissima. Nessuno dei due notò lo splendido fulgore rosso del sole che cominciava ad apparire nel cielo alle loro spalle.
A telefonare era stata un'amica di Jo, Samantha, che si trovava in automobile con lei e Tom, il suo ragazzo. Samantha si era procurata solo tagli e lividi, ma non aveva idea delle condizioni degli altri due. La incontrarono all'accettazione. Stava parlando con un giovane medico, che li guidò in un corridoio, fino a una stanza a quattro letti. Jo era in quello in fondo, separata dagli altri pazienti da una tenda.
Per Laura e Philip fu un sollievo vederla seduta su quel letto. Aveva una brutta ferita sopra l'occhio destro mentre il braccio, immobile sul lenzuolo, era stato fasciato fino al gomito.
«Ha subito una commozione cerebrale», riferì il medico guardando la cartella di Jo.
«La tomografia computerizzata non ha rivelato niente.
Abbiamo dovuto darle qualche punto, ma credo che sopravviverà.» Laura strinse dolcemente la figlia. Jo sorrise a Philip, a fianco del letto.