Ritual (36 page)

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Authors: William Heffernan

Tags: #Fiction, #Thrillers, #Suspense

BOOK: Ritual
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Il sorriso sbiadì. Tutti quegli anni passati a tormentarsi, a dubitare, a rifiutare se stessa, pensò. Tutti quegli anni in cui non aveva fatto altro che odiarsi. Un odio che, lo sapeva, nasceva dalla sua educazione New England, dalle convinzioni che le erano state inculcate e secondo le quali le persone come lei erano paria, fuori casta con cui i timorati di Dio non dovevano avere nulla a che fare. Neppure gli anni vissuti a New York, dove si tollerava quasi tutto, erano riusciti a cancellare il senso di colpa, la convinzione che ci fosse qualcosa di malvagio in lei, qualcosa che doveva essere represso, schiacciato. Ma adesso basta, si disse. L'odio verso se stessa non avrebbe più fatto parte della sua vita.

Grace abbassò gli occhi sulla scrivania, su cui erano accatastati gli ultimi documenti necessari per la mostra. Neppure il suo lavoro avrebbe subito intralci, rifletté. Le indagini apparentemente senza fine della polizia non avrebbero contaminato la sua opera, quell'opera che le avrebbe portato il riconoscimento atteso da tanto tempo. Una piccola maschera di pietra posata in un angolo attirò la sua attenzione e subito i suoi pensieri andarono a Ezra Waters. Chiuse gli occhi. Ma quella morte non aveva seguito le procedure del rito e di conseguenza non poteva essere in alcun modo collegata alla mostra. Riaprì gli occhi, senza staccarli dalla maschera. Le sarebbe piaciuto che fosse così, ma non era vero, e lo sapeva.

«Grace?»

Il richiamo la fece sussultare. Sollevò la testa e vide Kate che si avvicinava. «Che cosa succede, Kate? Hai l'aria così cupa!»

«C'è stato un altro incidente questa mattina. Mi ha lasciata un po' scossa.»

«Un'altra offerta votiva? Che cosa?»

Kate scosse la testa. «Proprio non saprei come definirlo. Era un messaggio. Registrato su una cassetta. Qualcuno l'ha lasciato per me. In una chiesa, pensa.»

«In una chiesa?» ripeté Grace, incredula. «Com'è possibile che qualcuno sapesse che saresti entrata in una chiesa?»

«È proprio questo il punto, nessuno. Il mio è stato un gesto impulsivo. Questo significa che ero seguita. Da... da...»

«Hai avvertito la polizia?»

Kate annuì, con gli occhi che mandavano lampi di collera. «E uno di loro ha avuto il coraggio di criticarmi perché avevo toccato quel maledetto registratore.» Era tesissima, ma si costrinse a tirare un profondo sospiro per calmarsi. «Non so bene che cosa si aspettassero da me,» riprese con voce più tranquilla. «Forse avrei dovuto restare lì, in quella chiesa vuota, ad aspettare che il pazzo mi saltasse addosso.»

«Hai visto qualcuno?» domandò Grace, tutto il corpo teso per l'eccitazione.

Kate fece un cenno di diniego. «È questa la cosa peggiore. Non sono riuscita a vederlo.»

Probabilmente, si disse Grace, era stata una fortuna. «Devi cercare di dimenticare quello che è successo, cara. È l'unica cosa possibile, credimi.»

Le sorrise. Quel giorno Kate indossava una semplice camicetta bianca e una gonna di lana con un paio di stivali di pelle. Era particolarmente graziosa, pensò, e sembrava ancora più giovane di quanto fosse, quasi una ragazzina.

Si alzò e allungò una mano a sfiorarle la guancia. «Stavo pensando che oggi sei deliziosa. Un po' di occhiaie, sì, ma è normale.»

Kate si strinse nelle spalle. «Il fatto è che non riesco a non pensare a quello che sta succedendo. Anche il mio lavoro comincia a risentirne.»

«Te la stai cavando benissimo, cara. La colpa è della follia che ci circonda. Dovresti cercare di distrarti, di uscire un po' di più. Di dimenticare il lavoro
e
questa sgradevole esperienza.»

Un lieve sorriso nervoso aleggiò sulle labbra di Kate, ma svanì quasi subito.

«Anzi,» riprese Grace, «quasi quasi dovrei seguire anch'io i miei consigli. Che cosa ne dici di cenare con me, stasera? E dopo, magari, potremmo procurarci i biglietti per qualche concerto.»

Kate voleva rispondere, ma non trovava le parole, e in quel momento Grace le accarezzò di nuovo la guancia. «Sarebbe carino se potessimo vederci più spesso,» disse. «Non qui, voglio dire. Vorrei che potessimo trascorrere un po' di tempo insieme non sul lavoro.»

«Scusate!»

Al suono di quella voce Grace voltò di scatto la testa mentre Kate indietreggiava. Sulla soglia c'era Malcolm Sousi; sogghignava e accanto a lui c'era padre Lopato, un'espressione impacciata sul viso.

