Ritual (40 page)

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Authors: William Heffernan

Tags: #Fiction, #Thrillers, #Suspense

BOOK: Ritual
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33

 

Kate sbirciò l'orologio che teneva sulla scrivania. C'era tempo a sufficienza, si disse. Gli avrebbe lasciato un messaggio per dirgli dove trovarla. Scarabocchiò frettolosamente qualche riga con la sua grande calligrafia e lasciò il biglietto sulla scrivania in modo che fosse chiaramente visibile dalla porta. Poi prese la ventiquattrore e uscì, indugiando brevemente sulla soglia per guardarsi indietro. Sì, pensò rassicurata. Non poteva non notare il biglietto.

 

In piedi sulla porta dell'ufficio, Paul Devlin fissava la scrivania vuota di Kate. Era in anticipo di una buona mezz'ora, ma aveva sperato di trovarla al lavoro e convincerla a uscire prima, e magari a fermarsi da qualche parte per parlare un po'. Poi notò il biglietto; entrò, lo lesse. La vecchia biblioteca, ripeté tra sé, sforzandosi di ricordare dove fosse. Ma sì, certo, al piano di sopra.

Salì i gradini a tre a tre, spalancando la porta con tanta forza da mandarla a sbattere contro il muro, e si affrettò lungo il corridoio che conduceva alla biblioteca.

Chiamò forte Kate mentre entrava nella stanza, ma sulla soglia indugiò; non c'era nessuno. La attraversò in fretta e salì la scala a chiocciola che portava all'ammezzato, dove controllò a uno a uno i corridoi che si affacciavano tra gli scaffali.

In piedi davanti alla balaustra, sbatté con forza la mano sulla ringhiera, imprecando tra sé. Si sentiva teso e provava acutissima la sensazione che qualcosa non andasse.

Era solo una questione d'istinto, lo sapeva, ma nel corso degli anni aveva imparato a non sottovalutare quelle impressioni.

Si precipitò di nuovo giù per le scale, tenendosi ben stretto al corrimano per non scivolare sugli scalini di metallo. Fuori della biblioteca guardò in entrambe le direzioni, gridando il nome di Kate. Niente.

Alla sua sinistra Devlin scorse la porta aperta di uno dei locali adibiti a deposito, lo stesso dove Kate era stata aggredita, e si avviò in quella direzione, sbottonandosi automaticamente il cappotto in modo da potere impugnare con rapidità la pistola.

Nella stanza buia cercò a tastoni sul muro l'interruttore e quando lo premette la luce al neon lo folgorò; restò per qualche istante immobile, quasi ipnotizzato dallo strano spettacolo.

È come un fottuto zoo senza gabbie, si disse guardando la schiera di animali che torreggiavano davanti a lui. Ma uno zoo per morti.

Avanzò lentamente, girando intorno a un grosso leone i cui occhi di vetro sembravano seguirlo passo passo. Alla sua sinistra un leopardo si era fermato per sempre mentre spiccava un balzo, i denti scoperti, gli artigli sfoderati. Un brivido gli corse lungo la schiena mentre fissava quegli occhi lucenti che chissà come, perfino nella morte, sembravano irradiare odio.

Indietreggiò e si volse, aggirando un enorme coccodrillo con le fauci spalancate, quasi si stesse preparando ad azzannargli la gamba. Dietro il rettile c'era un orso immenso, il muso contorto in un ringhio di minaccia.

Devlin si fermò di colpo, gli occhi fissi su una macchia colorata tra le zampe dell'animale. Si avvicinò in fretta, si inginocchiò a terra. Sangue fresco.

Si rialzò lentamente e voltate le spalle alla pozza di sangue cominciò a perlustrare la stanza, temendo quello che avrebbe potuto scoprire. Il suo sguardo indugiò su un grosso struzzo; lì vicino un mantello piumato sembrava sospeso in aria, il collo alto e le piume... una vivida mescolanza di rossi, blu e verdi iridescenti come una cascata multicolore che arrivava fino al pavimento.

C'era qualcosa in quell'oggetto, qualcosa che lo disturbava. Si avvicinò lentamente, una mano tesa per toccarlo... e la ritrasse di scatto quando il manto fece un giro completo, rivelando una maschera di pietra da cui due occhi torvi lo guardavano attraverso i fori.

Portò la mano alla pistola, ma aveva appena cominciato a estrarla dalla fondina quando una pesante ascia di bronzo calò sul suo braccio, squarciandolo fino all'osso.

Con un urlo di dolore, Devlin barcollò all'indietro e la pistola gli sfuggì dalla mano inerte; andò a colpire con la gamba il coccodrillo e, perso l'equilibrio, cadde a terra.

Con il fiato corto, la mano sinistra stretta intorno al braccio ferito, riuscì a rimettersi sulle ginocchia; vide la figura piumata chinarsi con lentezza, lasciar cadere l'ascia insanguinata ai suoi piedi, poi rialzarsi con gesti maestosi, brandendo un lungo pugnale di ossidiana.