«Che cosa c'è, Malcolm?» domandò Grace in tono infastidito, quasi irritato.

«Oh, niente che non possa aspettare. Non mi sognerei mai di interrompere un momento di tenerezza tra due collaboratori, quindi torneremo più tardi.»

La Mallory lo guardò con durezza. «Benissimo,» scattò. «Fai così. Toma più tardi.» Lanciò un'occhiata di sfuggita al prete, che era arrossito, e lo vide distogliere gli occhi. Stupido, pensò.

«Quell'uomo è di una noia insopportabile,» disse rivolta a Kate, quando i due furono usciti. «Giuro che se non avesse un cervello di prim'ordine, me ne sarei liberata già da tempo.» Sospirò e si costrinse di nuovo a sorridere. «Di cosa stavamo parlando? Ah, sì, di cenare insieme stasera. Allora, che cosa ne dici?»

Le guance di Kate si colorirono leggermente. «Temo di non potere, Grace. Sarebbe carino, ma ho già altri progetti. Un'altra volta, forse.»

Il sorriso dell'altra svanì. «Ma certo, cara. Un'altra volta.» Sentì l'infelicità farsi strada dentro di lei, ma la scacciò in fretta e sorrise ancora.

 

Ancora sopraffatta dagli eventi della mattinata, Kate giocherellava nervosamente con la sua insalata. Seduto di fronte a lei, Devlin si sforzava di vincere la reticenza dietro cui la ragazza si era trincerata fin da quando avevano lasciato il museo.

Era stato Rolk a chiedergli di occuparsi di quell'ultimo incidente e anche di assumersi l'incarico di andare a prendere Kate ogni mattina e riaccompagnarla a casa la sera.

Dal canto suo, Rolk si sarebbe concentrato su Lopato, e Devlin si chiedeva se era stata una svolta nelle indagini a provocare quella decisione, o se il suo capo voleva semplicemente tenersi lontano dalla donna. Sperava che fosse quella la ragione.

Così, seduto a uno dei tavoli vicini alla vetrata del Ginger Man Restaurant, Devlin lottava contro l'ostinato silenzio di Kate.

«Non c'erano impronte sul registratore; a parte le sue, naturalmente,» cominciò.

«E questo che cosa vorrebbe dire?» scattò pronta lei.

«Niente. Solo quello che ho detto.»

«Sarei dovuta rimanere lì a fare la guardia a quel registratore in attesa che il pazzo tornasse?» Aveva gli occhi pieni di collera e la voce le tremava. «O avrei dovuto lasciarlo lì in modo che lui potesse tornare a riprenderselo? Sarebbe stata la cosa migliore, non crede? In questo modo avreste avuto un'ulteriore dimostrazione che forse è la Silverman a organizzare tutto quanto.»

«Nessuno ha mai detto una cosa del genere,» obiettò Devlin, nella speranza di sedare la sua collera.

«No? Be', diciamo che è stato tacitamente insinuato più volte.»

Il poliziotto fissò quello che restava del suo hamburger, quasi sperando di trovarvi qualche suggerimento. «Abbiamo fatto analizzare il nastro e siamo ragionevolmente sicuri che la voce registrata sia quella di un uomo.»

«Perché soltanto ragionevolmente sicuri?»

«Quella specie di rauco sussurrio. Quegli strani ansiti. È difficile esserlo al cento per cento, ma i ragazzi del laboratorio sono quasi certi che la struttura delle frasi e il tipo d'inflessione indichino un uomo.» Esitò, incerto se continuare o no, e alla fine decise per il sì. «Abbiamo intenzione di confrontare la voce con quella degli indiziati, ma naturalmente neppure questo potrà darci una certezza.
I
nostri esperti pensano che l'autore della registrazione abbia usato un fazzoletto o qualche altro sistema per alterare la voce. E in tribunale qualunque buon avvocato farebbe polpette di una prova come questa. Ma potrebbe comunque indicarci la giusta direzione.»

«Analizzerete anche la
mia
voce?» domandò Kate.

Devlin la guardò negli occhi e vi lesse la collera pronta a scatenarsi di nuovo.

«Lo faremo con tutti...»

«Proprio come pensavo,» lo interruppe lei.

Devlin si protese in avanti, offrendole un cauto sorriso. «Dobbiamo farlo,» tentò di spiegare. «Dobbiamo eliminare ogni ragionevole dubbio sulla sua presunta responsabilità.»

Kate aveva ripreso a giocherellare con l'insalata, ma la sua irritazione andava scemando a poco a poco. «Che grado di precisione hanno le impronte vocali?»

«Lo stesso delle impronte digitali. A condizione che siano chiare e non disturbate.»

«Mentre queste lo sono.»

Devlin annuì. «Temo di sì.»

«Allora perché prendersi la briga di analizzarle?» La voce di lei era piena di frustrazione.

«Diciamo che è un altro passo in avanti. La nostra regola è di non trascurare nulla, e di solito è questo che ci fa vincere, alla fine.»

«Di solito,» borbottò Kate.

Devlin la guardò abbassare gli occhi sul piatto. Avvertiva la sua paura e si chiese fino a che punto l'avesse turbata il messaggio trovato nel confessionale. Eppure lei aveva inseguito il misterioso personaggio, aveva cercato di guardarlo in faccia. Si era dimostrata una donna di fegato.

«Perché era andata in chiesa?» domandò.

La vide esitare. «Problemi personali. Pensavo che vi avrei trovato un po' di conforto.» Kate si lasciò sfuggire una risata breve, amara. «Ma naturalmente non ha funzionato.»

«Non sapevo che fosse cattolica,» osservò lui, per saperne di più. «Con un nome come Silverman, avevo pensato...»

«Ho già spiegato tutto al suo tenente.
I
miei genitori sono morti e io sono stata cresciuta dalla sorella di mia madre, sposata a un uomo di nome Silverman. Mi hanno adottata.»

Devlin annuì. «Strano che Rolk non me ne abbia parlato.»

«Di stranezze il suo tenente ne ha molte,» replicò Kate con voce tesa.

Ecco che cos'era, pensò allora lui. Un litigio. La guardò con rinnovata attenzione. Era una donna molto bella, notò non per la prima volta, ma soprattutto si avvertiva in lei una padronanza di sé che illuminava, enfatizzava le altre sue qualità. Sì, riusciva a capire perché Rolk ne era stato attratto; lo era lui stesso. Sarebbe stato anche troppo facile lasciarsi prendere da lei, pensò. Desiderare di proteggerla da tutte le minacce e le paure che parevano circondarla come una nuvola densa. Non certo l'atteggiamento giusto, per un poliziotto, ma capiva perfettamente come potesse accadere.

«A che cosa sta pensando?» gli chiese in quel momento Kate.

«Che è una donna molto bella,» disse Devlin, e le parole gli uscirono di bocca senza che quasi se ne rendesse conto.

 

30

 

China sul tavolo del laboratorio di antropologia, Grace Mallory esaminava i frammenti di un reperto. Era un pezzo meraviglioso e valeva il tempo e le spese necessarie alla ricostruzione, si disse. Con una lente di ingrandimento cominciò a studiare la pigmentazione dei colori usati per decorare la ciotola. Non c'erano dubbi sulla sua autenticità e ancora una volta la tenacia mostrata da padre Lopato nel rintracciare tutti i frammenti di un oggetto andato in pezzi più di sette secoli prima la stupì favorevolmente.

Alla fine Grace si rialzò e posò sul tavolo la lente d'ingrandimento. Sorrise tra sé mentre cercava di immaginare il sacerdote che faceva uscire clandestinamente dal Messico quel magnifico oggetto. Ovviamente, lei aveva fatto la stessa cosa in molte occasioni, così come tutti gli antropologi di sua conoscenza. Nondimeno, continuava a meravigliarla come Lopato riuscisse a operare una distinzione tra le questioni morali che gli si presentavano nei suoi diversi ruoli di sacerdote e studioso. Comunque, grazie al cielo ci riesce, pensò. Perché in caso contrario non avrei questo magnifico esemplare davanti a me.

Stava rimettendosi al lavoro quando sentì la porta aprirsi e poi richiudersi. Concentrata sul frammento di ceramica, si limitò a lanciarsi una rapida occhiata dietro le spalle.

«Non pensavo di vederla stasera,» disse. «Ma dato che è qui, venga a dare un'occhiata a questo pigmento. Ne vale la pena.»

Una mano guantata posò la ventiquattrore sul pavimento, la aprì e ne estrasse un'ascia di bronzo dagli intagli elaborati. L'ascia si levò alta nell'aria, ondeggiando appena quando si fermò all'altezza della schiena di Grace. Poi cominciò l'ansito, il sibilo dell'aria risucchiata tra i denti e poi espulsa.

«Deve essersi beccato un raffreddore,» osservò la dottoressa. «Perché non...»

L'ascia la colpì una decina di centimetri sotto il collo, recidendo la spina dorsale, e la violenza del colpo la scagliò contro il tavolo, sparpagliando in giro i frammenti che stava esaminando. Perso ogni controllo motorio, il corpo scivolò all'indietro e infine rotolò a terra.

Grace fissava il soffitto e la sua mente si sforzava di comprendere il significato di quello che le stava accadendo. Poi la figura entrò nel suo campo visivo e vide la maschera di pietra che le pendeva dal collo, sospesa a una cinghia di cuoio. La fissò in viso, tentando inutilmente di parlare.
Tu. Sei tu.
Quelle parole d'accusa continuavano a fluttuarle nella mente, mentre i suoi occhi indugiavano sui lineamenti familiari. Ma no, non era affatto lo stesso viso.

Lentamente una mano sollevò la maschera davanti al volto e lei non vide altro che due occhi accesi che la scrutavano attraverso i fori tagliati nella pietra. Gli occhi, e la lunga lama verde del pugnale di ossidiana.

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