Paura e rabbia cieca lo assalirono mentre la guardava avanzare verso di lui. A fatica si rimise in piedi, mentre il ricordo delle teste tagliate lo colpiva con violenza... Quella di Cynthia Gault, di Alexandra Ross, di Grace Mallory... e ora, da qualche parte, ne era certo, anche quella di Kate Silverman.

Ma non la mia, figlio di puttana, pensò mentre il cervello gli urlava di voltarsi e correre, fuggire.

La figura arrivò all'altezza del coccodrillo e si fermò. Poi abbassò la mano con sorprendente rapidità, il braccio teso in tutta la sua lunghezza, e la punta della lama penetrò nella guancia di Devlin, aprendola dallo zigomo alla mascella.

Devlin sentì il sangue caldo scorrergli lungo il viso e il collo. Urlando, si voltò e cominciò a correre, con le gambe che minacciavano di tradirlo a ogni passo. Si catapultò nel corridoio, ma perse per un istante il controllo del proprio corpo e andò a sbattere contro la parete di fronte, lasciandovi una larga impronta sanguigna.

Si voltò a guardare la figura piumata che ora riempiva la soglia e alle orecchie gli arrivò un sibilo rauco, seguito da una sorta di palpitante ronzio. Appoggiandosi al muro, si costrinse a rialzarsi e si trascinò lungo il corridoio; incespicava di continuo, un velo nero gli copriva gli occhi.

Di colpo non sentì più niente sotto di sé e cadde a faccia in giù, sul pavimento reso scivoloso dal suo stesso sangue. Tornò a rialzarsi, senza mai smettere di guardarsi alle spalle, il braccio sano sollevato per proteggersi dai colpi. La figura piumata avanzava con lunghi passi maestosi.

Ancora una volta si slanciò in avanti, sbattendo a ogni passo contro il muro, lasciando dietro di sé una traccia color cremisi, mentre il cervello gli urlava di trovare un posto in cui nascondersi.

Davanti a sé una porta a vetri rompeva l'uniformità del muro e lui vi si buttò contro, impugnando con disperazione la maniglia. La porta era chiusa. Sopraffatto dal panico, fracassò con un pugno il vetro, poi infilò il braccio all'interno, girò il pomolo, entrò.

Barcollò, cadde su un ginocchio e si rialzò. Nella stanza si allineavano file e file di grandi recipienti di vetro pieni d'alcool e in ciascuno di essi galleggiavano i resti di animali morti da lungo tempo. Ce n'erano migliaia. Vacillando raggiunse uno degli scaffali e vi si aggrappò mentre si voltava a guardare il suo inseguitore che in quel momento varcava la soglia.

Allora premette con forza i palmi delle mani sulla base di uno dei recipienti di vetro e poi, chiamando a raccolta le poche forze rimastegli, scaraventò il recipiente con un urlo contro l'essere che voleva ucciderlo.

Inerme, guardò il recipiente infrangersi ai piedi della figura piumata e indietreggiò barcollando, sapendo di non avere la forza necessaria per tentare di nuovo, sapendo che stava per morire.

Lentamente l'assassino impugnò il coltello con entrambe le mani, la lama puntata contro il soffitto, e lo sollevò alto sopra la testa.

Centimetro dopo centimetro, Devlin indietreggiava lungo uno degli stretti corridoi che si aprivano tra gli scaffali. La figura stava immobile e la sua enorme cappa iridescente sembrava riempire tutta la stanza.

Poi, senza alcun preavviso, lasciò ricadere il braccio. La lama rimase immobile per un istante, quindi lentamente si mosse a indicare lo scaffale di fronte. Continuando a indietreggiare, Devlin la seguì con gli occhi e un'esclamazione sgomenta gli scaturì dalle labbra e le gambe gli cedettero, facendolo crollare a terra. Ma non staccò gli occhi dal recipiente contro cui era puntata la lunga lama verde e in cui galleggiava la testa recisa di Malcolm Sousi.

Con un gemito tornò a voltarsi verso la figura che torreggiava su di lui e il terrore lo riempì quando sentì la sua stessa voce urlare, rimbombando in tutta la stanza.

«Noooo!» singhiozzò. «Noooo!»

Ancora una volta il pugnale si levò, ma le mani che lo brandivano cominciarono a tremare e all'improvviso la figura si voltò e corse via.

Devlin rimase solo sul pavimento, con gli occhi morti di Sousi che lo fissavano ciechi dallo scaffale sopra di lui.

Ansimava, e l'emorragia che non accennava a fermarsi lo rendeva debolissimo. Cercò inutilmente di alzarsi; allora si slacciò la cintura, la sfilò dai pantaloni e si sforzò di legarla intorno al braccio ferito come un laccio emostatico.

Si irrigidì sentendo dei passi nel corridoio e si guardò intorno alla ricerca di qualcosa con cui difendersi. Ma non vide altro che una lunga scheggia di vetro; uno dei frammenti del recipiente che aveva scagliato contro l'assassino. Era ad almeno quattro metri di distanza.

Si voltò a fatica e facendo perno sul braccio sano cominciò a trascinarsi lungo il pavimento. Tutte le fibre del suo corpo urlavano per il dolore, ma lui lo ignorò, gli occhi fissi sulla scheggia che rappresentava la sua unica possibilità di salvezza. Doveva raggiungerla, trovare il modo di fermare il pazzo che aveva tentato di ucciderlo.

Sentì i passi fermarsi, poi riprendere più veloci e infine arrestarsi fuori della porta proprio nel momento in cui afferrava il vetro con tanta forza che lo sentì conficcarsi nel palmo della mano. Non provò dolore, tuttavia, mentre lottava per rimettersi in piedi, preparandosi a combattere.

Comparve Kate, gli occhi sbarrati e pieni di terrore. Lo fissò, la bocca atteggiata a una smorfia di incredulità e sgomento. «Oh, mio Dio,» esclamò poi, affrettandosi verso di lui, che si era lasciato di nuovo cadere a terra. Si inginocchiò al suo fianco e, ignorando il sangue, cominciò a stringere l'improvvisato laccio emostatico.

«L'assassino,» ansimò Devlin. «È qui. Vada a chiamare aiuto. Presto.»

Un'ombra comparve sulla soglia nascondendo la luce che proveniva dal corridoio. Kate si voltò, terrorizzata, ma era Rolk, con le mani strette intorno al calcio della pistola, gli occhi che perlustravano ogni angolo, ogni possibile nascondiglio. «Stai bene, Paul?» domandò senza guardarlo.

«Sì.»

«No, invece,» gridò quasi Kate con voce piena di paura. «Ha bisogno di un dottore. Subito.»

«Dov'è?» chiese Rolk, ignorandola.

«È scappato,» mormorò Devlin. «Un paio di minuti fa.»

Rolk abbassò la pistola e gli si avvicinò; esaminò in fretta la ferita, poi guardò Kate, gli occhi duri. «L'hai visto?»

Lei scosse la testa. «Ero nel bagno delle signore. Quando sono uscita ho visto tutto quel sangue nel corridoio. L'ho seguito e ho trovato lui. Non c'era nessun altro.»

«Maledizione!» imprecò Rolk. «Avevo intenzione di chiamarti per dirti di non venire, Paul. Poi le cose hanno cominciato a muoversi troppo in fretta e non ne ho avuto il tempo.» Serrò i denti e un muscolo cominciò a guizzargli sulla mascella.

«Sai chi era, vero?» bisbigliò Devlin.

Lui annuì. «Caliento. Non appena ti avremo caricato su un'ambulanza andrò a prendere quel piccolo bastardo.»

Devlin respirava sempre più a fatica. Doveva lottare per tenere gli occhi aperti. «Hai detto 'piccolo',» ansimò rauco. «Ma non mi è sembrato piccolo. Più basso di me, sì, ma non piccolo.»

«Che cosa indossava?»

«Il mantello. E una maschera di pietra.»

«Ecco perché ti è parso più alto,» disse Rolk. Si rivolse a Kate. «Cerca un telefono. Chiama il 911 e fa' venire un'ambulanza.»

Mentre lei si precipitava fuori, tornò a guardare Devlin e gli posò una mano sulla spalla.

«Sei sicuro che sia lui?» mormorò il ferito.

Rolk annuì. «Al novanta per cento. Ma farò in modo di accertarmene, per quello che ti ha fatto.»

 

34

 

Sette agenti irruppero nella stanza. La porta del minuscolo appartamentino di Brooklyn era stata sfondata senza la minima fatica e Roberto Caliento sorpreso mentre, seduto su un vecchio divano, guardava la televisione, un vecchio apparecchio in bianco e nero.

Incredulo, osservava i sette uomini che gli stavano davanti, sei dei quali gli puntavano contro una pistola. Ma era il settimo a spaventarlo di più. Non era armato, ma il suo sorriso sembrava più pericoloso di qualunque arma.

«Salve, Roberto,» lo salutò Rolk. «Una tranquilla serata a casa, vedo.»

Caliento ricambiò il suo sguardo, ma senza parlare.

«Perquisitelo,» ordinò Rolk, e rimase a guardare due agenti che lo tiravano in piedi e, scaraventatolo a gambe larghe contro una parete, lo perquisivano minuziosamente.

«È pulito.»

«Come la neve nel centro di New York,» rise lui. Si voltò, lanciò un rapido sguardo nella piccola cucina, nel bagno, nella camera da letto. Poi tornò dai suoi uomini. «Voi due state di guardia qua fuori. Nel caso arrivasse Domingo. E voi sul retro. Moriarty, tu davanti alla porta d'ingresso. Lopez, interroga questo bastardo mentre io dò un'occhiata in giro.»

Cominciò dalla cucina, mettendola a soqquadro mentre ascoltava Lopez interrogare Caliento in spagnolo.

«Dice che non sa di che cosa stiamo parlando,» gli urlò Lopez in inglese.

«Usa argomenti più convincenti,» gridò di rimando Rolk, e annuì con aria soddisfatta quando sentì il rumore sordo del pugno di Lopez.

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